“Gino ... ci perdiamo da vivi e poi ci andiamo a cercare
tra le carte impolverate... non è strano???”.Marilisa
La
storia di Mariolina Mittiga, venuta a mancare la sera del 30 maggio, scorso è
comune alla maggior parte del diffuso popolo platiese che vive fuori dalle mura
native. Oggi il vero paese è altrove e il cordone ombelicale che unisce quel
popolo alimenta soltanto ricordi mediatici. Mariolina era nata in seno ad una
famiglia talmente importante quanto dimenticata da chi a Platì oggi vive. Ultima
in ordine di arrivo su questa terra, con la maturità ebbe in sorte quell’ esodo
quasi obbligatorio che colpì anche le sorelle e il fratello e non risparmierà
in tarda età i genitori. Rispetto gli altri non andò lontano avendo sposato un
rinomato oculista bovalinese: il dott. Rosario Catanese. Per essere più chiari
Mariolina era nata da Giuseppe Epifanio Mittiga e Maria Antonia Zappia. E
volendo essere ancora più aperti dirò che Giuseppe Epifanio Mittiga, zio
Giuseppino, è stato un luminare della medicina ed in paese esercitò come nessun
altro la professione di chirurgo, ginecologo, ortopedico, ufficiale sanitario
doti unite a quelle di musicista e primo fotografo platiese. Le sue
specializzazioni in medicina gli servirono a salvare numerosi feriti,
anche in modo anche grave, fra gli scampati al disastro che colpì il paese nella notte tra
il 17 e il 18 ottobre 1951, trasformando la sua abitazione in un vero e proprio
ospedale da campo. Caterina (Nella), Lisa, Rocco e Mariolina quel genitore lo
hanno adorato, come anche lo hanno adorato i suoi nipoti.
Nella foto in apertura Mariolina è alla vostra sinistra, accanto a lei Pina Miceli.
"Non lasciate che nessuno scriva la storia al posto vostro".
UN PICCOLO CENTRO DI CALABRIA IN LOTTA
CONTRO L'ANALFABETISMO
I bimbi coi loro cartelli guidavano il corteo
di Platì
Dove sono ancora vive le tracce
dell'alluvione del 1951 — Ventiquattro ore di sciopero per le scuole — Il 48
per cento di analfabeti nel paese natale di Corrado Alvaro
DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
PLATI', novembre.
Venire quassù, da Reggio, è un viaggio nell'estate; prima col treno fino a Bovalino Marina,
poi m motoleggera sulla strada tra le colline
basse, distese sotto un incredibile
sole di novembre, folte di ulivi centenari, fra i quali ogni tanto scopri una palma,
le larghe foglie di un banano. La strada va su a larghe curve, e ad
ogni curva rivela nuove prospettive,
nuovi giochi di volumi e di
colori, richiama alle mente altre strade, più famose, più illustri, che
attraversano luoghi celebrati: la cornice della Costa Azzurra, da Menton a Nizza. E anche qui si
attraversa un paese che si chiama Benestare, un nome senza dubbio suggerito dalla mitezza del clima, dalla
bellezza inimitabile dei luoghi.
E', difficile ricordare che questa strada ci sia portando in un paese distrutto, sconvolto da un cataclisma d'un genere che si è
abituati a considerare «naturale», dall’alluvione
del 18 ottobre 1951. Cosa mai può
essere, in questi luoghi, una
alluvione? Non vi sono grandi fiumi,
qui, solo torrentelli, che ora - nella stessa stagione in cui, or è un anno, dilagarono e travolsero case e vegetazioni — appaiono, in magra, appena come tracce lievi tra il verde delle piante e il rosso delle foglie autunnali. Eppure sulla linea
ferroviaria, a pochi chilometri de Bovalino abbiamo ben visto i tre ponti crollati,
fra i quali quello grande, a traliccio dì acciaio, immersi per
metà in acqua come il relitto di un naufragio. E' la testimonianza certo che queste deboli acque torrentizie possono
anch'essi, in determinate circostanze, acquistare una forza tremenda, moltiplicarsi giungere a volle come un
flagello.
Ma è facile capire che basterebbe assai poco per imbrigliare queste acque
quando esse sono come sono normalmente.
come le vediamo ora, vene esigue
di questo splendido tessuto vegetale. Assai
poco, qualche argine solido,
convenientemente alto e disposto nella maniera giusta, e qui di alluvioni non se ne parlerebbe per secoli. Una spesa forse di alcune decine di milioni, e si sarebbero risparmiati i quindici miliardi di danni dell’anno scorso.
