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martedì 1 giugno 2021

Addio mia bella signora [di Fernando Cerchio - 1954]

“Gino ... ci perdiamo da vivi e poi ci andiamo a cercare tra le carte impolverate... non è strano???”. Marilisa 



 La storia di Mariolina Mittiga, venuta a mancare la sera del 30 maggio, scorso è comune alla maggior parte del diffuso popolo platiese che vive fuori dalle mura native. Oggi il vero paese è altrove e il cordone ombelicale che unisce quel popolo alimenta soltanto ricordi mediatici. Mariolina era nata in seno ad una famiglia talmente importante quanto dimenticata da chi a Platì oggi vive. Ultima in ordine di arrivo su questa terra, con la maturità ebbe in sorte quell’ esodo quasi obbligatorio che colpì anche le sorelle e il fratello e non risparmierà in tarda età i genitori. Rispetto gli altri non andò lontano avendo sposato un rinomato oculista bovalinese: il dott. Rosario Catanese. Per essere più chiari Mariolina era nata da Giuseppe Epifanio Mittiga e Maria Antonia Zappia. E volendo essere ancora più aperti dirò che Giuseppe Epifanio Mittiga, zio Giuseppino, è stato un luminare della medicina ed in paese esercitò come nessun altro la professione di chirurgo, ginecologo, ortopedico, ufficiale sanitario doti unite a quelle di musicista e primo fotografo platiese. Le sue specializzazioni in medicina gli servirono a salvare numerosi feriti, anche in modo anche grave, fra gli scampati al disastro che colpì il paese nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1951, trasformando la sua abitazione in un vero e proprio ospedale da campo. Caterina (Nella), Lisa, Rocco e Mariolina quel genitore lo hanno adorato, come anche lo hanno adorato i suoi nipoti.

Nella foto in apertura Mariolina è alla vostra sinistra, accanto a lei Pina Miceli.

domenica 30 maggio 2021

Le stelle non hanno padroni [di Salvatore Bongiorno - 2018]

"Non lasciate che nessuno scriva la storia al posto vostro".



UN PICCOLO CENTRO DI CALABRIA IN LOTTA CONTRO L'ANALFABETISMO
I bimbi coi loro cartelli guidavano il corteo di Platì
Dove sono ancora vive le tracce dell'alluvione del 1951 — Ventiquattro ore di sciopero per le scuole — Il 48 per cento di analfabeti nel paese natale di Corrado Alvaro
 
 
DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
PLATI', novembre.
Venire quassù, da Reggio, è un viaggio nell'estate; prima col treno fino a Bovalino Marina, poi m motoleggera sulla strada tra le colline basse, distese sotto un incredibile sole di novembre, folte di ulivi centenari, fra i quali ogni tanto scopri una palma, le larghe foglie di un banano. La strada va su a larghe curve, e ad ogni curva rivela nuove prospettive, nuovi giochi di volumi e di colori, richiama alle mente altre strade, più famose, più illustri, che attraversano luoghi celebrati: la cornice della Costa Azzurra, da Menton a Nizza. E anche qui si attraversa un paese che si chiama Benestare, un nome senza dubbio suggerito dalla mitezza del clima, dalla bellezza inimitabile dei luoghi.
E', difficile ricordare che questa strada ci sia portando in un paese distrutto, sconvolto da un cataclisma d'un genere che si è abituati a considerare «naturale», dall’alluvione del 18 ottobre 1951. Cosa mai può essere, in questi luoghi, una alluvione? Non vi sono grandi fiumi, qui, solo torrentelli, che ora - nella stessa stagione in cui, or è un anno, dilagarono e travolsero case e vegetazioni — appaiono, in magra, appena come tracce lievi tra il verde delle piante e il rosso delle foglie autunnali. Eppure sulla linea ferroviaria, a pochi chilometri de Bovalino abbiamo ben visto i tre ponti crollati, fra i quali quello grande, a traliccio dì acciaio, immersi per metà in acqua come il relitto di un naufragio. E' la testimonianza certo che queste deboli acque torrentizie possono anch'essi, in determinate circostanze, acquistare una forza tremenda, moltiplicarsi giungere a volle come un flagello.
Ma è facile capire che basterebbe assai poco per imbrigliare queste acque quando esse sono come sono normalmente. come le vediamo ora, vene esigue di questo splendido tessuto vegetale. Assai poco, qualche argine solido, convenientemente alto e disposto nella maniera giusta, e qui di alluvioni non se ne parlerebbe per secoli. Una spesa forse di alcune decine di milioni, e si sarebbero risparmiati i quindici miliardi di danni dell’anno scorso.
 
