Il transito dell’Eroe
DISCORSO
pronunziato dall' avv.
ROSARIO FERA nella solenne Commemorazione
del Maresciallo DIAZ il 4 marzo 1928
in Platì per invito della locale Sezione
Combattenti.
Gerace - tipografia
V. FABIANI - 1931 IX
Dal Brennero al Giuba, una selva tricolore di vessilli
abbrunati fascia di gramaglie la Patria dolente, e i bronzi di tutte le torri
che già squillarono gl'inni del trionfo, diffondono ora pei cieli grigi
l'accorato singulto dei loro funebri rintocchi: dal cuore della Nazione,
percosso e squarciato dal telo della Parca inesorabile, fiotti di sangue
zampillano ed urli d'incontenibile dolore.
Sulli affusto d' un cannone una salma - che il Sovrano
inginocchiato bagnò di lagrime nell'austera solennità della camera ardente - ascende
il colle marmoreo del Vittoriano, dove nel sarcofago di granito bulica e
rosseggia il sangue sempre vivo del Fratello ignoto.
Scortano il carro nel viaggio di gloria, le Ombre dei Caduti
risorti dalle ferrigne necropoli del Trentino e del Carso e le dense legioni
dei superstiti recanti nei corpi dilaniati le stimmate del sacrifizio e i Principi
del sangue e gli alti dignitari dello Stato e il popolo compatto, piangenti
insieme sulla sventura che è di tutti.
Il Maresciallo DIAZ è morto.
È morto nel vigore della sua robusta virilità, imminente il
decimo annuale della Vittoria, da Lui, con somma sapienza, adamantina tenacia,
indomite ardimento voluta e conquistata; è morto quando ancora la Patria poteva
contare sul suo genio di Condottiero e sul suo braccio di paladino.
Il Maresciallo DIAZ e morto e giace immoto per sempre nel
sacro sudario della sua bandiera, contesta col candore immacolato della sua
fede e i verdi lauri delle sue vittorie e il sangue ardente delle sue ferite
La sua grande anima s' e dipartita per raggiungere
nell’Empireo gli altri Artefici del nostro Riscatto, lasciando a noi sacro
retaggio il ricordo imperituro delle sue virtù e le sue ceneri che saranno per
i venturi fonte perenne ed inesauribile d’ispirazione e d'eroismo.
Signori,
l'Uomo che la grande famiglia italiana piange nelle cento
città della Metropoli, nelle Colonie fiorenti e sui campi internazionali del lavoro consacrò fin dalla prima
giovinezza la sua vita in servizio della Patria.
Nacque a Napoli nel 1861 ereditando dagli Avi, che s’erano
battuti da bravi ufficiali nelle armate del Corso, la vocazione alle armi. Si ebbe la prima educazione
nel Collegio militare della citta nativa, passando poi all’ Accademia Militare di Torino e uscendone
sottotenente nel 1881. Entrò nello Stato Maggiore nel 1894 e vi rimase
diciassette anni conquistandosi, per tenacia cultura energia, la fama di ottimo
ufficiale.
Durante la campagna libica, colonnello del 93° Fanteria
combatté da prode a Zanzur, rimanendo gravemente ferito e rivelando le più belle doti di stratega e
quando nel maggio storico, l’eloquenza formidabile d’un Tribuno e la facondia travolgente d’un
Poeta, spezzando gli ormeggi della viltà, spinsero tra i gorghi sanguigni della
grande guerra la nave delle patrie fortune. Egli è a fianco di Cadorna e di
Porro collaboratore prezioso e contribuisce validamente ai successi della
Campagna.
Comandante di Divisione al declinare del 1915 e poi del 23°
Corpo d’Armata, operò brillantemente sotto l’alto comando di Emanuele Filiberto Duca
d’Aosta, nella gloriosa Terza Armata a cui i titanici battaglioni della Fedelissima e la Brigata magnifica dei
Granatieri di Sardegna e i Fanti di cento reggimenti, in una superba gara
d’eroismo e di martirio, meritarono il titolo d’Invitta.
Ma la rivelazione vera dell’Eroe si verificò nell’ora più
triste della Patria, allorché la valanga austro tedesca precipitando dalla breccia di Caporetto sulle nostre
linee le travolse ricacciandole al Piave.
In quel tragico frangente Chi sapeva e poteva, chiamò DIAZ
al Comando Supremo, e DIAZ, conscio di se stesso, accettò. “M’hanno dato una spada rotta, ebbe a
dire, ma io combatterò lo stesso”.
La vita della Patria era legata indissolubilmente all' incrollabilità
del Grappa e del Piave e bisognava resistervi a ogni costo per poi - ricostituito l'esercito -
slanciarsi alla riscossa.
Contro Lui, dalla frontiera svizzera al mare, stavano,
formidabili di mezzi offensivi ed inebriate di successo, le Armate di Hoetzendorf, Krobatin, Below e
Boroevic sotto gli ordini di un geniale Condottiero il Mackeusen.
Non disperò e, quasi privo di Artiglierie, tenne duro coi
macigni del Grappa e i flutti del Piave e il petto dei suoi Fanti e respinse
gli attacchi più rabbiosi riuscendo nel giro di un mese a consolidarsi in un
fronte infrangibile da Asiago al mare.