Chi è che paga?
E intanto,
chi li paga, questi quindici miliardi? Il governo, finora,
ne avrà speso forse uno,
fra tutti i Comuni colpiti, che sono
84 sui 95 della provincia, 13
dei quali con particolare durezza. E il
resto lo scontano quelli che hanno
perduto gli ulivi, le semine, le case: i contadini poveri che non hanno ottenuto ancora alcun risarcimento, mentre i grossi proprietari qualche cosa hanno avuto, grazie ai mezzi di cui dispongono: avvocati, carta bollata, aderenze al ministero. I contadini poveri pagano con la
loro miseria di ogni giorno quello che hanno perduto perché
nessuno si era curato di arginare i fiumi. E i figli dei contadini poveri pagano: i bimbi di Platì che non vanno a scuola.
Lunedì scorso
tutti i lavoratori di Platì, paese dì 4700 anime, si sono
astenuti da lavoro per ventiquattr'ore, ed hanno dato vita a una
indimenticabile manifestazione
di protesta ver il mancato inizio dell’anno
scolastico. Hanno chiesto che il governo
disponga la costruzione immediata di un edificio scolastico, e che frattanto siano
requisite le aule indispensabili nelle case dei privati. C'erano
tutti quattro o cinquecento braccianti della zona, i 140 edili dell'ANAS che
lavorano alla costruzione della strada 112, i 90 lavoratori del cantiere di rimboschimento, i 60 edili del cantiere
Velonà, gli operai della
centrale idroelettrica del signor
Zappia: pochi questi, circa 20, perché la ditta non trova a credito e fondi
necessari per la ricostruzione della centrale distrutta dalla alluvione. E con i
lavoratori c'erano le famiglie,
le donne, tutto il popolo di Platì, quattrocento senza tetto di Platì; e i bimbi: i bambini e i ragazzi senza scuola, che portavano ben alti
i cartelli con la loro unica, essenziale, solenne rivendicazione, la scuola, la
via della conoscenza, del sapere, che è strada alla libertà dall’incubo delle
alluvioni.
Neanche un vano
Intorno a
questa alta rivendicazione si è realizzata qui la più larga unità del popolo: anche il sindaco democristiano, Giuseppe Zappia,
si batte insieme con i lavoratori per
avere l'edificio scolastico, e non se n'è avuto troppo a male per lo sciopero, sebbene fosse proprio lui a sostenere l'impossibilità
di svolgere il nuovo anno scolastico nei locali utilizzati
l'anno scorso. Perché, in definitiva, il fatto è questo: che in un anno, da quando
l’alluvione è passata in questi luoghi travolgendo ogni cosa, qui non si è
costruito un solo vano. Solo a tre
chilometri e mezzo dal paese,
in un posto scelto, non si sa per quali caratteristiche, da un sottosegretario d.
c. sono sorte una ventina di casette
tinte di giallo, prive di acqua
e di luce, che dovrebbero essere
fittate a duemilacinquecento
lire il mese: una cifra
praticamente inaccessibile a questi lavoratori. E allora in quello
che resta delle case di Platì
si ammucchiano le famiglie, esattamente
come un giorno e una settimana dopo il
disastro. E le promesse che
De Gasperi pronunciò qui, di fronte a queste rovine, nello scorso marzo, sono rimaste quello che erano un basso espediente elettorale.
Poco discosto
da Platì c'è un villaggio, San Luca, dove è nato uno dei nostri scrittori
più significativi: Corrado Alvaro.
Ma in queste zone le percentuali di analfabetismo
sono le più alte d'Italia: il 48% è la media regionale, che sale al 53% nel
reggino, e su questi colli
tocca punte anche superiori all' 80%: «tutti quelli che hanno più di 50 anni non sanno leggere», mi dice
il compagno Ciccio Catanzariti, segretario
della C. d. L. di Platì, che
ha molto meno di 50 anni. E si capisce che cosa
questo significhi; significa, che
per secoli e fino ai nostri tempi qui i padroni hanno
avuto sempre ragione come nel caso —
che Catanzariti mi racconta —
del colono Francesco Spagnolo,
che il padrone ha illegalmente estromesso dalla terra per presunta inadempienza
del contratto a miglioria.