Chi è che paga?
 
E intanto, chi li paga, questi quindici miliardi? Il governo, finora, ne avrà speso forse uno, fra tutti i Comuni colpiti, che sono 84 sui 95 della provincia, 13 dei quali con particolare durezza. E il resto lo scontano quelli che hanno perduto gli ulivi, le semine, le case: i contadini poveri che non hanno ottenuto ancora alcun risarcimento, mentre i grossi proprietari qualche cosa hanno avuto, grazie ai mezzi di cui dispongono: avvocati, carta bollata, aderenze al ministero. I contadini poveri pagano con la loro miseria di ogni giorno quello che hanno perduto perché nessuno si era curato di arginare i fiumi. E i figli dei contadini poveri pagano: i bimbi di Platì che non vanno a scuola.
Lunedì scorso tutti i lavoratori di Platì, paese dì 4700 anime, si sono astenuti da lavoro per ventiquattr'ore, ed hanno dato vita a una indimenticabile manifestazione di protesta ver il mancato inizio dell’anno scolastico. Hanno chiesto che il governo disponga la costruzione immediata di un edificio scolastico, e che frattanto siano requisite le aule indispensabili nelle case dei privati. C'erano tutti quattro o cinquecento braccianti della zona, i 140 edili dell'ANAS che lavorano alla costruzione della strada 112, i 90 lavoratori del cantiere di rimboschimento, i 60 edili del cantiere Velonà, gli operai della centrale idroelettrica del signor Zappia: pochi questi, circa 20, perché la ditta non trova a credito e fondi necessari per la ricostruzione della centrale distrutta dalla alluvione. E con i lavoratori c'erano le famiglie, le donne, tutto il popolo di Platì, quattrocento senza tetto di Platì; e i bimbi: i bambini e i ragazzi senza scuola, che portavano ben alti i cartelli con la loro unica, essenziale, solenne rivendicazione, la scuola, la via della conoscenza, del sapere, che è strada alla libertà dall’incubo delle alluvioni.
 