Poté così, dietro la formidabile barriera, prepararsi alacre
e tranquillo alle future operazioni, mentre temporeggiava con azioni di dettaglio, per migliorare sempre
più le nostre difese.
Anche i nemici si preparavano e, nel giugno del 1918,
crollati definitivamente i fronti russo e rumeno, l'Austria si abbatteva sul Piavon tutto il peso del suo
esercito.
Fu apocalittica la mischia.
Due turbini di fuoco si scontrarono, due popoli in armi, due
civiltà, due proposti disperati di sopraffarsi, il martire e il boia
all’all’ultimo duello. Nembi di scintille sprizzavano su tutte le trincee, rombi e schianti di granate laceravano l'aere incandescente e polverizzavano la
terra contesa su cui le Brigate eroiche dei nostri fanti morivano, senza
crollare d' un centimetro.
Il Piave, tronfio di sangue, sembrava l'Arteria recisa d’un
mostro favoloso, il Montello, fulcro della battaglia, sommerso a metà dalle truppe dell’Arciduca, sembrava
- ed era! -- la pietra fumante del domestico focolare difesa dai nostri a
prezzo d' intere divisioni.
A bassa quota – sull’ali che ondeggiavano sulla zuffa come
una bandiera -- trasvolava Francesco Baracca mitragliando da vicino e falciando i rincalzi nemici.
Sette giorni imperversò la battaglia - senza tregua,
serrata, micidiale - finché al tramonto del 22 giugno, sterminate dai cannoni, dissanguate dalla baionetta, torturate
dai velivoli, riarse dalla sete e fiaccate dalla stanchezza le masse nemiche
improvvisamente ripiegarono.
E allora le nostre artiglierie stesero sulle acque ribollenti
una cortina d' acciaio e smantellarono i ponti
e squarciarono le zattere e si saziarono di strage.
Più di centomila cadaveri i nemici lasciarono sui nostri
valli e il carnaio gravò sulla bilancia del destino, facendone oscillar l’ago decisamente in nostro favore.
Ancora pochi mesi di preparazione e poi la spada possente di
ARMANDO DIAZ, prostrerà. per sempre a Vittorio Veneto, l’orgoglio e la potenza
del secolare nemico e celebrerà l'anniversario del disastro con la più strepitosa delle vittorie.
E i Fanti che lo avevano profondamente amato - ed è virtù dei
grandi capitani farsi adorare dai gregarii - inalberando il tricolore sul
castello del Buon Consiglio e sulla torre di S Giusto, attesero dal suo labbro
la ricompensa.
E dal suo labbro l'epinicio più sublime nell’ultimo bollettino
di guerra che spazia nell’azzurro cielo di Clio, sull’ali eterne dell’epopea: ” ... I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti
del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso
con orgogliosa sicurezza”.
É il metro d' Omero che freme e lampeggia nello stile
lapidario del soldato.
Così la guerra fu vinta e la patria riscattata, ma la folla
bolscevica ruggì minacciosa intorno alla Vittoria per strangolarla.
Allora il Generalissimo scudò la Vittoria col suo cuore per
consegnarla poi al figlio primogenito di Roma, al Duce dell’Italia risorta, che
ricondusse il popolo smarrito alla riconquista delle sue mete fatali.
E nell' ottobre del 1922 quando le nere falangi, entrando
vittoriose nell' Urbe riaccesero il sacro fuoco sull' ara di Vesta, DIAZ, reduce dalla sua missione d’italianità
nelle Americhe e Duca della Vittoria, collaboro col Duce quale Ministro della
guerra.
Egli non aveva davanti a sé che uno scopo: servire fedelmente
il suo Re e la sua Patria e l'elogio migliore di lui sta nelle parole con cui lo commemorò alla Camera il
Capo del Governo: “La sua vita con una sola parola potrebbe essere esaltata e
conchiusa: dovere. Questa parola religiosa e guerriera fu per Lui norma ed
ideale.”
Tale fu l'uomo, o Signori, che oggi commemoriamo e che dette
alla sua Patria e alla civiltà la più grande battaglia, la più difficile
vittoria e il più sublime inno di trionfo.
Genuflessi intorno alla sua bara innalziamo riverenti il
nostro pensiero a tutt' i Caduti per la causa Comune.
Noi non sapremo giammai dimenticarli perché essi vivon e vivranno
eterni nel nostro cuore e in quello dei nostri figliuoli.
O donne, o bimbi d’Italia, vecchie madri e spose derelitte
od orfani ignari, o vegliardi declinanti, affisate nel cielo le vostre pupille velato di pianto e guardate; i
nostri Eroi sono là beati nella gloria imperitura e vi sorridono.
Essi non morirono.
Essi non morranno.
Essi avranno onore di pianto.
ove fia santo e lacrimato il sangue
per la, patria, versato, e finché il sole
risplenderà su le sciagure umane.
Platì (Reggio Calabria) 4 Marzo 1928 - VI
Documento conservato presso la Biblioteca Comunale "Pietro De Nava" di Reggio Calabria.