Illegalmente, ma con l'aiuto di
un avvocato, così che il
povero Spagnolo non solo è rimasto senza lavoro, ma deve anche pagare una
certa somma, per sentenza del
tribunale. Significa che i grossi proprietari riescono ad ottenere
dal governo il risarcimento per i
danni subiti dall'alluvione, mentre i contadini poveri non hanno riavuto ancora
nemmeno le case e le masserizie perdute. Significa, di conseguenza. che i
grossi proprietari se ne
infischiano di erigere gli argini, mentre i contadini — per i quali gli argini sono condizione di vita — non sono stati in grado, fino a prima
del disastro dell'anno scorso di
imporne la costruzione.
A qualche decina di chilometri da
qui, nel comprensorio di Caulonia, i contadini hanno ripreso in queste settimane con rinnovato slancio la lotta per la
terra ed hanno occupato i feudi che l'Ente di Riforma protegge, facendo vista di volerli scorporare.
Quassù non c'è feudo, ma l’aria che tira è la stessa. Anche qui troppo hanno comandato
i padroni, i ricchi, i potenti
e non potendo farlo in nome del
diritto feudale, perché per una volta
tanto il diritto feudale, che qui ha dato luogo agili «usi civici», non
li favoriva, si sono rifatti con i codici e il latino: quello degli azzeccagarbugli e quello arcipreti. Anche adesso c'è a Platì un arciprete giovane vigoroso e latinista, che in pochi anni si e comprato un fondo per tre milioni e mezzo, in nome della Madonna di Loreto, e si è fatto la canonica prima
ancora di costruire la chiesa.
E' attraverso queste e simili
esperienze che i bambini e i ragazzi
di Platì hanno capito che
debbono andare a scuola. E i genitori analfabeti hanno
capito che i loro figli devono imparare
a leggere, a scrivere e a far di conto. Così è nato il grande sciopero di
lunedì; un atto rivoluzionario, come l'occupazione delle terre nel
Silano – Crotonese e a Caulonia. Un
atto che dimostra come i contadini di Calabria e del Mezzogiorno abbiano trovato la via giusta per scrollarsi
di dosso l'oppressione secolare dei padroni, dei potenti. Che ci dice come la battaglia per la cultura
nel Mezzogiorno non sia più
l'opera e il sacrificio di
pochi intellettuali isolati, ma sia ormai lotta di masse, e perciò
concretamente lotta per la libertà e il progresso.
FRANCESCO
PISTOLESE
Testo e foto: L’UNITA’ sabato 15 novembre 1952
Il
film suggerito in apertura oggi pur con alcuni difetti di composizione – le
orribili riprese col drone e la poca
cura sui costumi – potrebbe sfigurare affiancandolo a Segreti di Stato (2003) di Paolo Benvenuti ma sta bene accanto a Il brigante (1961) di Renato Castellani
che per altro aveva accanto Giuseppe Berto. La storia di Le stelle non hanno padroni (2018) ha luogo in Sicilia nei pressi
di Petralia Sottana, Il brigante si
svolge in Calabria, nel Marchesato in un arco di tempo che prende le mosse
durante il Regime Nero per concludersi con l’occupazione delle terre nell’ immediato
dopoguerra.
L’articolo dell’UNITA’
a 70 anni dalla sua pubblicazione può far storcere il naso alla maggior parte
dei lettori di oggi ma apre uno squarcio sulla Platì di quegli anni e le
conclusioni sono le stesse lamentate nei titoli finali di Le stelle non hanno padroni: l’abbandono delle terre e il
conseguente esodo in massa.
Curioso appare l’elogio
fatto sulla testata portavoce del PCI a don Ferdinando Zappia, gestore postale e proprietario unico della
centrale elettrica, la quale veniamo a sapere contava 20 occupati, a suo tempo gerarca in fez e camicia nera come imponeva la moda. Come curioso appare l'elogio all'altro Zappia, Giuseppe, allora sindaco democristiano.