 
Neanche un vano

Intorno a questa alta rivendicazione si è realizzata qui la più larga unità del popolo: anche il sindaco democristiano, Giuseppe Zappia, si batte insieme con i lavoratori per avere l'edificio scolastico, e non se n'è avuto troppo a male per lo sciopero, sebbene fosse proprio lui a sostenere l'impossibilità di svolgere il nuovo anno scolastico nei locali utilizzati l'anno scorso. Perché, in definitiva, il fatto è questo: che in un anno, da quando l’alluvione è passata in questi luoghi travolgendo ogni cosa, qui non si è costruito un solo vano. Solo a tre chilometri e mezzo dal paese, in un posto scelto, non si sa per quali caratteristiche, da un sottosegretario d. c. sono sorte una ventina di casette tinte di giallo, prive di acqua e di luce, che dovrebbero essere fittate a duemilacinquecento lire il mese: una cifra praticamente inaccessibile a questi lavoratori. E allora in quello che resta delle case di Platì si ammucchiano le famiglie, esattamente come un giorno e una settimana dopo il disastro. E le promesse che De Gasperi pronunciò qui, di fronte a queste rovine, nello scorso marzo, sono rimaste quello che erano un basso espediente elettorale.
Poco discosto da Platì c'è un villaggio, San Luca, dove è nato uno dei nostri scrittori più significativi: Corrado Alvaro. Ma in queste zone le percentuali di analfabetismo sono le più alte d'Italia: il 48% è la media regionale, che sale al 53% nel reggino, e su questi colli tocca punte anche superiori all' 80%: «tutti quelli che hanno più di 50 anni non sanno leggere», mi dice il compagno Ciccio Catanzariti, segretario della C. d. L. di Platì, che ha molto meno di 50 anni. E si capisce che cosa questo significhi; significa, che per secoli e fino ai nostri tempi qui i padroni hanno avuto sempre ragione come nel caso — che Catanzariti mi racconta — del colono Francesco Spagnolo, che il padrone ha illegalmente estromesso dalla terra per presunta inadempienza del contratto a miglioria. Illegalmente, ma con l'aiuto di un avvocato, così che il povero Spagnolo non solo è rimasto senza lavoro, ma deve anche pagare una certa somma, per sentenza del tribunale. Significa che i grossi proprietari riescono ad ottenere dal governo il risarcimento per i danni subiti dall'alluvione, mentre i contadini poveri non hanno riavuto ancora nemmeno le case e le masserizie perdute. Significa, di conseguenza. che i grossi proprietari se ne infischiano di erigere gli argini, mentre i contadini — per i quali gli argini sono condizione di vita — non sono stati in grado, fino a prima del disastro dell'anno scorso di imporne la costruzione.
A qualche decina di chilometri da qui, nel comprensorio di Caulonia, i contadini hanno ripreso in queste settimane con rinnovato slancio la lotta per la terra ed hanno occupato i feudi che l'Ente di Riforma protegge, facendo vista di volerli scorporare. Quassù non c'è feudo, ma l’aria che tira è la stessa. Anche qui troppo hanno comandato i padroni, i ricchi, i potenti e non potendo farlo in nome del diritto feudale, perché per una volta tanto il diritto feudale, che qui ha dato luogo agili «usi civici», non li favoriva, si sono rifatti con i codici e il latino: quello degli azzeccagarbugli e quello arcipreti. Anche adesso c'è a Platì un arciprete giovane vigoroso e latinista, che in pochi anni si e comprato un fondo per tre milioni e mezzo, in nome della Madonna di Loreto, e si è fatto la canonica prima ancora di costruire la chiesa.
E' attraverso queste e simili esperienze che i bambini e i ragazzi di Platì hanno capito che debbono andare a scuola. E i genitori analfabeti hanno capito che i loro figli devono imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Così è nato il grande sciopero di lunedì; un atto rivoluzionario, come l'occupazione delle terre nel Silano – Crotonese e a Caulonia. Un atto che dimostra come i contadini di Calabria e del Mezzogiorno abbiano trovato la via giusta per scrollarsi di dosso l'oppressione secolare dei padroni, dei potenti. Che ci dice come la battaglia per la cultura nel Mezzogiorno non sia più l'opera e il sacrificio di pochi intellettuali isolati, ma sia ormai lotta di masse, e perciò concretamente lotta per la libertà e il progresso.
FRANCESCO PISTOLESE
Testo e foto: L’UNITA’ sabato 15 novembre 1952

Il film suggerito in apertura oggi pur con alcuni difetti di composizione – le orribili riprese col drone e  la poca cura sui costumi – potrebbe sfigurare affiancandolo a Segreti di Stato (2003) di Paolo Benvenuti ma sta bene accanto a Il brigante (1961) di Renato Castellani che per altro aveva accanto Giuseppe Berto. La storia di Le stelle non hanno padroni (2018) ha luogo in Sicilia nei pressi di Petralia Sottana, Il brigante si svolge in Calabria, nel Marchesato in un arco di tempo che prende le mosse durante il Regime Nero per concludersi con l’occupazione delle terre nell’ immediato dopoguerra.

L’articolo dell’UNITA’ a 70 anni dalla sua pubblicazione può far storcere il naso alla maggior parte dei lettori di oggi ma apre uno squarcio sulla Platì di quegli anni e le conclusioni sono le stesse lamentate nei titoli finali di Le stelle non hanno padroni: l’abbandono delle terre e il conseguente esodo in massa.

Curioso appare l’elogio fatto sulla testata portavoce del PCI a don Ferdinando Zappia, gestore postale e proprietario unico della centrale elettrica, la quale veniamo a sapere contava 20 occupati, a suo tempo gerarca in fez e camicia nera come imponeva la moda. Come curioso appare l'elogio all'altro Zappia, Giuseppe, allora sindaco democristiano.