Roma,
16 maggio 2021 Gentile
Signora Rosalba Ho ricevuto con molto piacere “I love Platì” ed
anzitutto la ringrazio per l’attenzione che ha voluto riservarmi. Avrei voluto
scriverle già da qualche giorno, ma avendo cominciato a leggerlo ho preferito
prima finire la lettura. Così sono andato col pensiero a circa 70/80 anni
fa ritrovando circostanze, persone e luoghi della mia fanciullezza, con
particolare riguardo a Pasqualino, amico carissimo dell’infanzia. Alcune cose mi hanno coinvolto maggiormente: lo sforzo,
talvolta fallito, di comprendere il dialetto di lettere e poesie, la bella
protesta di Pasqualino ad alcuni importanti giornali ed il rivivere alcune
vicende che, sia pure marginalmente, mi hanno, a suo tempo, interessato. Una riguarda la famiglia Tassone. Io ho
partecipato ai funerali di Don Giacomino che era gerarca fascista, come si
diceva allora, ed ha avuto un funerale con tutto il rituale che allora si
usava. Ero un “figlio della lupa” ed ho partecipato in divisa, naturalmente
inserito nelle organizzazioni tipiche del regime.* Lo ricordo come una
faticaccia ed una grande sudata. Ricordo, ancora, che da indizi e mezze parole
dei grandi da me percepiti, avevo intuito, negli anni seguenti, che Giulia era
sua figlia. Lei era alunna di mia madre, maestra a Platì, assieme ad un
gruppetto di belle ragazze (Lisetta Zappia poi sposata con l’avvocato Murdaca
di Locri, Lisetta Fera, Mariolina Galatti, una cugina di Pasqualino di cognome
Miceli ed altre). Erano tutte molto affezionate a mia madre ed essendo io nato
proprio quando loro avevano cominciato la scuola, appunto con lei, mi hanno per
anni riempito di attenzioni e carezze. I discorsi sottovoce si riferivano anche all’altra
figlia, Peppinuzza. Si era sposata, in modo imprevisto, mi pare di ricordare,
con un “ustascia” croato, scappato dal suo paese per motivi politici, accolto
in Italia dal partito fratello (P.N.F.) ed inviato a Platì. Dopo l’inizio della
guerra quando noi avevamo occupato la Jugoslavia, gli “ustascia” avevano preso
il potere in Croazia e lui era rientrato, portandosi dietro la famiglia, e
doveva essere diventato un personaggio importante. Mi pare che Peppinuzza avesse mandato delle
foto della villa dove vivevano e, a Platì, molto si diceva dell’aspetto
sontuoso di questa dimora. Poi le cose sono tracollate, lui è stato ucciso e
non credo dai nazisti – ustascia e nazisti erano alleati – ma nella spietata
guerra civile che là imperversava in contemporanea alla guerra mondiale. Ho auto modo di parlare di loro anche uno o due
anni fa. Io faccio il volontario presso una parrocchia romana e mi occupo di
assistenza ai bisognosi. In tale veste ho conosciuto un giovane frate
cappuccino croato che studia in una delle tante università ecclesiastiche
romane. A Roma questi studenti sono molti e sono mandati a fare pratica ed a
dare una mano nelle parrocchie locali. Così ci siamo conosciuti ed io gli ho
raccontato di quel tale ustascia venuto al mio paese tanti anni fa. Lui fu
molto interessato e voleva saperne il cognome. Purtroppo io non lo ricordavo e
neppure mia sorella a cui lo avevo chiesto per telefono- Ho rivisto con piacere anche la foto di Peppino
Gliozzi, divenuto mio cugino per il matrimonio con Annina, figlia del fratello
di mio padre di cui Peppino era, pure, molto amico nonostante la bella
differenza di età. Ricordo anche con piacere don Ernesto, anche se mi
è più presente don Ciccillo che, a suo tempo, era noto a Platì per la grande
velocità con cui diceva messa. Insomma, son tornato un po’ “pratioto”, dopo
essere stato un po’ ramingo perché, dai 10 anni in poi, ho vissuto a Locri,
Bovalino, Reggio, Modena, Torino, Palermo, Bolzano, Trento e poi, da tempo, a
Roma. La ringrazio ancora dell’opportunità che mi ha
fornito, mi complimento per gli appropriati versi di Giorgio Caproni che ha
trascritto sul libro e le accludo, di seguito, un elenco di curiosità che mi
rimangono. Non si senta in alcun modo obbligata. Se può, se ne ha il tempo e
quando ne ha, mi dia qualche informazione. Trasmetta i miei saluti, se ne ha
occasione, anche a zie e zii paterni. Con un vivissimo ringraziamento finale. Le invio
un cordiale Abbraccio Carlo Zappia.
*Lo stesso ricordo è già stato riportato da Carlo Zappia di Pasquale e Caterina Lentini, meglio conosciuto come Carletto - primo cugino e più avanti con gli anni e lo potete confrontare qui:
Nella foto di apertura Carlo e Isabella Zappia di Giuseppe e Luly Carmelina
a seguire una manifestazione di Balilla sul finire degli anni '20 a Platì.Le foto appartengono a Isabella Zappia che le ha gentilmente messe a disposizione.
Andrey Zvyagintsev il regista del titolo di oggi è un direttore russo, Tarkovskiano più dello stesso Andrej Tarkovkij.
LE
ACQUE IMPETUOSE SCORRONO DOVE VOGLIONO SU UNA ZONA DI MOLTI CHILOMETRI QUADRATI
A
distanza di 6 anni dalla “grande alluvione” il torrente Acone dev’essere ancora
bonificato
Non
sarà certo il tempo a fornire il denaro necessario perché i fiumi tornino nei loro letti primitivi e l’agricoltura rifiorisca sulla sterile distesa
di pietre
e sabbia.
Platì,
25 marzo I
fatti di Villapiana ci hanno improvvisamente riscoperto la realtà calabrese.
Quanti di noi non si erano inconsciamente convinti che il tempo riesce a sanare
anche piaghe delle alluvioni? Un
antico motto afferma che «il
tempo è denaro».
Qualcuno avrà forse creduto che abbandonando la Calabria a sé stessa ci penserà
il tempo a fornire il denaro necessario perché i torrenti tornino nei loro letti
primitivi e l'agricoltura rifiorisca sulla sterile distesa di pietre e di
gabbia che a noialtri calabresi regalò l’anno di grazia
millenovecentocinquantuno. Il
materiale alluvionale trasportato dalle piene dei torrenti non ha ricoperto «tutto»
il territorio calabrese:
ne ha ricoperto solo una parte. Ma la distruzione di quella parte dell’agricoltura
calabrese è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E doveva trattarsi
del vaso di Pandora se ne sono usciti solo fame, miseria e disoccupazione. Non è
stato mosso un solo dito per la bonifica dei torrenti che hanno seminato questi
mali in Calabria nel 1951 e nel 1953; e che continuano a seminarvi il panico e
l'avvilimento. Non è
stato mosso un solo dito per la bonifica dell'Acone, il torrente responsabile
del mal di fegato di quelle migliaia di persone che ogni anno durante lunghi
mesi, cercano invano di contendergli palmo a palmo l’arida terra degli
antenati. Lungo
il corso superiore del torrente Acone, sono stati posti in essere tempo fa i
soliti palliativi, i soliti «specchietti
per allodole»
consistenti nella costruzione di qualche briglia che avrebbe la pretesa di infrangere
le impetuose piene autunnali del torrente medesimo. Nel
corso inferiore, nemmeno questi palliativi sono stati attuati. Ma i
messaggi-fantasma che riferiscono di interrogazioni al Governo da parte di
qualche parlamentare, di mozioni, etc., continuano ad illudere la povera gente
delle zone interessate. L'Acone
non ha più un letto. Scorre dove vuole, in una vastissima zona «tabù» che si stende per molti
chilometri quadrati. Abbiamo
impiegato venti buoni minuti di marcia per attraversare da un capo all'altro
questa impervia regione di pietre acuminate e di vecchi tronchi inservibili.