 

domenica 23 maggio 2021

Il ritorno [di Andrey Zvyagintsev - 2003]



Roma, 16 maggio 2021
Gentile Signora Rosalba
Ho ricevuto con molto piacere “I love Platì” ed anzitutto la ringrazio per l’attenzione che ha voluto riservarmi. Avrei voluto scriverle già da qualche giorno, ma avendo cominciato a leggerlo ho preferito prima finire la lettura.
Così sono andato col pensiero a circa 70/80 anni fa ritrovando circostanze, persone e luoghi della mia fanciullezza, con particolare riguardo a Pasqualino, amico carissimo dell’infanzia.
Alcune cose mi hanno coinvolto maggiormente: lo sforzo, talvolta fallito, di comprendere il dialetto di lettere e poesie, la bella protesta di Pasqualino ad alcuni importanti giornali ed il rivivere alcune vicende che, sia pure marginalmente, mi hanno, a suo tempo, interessato.
Una riguarda la famiglia Tassone. Io ho partecipato ai funerali di Don Giacomino che era gerarca fascista, come si diceva allora, ed ha avuto un funerale con tutto il rituale che allora si usava. Ero un “figlio della lupa” ed ho partecipato in divisa, naturalmente inserito nelle organizzazioni tipiche del regime.* Lo ricordo come una faticaccia ed una grande sudata. Ricordo, ancora, che da indizi e mezze parole dei grandi da me percepiti, avevo intuito, negli anni seguenti, che Giulia era sua figlia. Lei era alunna di mia madre, maestra a Platì, assieme ad un gruppetto di belle ragazze (Lisetta Zappia poi sposata con l’avvocato Murdaca di Locri, Lisetta Fera, Mariolina Galatti, una cugina di Pasqualino di cognome Miceli ed altre). Erano tutte molto affezionate a mia madre ed essendo io nato proprio quando loro avevano cominciato la scuola, appunto con lei, mi hanno per anni riempito di attenzioni e carezze.
I discorsi sottovoce si riferivano anche all’altra figlia, Peppinuzza. Si era sposata, in modo imprevisto, mi pare di ricordare, con un “ustascia” croato, scappato dal suo paese per motivi politici, accolto in Italia dal partito fratello (P.N.F.) ed inviato a Platì. Dopo l’inizio della guerra quando noi avevamo occupato la Jugoslavia, gli “ustascia” avevano preso il potere in Croazia e lui era rientrato, portandosi dietro la famiglia, e doveva essere diventato un personaggio importante.  Mi pare che Peppinuzza avesse mandato delle foto della villa dove vivevano e, a Platì, molto si diceva dell’aspetto sontuoso di questa dimora.
Poi le cose sono tracollate, lui è stato ucciso e non credo dai nazisti – ustascia e nazisti erano alleati – ma nella spietata guerra civile che là imperversava in contemporanea alla guerra mondiale.
Ho auto modo di parlare di loro anche uno o due anni fa. Io faccio il volontario presso una parrocchia romana e mi occupo di assistenza ai bisognosi. In tale veste ho conosciuto un giovane frate cappuccino croato che studia in una delle tante università ecclesiastiche romane. A Roma questi studenti sono molti e sono mandati a fare pratica ed a dare una mano nelle parrocchie locali. Così ci siamo conosciuti ed io gli ho raccontato di quel tale ustascia venuto al mio paese tanti anni fa. Lui fu molto interessato e voleva saperne il cognome. Purtroppo io non lo ricordavo e neppure mia sorella a cui lo avevo chiesto per telefono-
Ho rivisto con piacere anche la foto di Peppino Gliozzi, divenuto mio cugino per il matrimonio con Annina, figlia del fratello di mio padre di cui Peppino era, pure, molto amico nonostante la bella differenza di età.
Ricordo anche con piacere don Ernesto, anche se mi è più presente don Ciccillo che, a suo tempo, era noto a Platì per la grande velocità con cui diceva messa.
Insomma, son tornato un po’ “pratioto”, dopo essere stato un po’ ramingo perché, dai 10 anni in poi, ho vissuto a Locri, Bovalino, Reggio, Modena, Torino, Palermo, Bolzano, Trento e poi, da tempo, a Roma.
La ringrazio ancora dell’opportunità che mi ha fornito, mi complimento per gli appropriati versi di Giorgio Caproni che ha trascritto sul libro e le accludo, di seguito, un elenco di curiosità che mi rimangono. Non si senta in alcun modo obbligata. Se può, se ne ha il tempo e quando ne ha, mi dia qualche informazione. Trasmetta i miei saluti, se ne ha occasione, anche a zie e zii paterni.
Con un vivissimo ringraziamento finale. Le invio un cordiale Abbraccio
Carlo Zappia.


*Lo stesso ricordo è già stato riportato  da  Carlo Zappia di Pasquale e Caterina Lentini, meglio conosciuto come Carletto - primo cugino e più avanti con gli anni e lo potete confrontare qui:

Nella foto di apertura Carlo e Isabella Zappia di Giuseppe e Luly Carmelina
a seguire una manifestazione di Balilla sul finire degli anni '20 a Platì.Le foto appartengono a Isabella Zappia che le ha gentilmente messe a disposizione.
Andrey Zvyagintsev il regista del titolo di oggi è un direttore russo, Tarkovskiano più dello stesso Andrej Tarkovkij.





 


domenica 16 maggio 2021

Dove rumoreggia il torrente [di Heinz Paul - 1956]


LE ACQUE IMPETUOSE SCORRONO DOVE VOGLIONO SU UNA ZONA DI MOLTI CHILOMETRI QUADRATI

A distanza di 6 anni dalla “grande alluvione” 
il torrente Acone dev’essere ancora bonificato

Non sarà certo il tempo a fornire il denaro necessario perché i fiumi tornino nei loro letti primitivi e l’agricoltura rifiorisca sulla sterile distesa 
di pietre e sabbia.


Platì, 25 marzo
I fatti di Villapiana ci hanno improvvisamente riscoperto la realtà calabrese. Quanti di noi non si erano inconsciamente convinti che il tempo riesce a sanare anche piaghe delle alluvioni?
Un antico motto afferma che «il tempo è denaro». Qualcuno avrà forse creduto che abbandonando la Calabria a sé stessa ci penserà il tempo a fornire il denaro necessario perché i torrenti tornino nei loro
letti primitivi e l'agricoltura rifiorisca sulla sterile distesa di pietre e di gabbia che a noialtri calabresi regalò l’anno di grazia millenovecentocinquantuno.
Il materiale alluvionale trasportato dalle piene dei torrenti non ha ricoperto «tutto» il territorio calabrese: ne ha ricoperto solo una parte. Ma la distruzione di quella parte dell’agricoltura calabrese è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E doveva trattarsi del vaso di Pandora se ne sono usciti solo fame, miseria e disoccupazione.
Non è stato mosso un solo dito per la bonifica dei torrenti che hanno seminato questi mali in Calabria nel 1951 e nel 1953; e che continuano a seminarvi il panico e l'avvilimento.
Non è stato mosso un solo dito per la bonifica dell'Acone, il torrente responsabile del mal di fegato di quelle migliaia di persone che ogni anno durante lunghi mesi, cercano invano di contendergli palmo a palmo l’arida terra degli antenati.
Lungo il corso superiore del torrente Acone, sono stati posti in essere tempo fa i soliti palliativi, i soliti «specchietti per allodole» consistenti nella costruzione di qualche briglia che avrebbe la pretesa di infrangere le impetuose piene autunnali del torrente medesimo.
Nel corso inferiore, nemmeno questi palliativi sono stati attuati. Ma i messaggi-fantasma che riferiscono di interrogazioni al Governo da parte di qualche parlamentare, di mozioni, etc., continuano ad illudere la povera gente delle zone interessate.
L'Acone non ha più un letto. Scorre dove vuole, in una vastissima zona «tabù» che si stende per molti chilometri quadrati.
Abbiamo impiegato venti buoni minuti di marcia per attraversare da un capo all'altro questa impervia regione di pietre acuminate e di vecchi tronchi inservibili. «Se ci passerete l’anno venturo ne impiegherete venticinque, di minuti» - ci assicura un capraio del luogo.
Ce lo dice con una tranquillità olimpica, come se non glie- ne importasse niente. Non gliene importa, infatti, perché è capraio. Se l'Acone gli leva il pascolo in questa zona è dispostissimo ad andarsene altrove col suo gregge.
Appunto perché non ha interessi diretti alla bonifica: del l'Acone, gli chiediamo di dirci obiettivamente cosa ne pensa della indifferenza del Governo a questo importante problema delle popolazioni di Natile, Platì, eccetera.