«Se ci passerete l’anno venturo ne impiegherete venticinque, di minuti» - ci assicura un capraio del
luogo. Ce lo
dice con una tranquillità olimpica, come se non glie- ne importasse niente. Non
gliene importa, infatti, perché è capraio. Se l'Acone gli leva il pascolo in
questa zona è dispostissimo ad andarsene altrove col suo gregge. Appunto
perché non ha interessi diretti alla bonifica: del l'Acone, gli chiediamo di
dirci obiettivamente cosa ne pensa della indifferenza del Governo a questo
importante problema delle popolazioni di Natile, Platì, eccetera. Da una
intervista con un capraio non ci si possono aspettare grandi cose; tuttavia il
parere del capraio è lineare, primitivo, ma tagliente. -
«Quand'ero in America - ci dice - pagavo molte tasse, ma vivevo comodamente;
adesso che sono tornato in Italia, a fare il capraio pago le tasse e vivo male». Non ci
meraviglia il fatto che il capraio sia stato in America. Così come il suo caso
ce ne sono a centinaia qui da noi. Ci meraviglia però che nella sua mente sia
così chiaramente delineato il concetto giuridico di prestazione e
controprestazione che dovrebbe sussistere tra lo Stato e i cittadini
contribuenti. E ci tornano alla mente le parole di un nostro concittadino, il
quale, proprietario di un fondo posto su una riva dell'Acone, si lagna di dover
pagare annualmente i contributi di bonifica, mentre la bonifica è sempre di là
da venire. E ci
pensiamo, seguendo il corso del torrente fino al suo punto di confluenza col
Ciancio. Per
questo punto di confluenza, l'Acone ha creduto bene di utilizzare il terreno di
due vaste estensioni di proprietà privata; e per rendere questa proprietà ancora
più «privata», l'Acone le ha tolto tutti gli alberi esistenti; in più l'ha
privata delle case coloniche, delle stalle, etc. Il letto dell'Acone doveva per
forza finire in bellezza. Dalla
confluenza, con il Ciancio, nasce un nuovo torrente: il Careri. Di quest'ultimo
si è interessata la Cassa per il Mezzogiorno, la quale vi ha promosso una
specie di bonifica. E' meglio non parlarne, però, di questa bonifica. Per
esempio sul letto del Careri, abbastanza ricco d'acque da non permettere il
guado se non nelle stagioni di magra, non esiste un ponte che allacci gli
abitati di Natile Vecchio e di Natile Nuovo. Il ponte è stato compreso, pare,
nel piano della Legge Speciale per la Calabria; ma non sappiamo in quale anno.
Comunque. bonificando l'Acone la costruzione di detto ponte sarebbe oltremodo
più facile e si potrebbe levare finalmente mezzo quella vecchia carcassa tenuta
insieme a forza di fil di ferro e detto «passarella» che crolla ad ogni piè
sospinto bloccando traffico per mesi e mesi ogni volta. Un
concittadino di Natile ci ha detto, a proposito della passarella che cade
sempre: «Perché quelli del governo si convincessero della necessità di costruire
il ponte, bisognerebbe farli abitare per un mese a
Natile Vecchio e fagli attraversare a guado il torrente due volte al giorno;
così gli verrebbero i reumatismi alle gambe, e allora provvederebbero subito». Questa frase a prima vista
non dirà niente a qualche lettore; per comprenderla appieno bisogna esserci
passati, a guado nel Careri. Noi ci
siamo passati, costretti dalle circostanze, nel dicembre del 1953. Eravamo
passati dall'altra sponda a, cavallo di un mulo; il quale, al ritorno, forse per
dimostrare di essere dotato di una intelligenza superiore, non ne volle sapere
di entrare di nuovo in acqua, e ci costrinse ad entrare noi stessi, tenendo la
bestia per le redini. E possiamo assicurare che quando l’acqua ci mulinò
intorno alla cintola, non fu davvero un bel momento. Ricordando
l’episodio guardiamo, istintivamente, la tarlata passerella che cigola maledettamente
e traballa. Non
impieghiamo più di dieci minuti a raggiungere l’altura dove passa la Statale
112, e quando finalmente ci siamo. seduti su uno dei suoi muretti impolverati,
ci sembra di essere usciti dal mondo selvaggio o primitivo
dell'Acone, con lo stesso animo di Dante quando tornò a «riveder le stelle». E
attendiamo sollevati la sconquassata corriera che ci riporterà a casa. MICHELE
FERA GAZZETTA
DEL SUD, 26 marzo 1957
Nella foto il torrente Acone è visibile alla vostra sinistra.
Il 18 ottobre del
1951 a Platì ci fu una grande alluvione. Tre giorni prima iniziò a piovere ma
il 18 fece un gran casino. La fiumara di “Porteia” attraversò le strade fino ad
arrivare in contrada Lacchi; portò via moltissime cose come il mulino che stava
“fora o ponti” lo portò fino a Lacchi, tutti i porcili, le stalle le portò via.