Da una intervista con un capraio non ci si possono aspettare grandi cose; tuttavia il parere del capraio è lineare, primitivo, ma tagliente.
- «Quand'ero in America - ci dice - pagavo molte tasse, ma vivevo comodamente; adesso che sono tornato in Italia, a fare il capraio pago le tasse e vivo male».
Non ci meraviglia il fatto che il capraio sia stato in America. Così come il suo caso ce ne sono a centinaia qui da noi. Ci meraviglia però che nella sua mente sia così chiaramente delineato il concetto giuridico di prestazione e controprestazione che dovrebbe sussistere tra lo Stato e i cittadini contribuenti. E ci tornano alla mente le parole di un nostro concittadino, il quale, proprietario di un fondo posto su una riva dell'Acone, si lagna di dover pagare annualmente i contributi di bonifica, mentre la bonifica è sempre di là da venire.
E ci pensiamo, seguendo il corso del torrente fino al suo punto di confluenza col Ciancio.
Per questo punto di confluenza, l'Acone ha creduto bene di utilizzare il terreno di due vaste estensioni di proprietà privata; e per rendere questa proprietà ancora più «privata», l'Acone le ha tolto tutti gli alberi esistenti; in più l'ha privata delle case coloniche, delle stalle, etc. Il letto dell'Acone doveva per forza finire in bellezza.
Dalla confluenza, con il Ciancio, nasce un nuovo torrente: il Careri. Di quest'ultimo si è interessata la Cassa per il Mezzogiorno, la quale vi ha promosso una specie di bonifica. E' meglio non parlarne, però, di questa bonifica.
Per esempio sul letto del Careri, abbastanza ricco d'acque da non permettere il guado se non nelle stagioni di magra, non esiste un ponte che allacci gli abitati di Natile Vecchio e di Natile Nuovo. Il ponte è stato compreso, pare, nel piano della Legge Speciale per la Calabria; ma non sappiamo in quale anno. Comunque. bonificando l'Acone la costruzione di detto ponte sarebbe oltremodo più facile e si potrebbe levare finalmente mezzo quella vecchia carcassa tenuta insieme a forza di fil di ferro e detto «passarella» che crolla ad ogni piè sospinto bloccando traffico per mesi e mesi ogni volta.
Un concittadino di Natile ci ha detto, a proposito della passarella che cade sempre: «Perché quelli del governo si convincessero della necessità di costruire il ponte, bisognerebbe farli abitare per un mese
a Natile Vecchio e fagli attraversare a guado il torrente due volte al giorno; così gli verrebbero i reumatismi alle gambe, e allora provvederebbero subito». Questa frase a prima vista non dirà niente a qualche lettore; per comprenderla appieno bisogna esserci passati, a guado nel Careri.
Noi ci siamo passati, costretti dalle circostanze, nel dicembre del 1953. Eravamo passati dall'altra sponda a, cavallo di un mulo; il quale, al ritorno, forse per dimostrare di essere dotato di una intelligenza superiore, non ne volle sapere di entrare di nuovo in acqua, e ci costrinse ad entrare noi stessi, tenendo la bestia per le redini. E possiamo assicurare che quando l’acqua ci mulinò intorno alla cintola, non fu davvero un bel momento.
Ricordando l’episodio guardiamo, istintivamente, la tarlata passerella che cigola maledettamente e traballa.
Non impieghiamo più di dieci minuti a raggiungere l’altura dove passa la Statale 112, e quando finalmente ci siamo. seduti su uno dei suoi muretti impolverati, ci sembra di essere usciti dal mondo selvaggio o
primitivo dell'Acone, con lo stesso animo di Dante quando tornò a «riveder le stelle».
E attendiamo sollevati la sconquassata corriera che ci riporterà a casa.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 26 marzo 1957


Nella foto il torrente Acone è visibile alla vostra sinistra.
 

 

venerdì 14 maggio 2021

Il mio amore brucia - reup

 


Ancora un commento di Maria Perre in visione qui:



lunedì 10 maggio 2021

Gran Casino [di Luis Buñuel - 1946]


 L’alluvione del 1951

Il 18 ottobre del 1951 a Platì ci fu una grande alluvione. Tre giorni prima iniziò a piovere ma il 18 fece un gran casino. La fiumara di “Porteia” attraversò le strade fino ad arrivare in contrada Lacchi; portò via moltissime cose come il mulino che stava “fora o ponti” lo portò fino a Lacchi, tutti i porcili, le stalle le portò via. Perfino la fiumara di “Raconi” portò via due buoi mentre stavano tranquilli nella sua stalla, legati alla mangiatoia. Anche il fiume di “Saneju” portò via una mandria di 200 capre mentre erano in pascolo con il suo padrone, e queste capre scomparvero nella acque. Molta gente andò a rifugiarsi nelle scuole elementari; quelli che stavano in montagna corsero subito in paese da parenti e amici per ripararsi da quel terribile maltempo.  La gente che stava vicino alla fiumara purtroppo è morta, ma altri si sono salvati. Raccontano che una volta una donna era incinta e doveva partorire, ma quel giorno che doveva partorire la fiumara fece un gran casino, però suo marito l’ha salvata.
Il 19 ottobre la gente iniziò a lavorare e togliere tutto quel materiale che aveva trasportato il tempo e a riparare tutti i danni causati dall’alluvione. Degli uomini mentre stavano scavando si accorsero che c’era una donna sotterrata fino alla pancia però ancora riusciva a respirare. Questa donna si salvò però il resto della sua vita lo passò con le gambe storte. Molta gente a causa di questa alluvione abbandonò il paese, per non avere case e terreno, molte di queste persone emigrarono per L’Australia, America e altre città
Barbaro Giuseppe 5A


Il componimento di Giuseppe Barbaro è stato premiato alla Seconda Sdizione - 2018 - del Premio Letterario "E. Gliozzi".
E' altresì bello legare il nome di Luis Buñuel a quello di Platì.

mercoledì 5 maggio 2021

Preparate i fazzoletti - reup


Persone molto x bene delicate altruiste, li conosco eravamo vicini di casa e andavo spesso a casa sua sempre accoglienti brave, avevano l'unica villa che c'era a quei tempi molto bella ancora c'è, ma è disabitata, che dolore vederla in quello stato.

Commento di Maria Perre da poco apparso qui:



giovedì 29 aprile 2021

martedì 20 aprile 2021

Wedding Party - Il tintore e la bambina


02.08.1824 = Trimboli Saverio - Trimboli Anna

Erano già avanti con l‘età quando Saverio ed Anna Trimboli si recarono davanti a Domenico Oliva per convalidare il loro vincolo matrimoniale: Saverio ne portava quaranta tre, Anna due di più, quarantacinque. Saverio Antonio Bruno, bovaro, era nato il 4 dicembre 17781 da Domenico ed Elisabetta Catanzariti; Filippa Anna – 9 giugno 1779 - proveniva da Giuseppe e Antonia Callipari. La sposa era da sola, essendo i genitori deceduti entrambi, lo sposo accanto a se aveva la madre vedova. Testimoni, accanto agli ormai celebri e celebrati Filippo Tripepi e Pasquale Perri, partecipavano Domenico De Marco, forese di anni trenta quattro e Pasquale Romeo, bracciale di anni trenta sei, anch’essi già apparsi in queste pagine. In chiesa col sacerdote erano Domenico Fera ed Antonio Zappia.

 

02.09.1824 = Taliano Antonio di Giuseppe - Sergi Teresa di Giuseppe

Antonio Taliano di Giuseppe e Francesca Marrapodi era un ventenne bovaro dell’Ariella; la diciottenne Teresa Sergi di Giuseppe e Francesca Oliva invece abitava nella Strada San Pasquale. La notifica del loro matrimonio apparve sulla porta della casa Comunale domenica 8 agosto di quello stesso anno e non vi fu  alcuna opposizione. Ancora una volta il primo dei testimoni è Filippo Tripepi con lui sono schierati il suo collega vaticale Giuseppe Catanzariti, quarantenne abitante nella Strada La Fontana; i bovari, abitanti nella Strada San Nicola, Domenico Fera di anni quaranta e Giuseppe Portolesi di anni trentasei. Avendo asserito li contraenti ed i testimonj di non saper firmare sigla il solo sindaco Domenico Oliva. Col parroco in parrocchia firmano Antonio Pangallo e Don Domenico Mitttiga.

 

25.10.1824 = Mittiga Giuseppe - Mittiga Rachele

Giuseppe Mittiga di professione faceva il tintore; ventisettenne, era figlio di Rosario e Caterina Papalia. Rachelina Mittiga di anni ne aveva sedici ed era figlia del calzolaio mastru Rocco e di Giuseppa Perri. Rachele era nata il giorno di San Biagio del 1807, Giuseppe il 4 aprile del 1797. Per una volta tanto lo schieramento dei testimoni cambia: sono tutti abitanti nella Strada San Nicola, il falegname mastro Rosario Marando di anni quaranta sei; i due bracciali, con lo stesso nome e cognome, Giuseppe Trimboli di anni quarant’otto e quaranta sei; il civile Rosario Papalia di anni quaranta sei.  A firmare col sindaco sono tutti, chi col nome e cognome, chi con la +. In chiesa con il celebrante sono Domenico Morabito e il non precisato Giuseppe Mittiga.