Perfino la fiumara di “Raconi” portò via due buoi mentre stavano tranquilli
nella sua stalla, legati alla mangiatoia. Anche il fiume di “Saneju” portò via
una mandria di 200 capre mentre erano in pascolo con il suo padrone, e queste
capre scomparvero nella acque. Molta gente andò a rifugiarsi nelle scuole
elementari; quelli che stavano in montagna corsero subito in paese da parenti e
amici per ripararsi da quel terribile maltempo.
La gente che stava vicino alla fiumara purtroppo è morta, ma altri si
sono salvati. Raccontano che una volta una donna era incinta e doveva
partorire, ma quel giorno che doveva partorire la fiumara fece un gran casino,
però suo marito l’ha salvata. Il 19 ottobre la
gente iniziò a lavorare e togliere tutto quel materiale che aveva trasportato
il tempo e a riparare tutti i danni causati dall’alluvione. Degli uomini mentre
stavano scavando si accorsero che c’era una donna sotterrata fino alla pancia
però ancora riusciva a respirare. Questa donna si salvò però il resto della sua
vita lo passò con le gambe storte. Molta gente a causa di questa alluvione
abbandonò il paese, per non avere case e terreno, molte di queste persone emigrarono
per L’Australia, America e altre città Barbaro Giuseppe
5A
Il componimento di Giuseppe Barbaro è stato premiato alla Seconda Sdizione - 2018 - del Premio Letterario "E. Gliozzi".
E' altresì bello legare il nome di Luis Buñuel a quello di Platì.
Persone molto x bene delicate altruiste, li conosco eravamo vicini di casa e andavo spesso a casa sua sempre accoglienti brave, avevano l'unica villa che c'era a quei tempi molto bella ancora c'è, ma è disabitata, che dolore vederla in quello stato.
Erano
già avanti con l‘età quando Saverio ed Anna Trimboli si recarono davanti a
Domenico Oliva per convalidare il loro vincolo matrimoniale: Saverio ne portava
quaranta tre, Anna due di più, quarantacinque. Saverio Antonio Bruno, bovaro, era nato il 4 dicembre 17781 da
Domenico ed Elisabetta Catanzariti; Filippa Anna – 9 giugno 1779 - proveniva da
Giuseppe e Antonia Callipari. La sposa era da sola, essendo i genitori deceduti
entrambi, lo sposo accanto a se aveva la madre vedova. Testimoni, accanto agli
ormai celebri e celebrati Filippo Tripepi e Pasquale Perri, partecipavano
Domenico De Marco, forese di anni trenta quattro e Pasquale Romeo, bracciale di
anni trenta sei, anch’essi già apparsi in queste pagine. In chiesa col
sacerdote erano Domenico Fera ed Antonio Zappia.
02.09.1824
= Taliano Antonio di Giuseppe - Sergi Teresa di Giuseppe
Antonio
Taliano di Giuseppe e Francesca Marrapodi era un ventenne bovaro dell’Ariella; la
diciottenne Teresa Sergi di Giuseppe e Francesca Oliva invece abitava nella
Strada San Pasquale. La notifica del loro matrimonio apparve sulla porta della
casa Comunale domenica 8 agosto di quello stesso anno e non vi fualcuna opposizione.
Ancora una volta il primo dei testimoni è Filippo Tripepi con lui sono schierati
il suo collega vaticale Giuseppe Catanzariti, quarantenne abitante nella Strada
La Fontana; i bovari, abitanti nella Strada San Nicola, Domenico Fera di anni quaranta
e Giuseppe Portolesi di anni trentasei. Avendo
asserito li contraenti ed i testimonj di non saper firmare sigla il solo sindaco
Domenico Oliva. Col parroco in parrocchia firmano Antonio Pangallo e Don
Domenico Mitttiga.
25.10.1824
= Mittiga Giuseppe - Mittiga Rachele
Giuseppe
Mittiga di professione faceva il tintore; ventisettenne, era figlio di Rosario
e Caterina Papalia. Rachelina Mittiga di anni ne aveva sedici ed era figlia del
calzolaio mastru Rocco e di Giuseppa
Perri. Rachele era nata il giorno di San Biagio del 1807, Giuseppe il 4 aprile
del 1797. Per una volta tanto lo schieramento dei testimoni cambia: sono tutti
abitanti nella Strada San Nicola, il falegname mastro Rosario Marando di anni quaranta
sei; i due bracciali, con lo stesso nome e cognome, Giuseppe Trimboli di anni
quarant’otto e quaranta sei; il civile
Rosario Papalia di anni quaranta sei. A
firmare col sindaco sono tutti, chi col nome e cognome, chi con la +.