Nella foto in apertura Rosario Mittiga, mio nonno, 1881 - 1967, mastru tra i mastri calzolai.

mercoledì 14 aprile 2021

Una colt in pugno al diavolo [di Sergio Bergonzelli - 1967]

… forse ti sta di fronte e non lo riconosci – perché sorride come un ANGELO … ma dagli in mano una colt .. ed è il DEMONIO (iscrizione posta in testa al film in questione)


IL DISERTORE

Un vento gelido di tramontana s‘infilava tra le gole dell’Agonia rendendo il paese deserto. Un tempo da lupi. Soltanto un frate cercone con la patacca di ottone dei Santuario della Madonna della Montagna si aggirava per le vie selciate trascinando una paziente mula.
Le donne si affacciavano sui mignani avvolti in lunghi scialli. Si sapeva che da qualche giorno era in giro per la raccolta dell’olio un frate dalla barba alla nazzarena. Non si era mai visto da quelle parti. Era stata un’annata piena di olive. Olive dappertutto. Da Santa Varvara al Crasto, Livia ed Arcopio. In un’otre sdrucita veniva raccolto l'olio votivo. La sera qualche donna misericordiosa portava nella stalla cibarie dove frate e mulo erano accampati. Dalle tegole ogni tanto una stilla gelida d'acqua colpiva il frate. Un frate strano. Non era petulante e querulo. Di rado ringraziava per tanta provvidenza. Frate e mula erano scesi dal Santuario lungo l’impetuoso torrente superando la stretta di San Gianni in bilico tra due tronchi di pino fasciati da giunchi. Noi dalle rocche di San Pietro tra sterminate pietraie abbellite da ginestre, tamerici ed oleandri, sino a Cirella. Già alle sette nell'ufficio postale, in un acre odore di ceralacca, la direttrice Monoriti sigillava il sacco della posta per il procacica che scendeva a piedi sino alla marina di Ardore per consegnarlo al treno per Reggio. Con due colpi di nocche delle mani sul vetro della porta, il frate si fece aprire chiedendo un obolo per la Madonna di Polsi.La direttrice una donna devota, mise una moneta nella cassetta delle elemosine e baciò la sacra immagine. La pace sia con voi — disse il frate. Si rimise il cappuccio sulla testa e sotto una fitta pioggia rimase in attesa di altri devoti.
Sono le otto precise quando da un vicolo sbuca un cavallo montato da un uomo aitante con un moschetto a tracolla su una pellegrina d’ orbace. E’ guardingo. Lega il cavallo ad un anello sul muro butterato del vecchio palazzo del principe di Carafa e si avvia nell’ufficio postale.
Chiede di ritirare alcune migliaia di lire da un libretto di risparmio ed esibisce un documento. In un baleno il frate sornione si ridesta e tira da, sotto li mantello la Colt. «Non muoverti — dice — altrimenti ti ammazzo. Sono il brigadiere Delfino».  La signorina Monoriti si fa il segno della croce e poi chiede il rimborso dell'obolo dato per la Madonna di Polsi dicendo che avrebbe provveduto ad inviarlo direttamente al Priore del Santuario. Era un disertore, autore di omicidi, rapine ed angherie d’ogni sorta. La 'ndranghita aveva già preparato il passaporto attraverso un agente marittimo di Messina per farlo espatriare in America. Era in partenza da Napoli ed atteso a Broccolino. Con le mani legate dietro la schiena ed in groppa alla mula del Santuario, il disertore fu condotto a Gerace Marina.
Lungo il tragitto i passanti assistettero ad una scena da film western. Al carcere di Gerace marina la guardia non voleva aprire, poi si convinse. Massaro Peppe in abito monacale si presentò al tenente per annunziare l’arresto. All'incredulo ufficiale fu esibita la ricevuta del carcere.
ANTONIO DELFINO

La foto in apertura, a Polsi, è di don Totò Carannante.
Una nota per i curiosi di pellicole retrò: nel film citato la canzone finale è cantata da Mino Reitano su tema del Maestro Gian Piero Reverberi, grande compositore che ha affiancato altrettanti grandi cantanti, qui riecheggiante ... scopritelo da soli da quanto segue