In chiesa con il celebrante sono Domenico Morabito e il non precisato Giuseppe
Mittiga.
Nella foto in apertura Rosario Mittiga, mio nonno, 1881 - 1967, mastru tra i mastri calzolai.
…
forse ti sta di fronte e non lo riconosci – perché sorride come un ANGELO
… ma dagli in mano una colt .. ed è il DEMONIO … (iscrizione posta in testa al film in questione)
IL DISERTORE
Un vento gelido di
tramontana s‘infilava tra le gole dell’Agonia rendendo il paese deserto. Un
tempoda lupi. Soltanto un frate
cercone con la patacca di ottone dei Santuario della Madonna della Montagnasi aggirava per le vie
selciate trascinando una paziente mula.
Le donne si affacciavano
sui mignani avvolti in lunghi scialli. Si sapeva che da qualche giorno era in
giro per la raccolta dell’olio un frate dalla barba alla nazzarena. Non si era mai visto da
quelle parti. Era stata un’annata piena di olive. Olive dappertutto. Da Santa Varvara
al Crasto, Livia ed Arcopio. In un’otre sdrucita veniva raccolto l'olio votivo.
La sera qualche donna misericordiosa portava nella stalla cibarie dove frate e
mulo erano accampati. Dalle tegole ogni tantouna stilla gelida d'acqua
colpiva il frate. Un frate strano. Non era petulante e querulo. Di rado ringraziava
per tanta provvidenza. Frate e mula erano scesi dal Santuario lungo l’impetuoso
torrente superando la stretta di San Gianni in bilico tra due tronchi di pino
fasciati da giunchi. Noi dalle rocche di San Pietro tra sterminate pietraie abbellite
da ginestre, tamerici ed oleandri, sino a Cirella. Già alle sette nell'ufficio
postale, in un acre odore di ceralacca, la direttrice Monoriti sigillava il
sacco della posta per il procacica che scendeva a piedi sino alla marina di
Ardore per consegnarlo al treno per Reggio. Con due colpi di nocche delle mani sul
vetro della porta, il frate si fece aprire chiedendo un obolo per la Madonna di
Polsi.La direttrice una donna
devota, mise una moneta nella cassetta delle elemosine e baciò la sacra immagine.
La pace sia con voi — disse il frate. Si rimise il cappuccio sulla testa e
sotto una fitta pioggia rimase in attesa di altri devoti.
Sono le otto precise quando
da un vicolo sbuca un cavallo montato da un uomo aitante con un moschetto a
tracolla su una pellegrina d’ orbace. E’ guardingo. Lega il cavallo ad un
anello sul muro butterato del vecchio palazzo del principe di Carafa e si avvia
nell’ufficio postale.
Chiede di ritirare alcune
migliaia di lire da un libretto di risparmio ed esibisce un documento. In un
baleno il frate sornione si ridesta e tira da, sotto li mantello la Colt. «Non
muoverti — dice — altrimentiti ammazzo. Sono il
brigadiere Delfino». La signorina
Monoriti si fa il segno della croce e poi chiede il rimborso dell'obolo dato
per la Madonna di Polsi dicendo che avrebbe provveduto ad inviarlo direttamente
al Priore del Santuario. Era un disertore, autore di omicidi, rapine ed
angherie d’ogni sorta. La 'ndranghita aveva già preparato il passaporto
attraverso un agente marittimo di Messina per farlo espatriare in America. Era
in partenza da Napoli ed atteso a Broccolino. Con le mani legate dietro la
schiena ed in groppa alla mula del Santuario, il disertore fu condotto a Gerace
Marina.
Lungo il tragitto i
passanti assistettero ad una scena da film western. Al carcere di Gerace marina
la guardia non voleva aprire, poi si convinse. Massaro Peppe in abito monacale
si presentò al tenente per annunziare l’arresto. All'incredulo ufficiale fu
esibita la ricevuta del carcere.
ANTONIO DELFINO
La foto in apertura, a Polsi, è di don Totò Carannante.
Una nota per i curiosi di pellicole retrò: nel film citato la canzone finale è cantata da Mino Reitano su tema del Maestro Gian Piero Reverberi, grande compositore che ha affiancato altrettanti grandi cantanti, qui riecheggiante ... scopritelo da soli da quanto segue