UN PROBLEMA SOCIALE MAI RISOLTO
DALL’800 AD ALVARO FINO AD OGGI
Tra i latitanti
Dell’Aspromonte
I latitanti dell'Aspromonte sarebbero duecento, a detta di Bartolomei, ex procuratore generale del1a Corte di Catanzaro; per venirne a capo non occorrerebbe meno della forza dell'esercito repubblicano. I carabinieri, stando così le cose, non ce la farebbero. L’ipotesi suscitò, qualche tempo fa, ondate di indignazione. Si è voluto riconoscere in essa un indizio di propositi antidemocratici o un segno di sfiducia nei riguardi dei carabinieri e della popolazione. Si sarebbe dovuta vedere invece una constatazione di fatto.
Ma perché si è |arrivati a tal punto? Perché i carabinieri non incutono più timore ai malviventi? Il timore nasceva dal rispetto. Perché il rispetto è venuto meno?
C'è una bella novella di Alvaro, «Il canto di Cosima» nell'«Amata alla finestra», in cui un latitante, il Timpa, alla ricerca di Cosima, la sua infelice amante, anche nei momenti più gravi manifesta il rispetto per chi ha l'impegno di catturarlo, il carabiniere Delfino. Dice l'Alvaro: «Il Timpa pensava che un giorno le sarebbe rimasto accanto a curarla, e nella sua fantasia arrivava a patti col Delfino, sentendo alla fine di volerlo bene perfino a lui che lo cercava per ammanettarlo, come succede talvolta tra nemici aperti».
Erano tempi, quelli, in cui la fantasia di uno scrittore austero, come l'Alvaro, poteva trovare senza romanticherie segni di umanità tanto nel latitante che nel suo persecutore. Oggi le tensioni sociali sono esplose; la perversità he raggiunto estremi raccapriccianti. L’audacia dei malviventi non conosce limiti al suo operare.
Ma non è detto che i malviventi, di allora - mi riferisco al primo quarto di questo secolo - fossero degli agnellini che non sapessero uccidere. Non è detto che per varie ragioni sociali non trovassero nella popolazione soccorsi più o meno volontari. E’ un fatto però che era possibile tenerli a freno forze limitate di polizia.
Può essere interessante risalire dalle notazioni di Alvaro sul carabiniere Delfino, alla figura di lui, ch’era nella realtà il maresciallo Delfino, la cui vita strenua spiega tanto i suoi successi strepitosi nella cattura dei malviventi quanto, la fama di chiaroveggenza e di invulnerabilità che lo distingueva.
Nacque a Bova, in provincia di Reggio Calabria, nel 1888, e si arruolò carabiniere a vent’anni nel 1908, in risposta al furto di bestiame che la sua famiglia contadina aveva subito. Giurò che l’avrebbe fatta pagare cara ai malviventi; e per tutta la sua vita mantenne l'impegno. Si distinse per la sua opera di soccorso nel terremoto di Reggio e Messina. Sapeva appena leggere, aveva fatto la terza elementare, ma imparò subito il gergo dei mafiosi e le loro norme in un codice trovato per caso a Platì tra le foglie di granoturco di un giaciglio. Armato di quella cultura, si introdusse nelle fila dei malviventi.
Nel Nicastrese. sulle montagne della Sila Piccola, camuffandosi da ladro, sgominò una banda che, guidata da un disertore, imperversava. Una volta fece da palo alle loro imprese. Quando gli fu possibile, comunico ai carabinieri il posto della cattura.
Venne a capo di associazioni mafiose nel 1927 e nel 1936, nei paesi dell'Aspromonte orientale, con centinaia di arresti ben motivati, che determinarono sempre condanne esemplari. Il maresciallo Delfino non si ingannava sulla sua clientela.
Era collegato con una ditta di Napoli che gli forniva barbe finte, sai di monaco questuante, abiti da pastore, da carrettiere, cenci di mendicante. Una volta si vesti da accattone, girando per il paese di Cirella. Trovava ospitalità nei fienili. Di giorno concentrava la sua cerca nei pressi dell'ufficio postale. Sapeva che un ergastolano evaso - aveva commesso diversi omicidi - intendeva ritirare i risparmi depositati, per emigrare in America, e lo aspettava.
Comparve infatti l’ergastolano su una mula, col fucile a tracolla, davanti all’ufficio postale. Delfino tirò la pistola e impose le mani in alto. L'ergastolano sorpreso si lascia ammanettare. Delfino lo porta, solo, a Platì, attraverso le montagne, delle quali nessun latitante osava contrastargli il passo. La signora soltanto dell'ufficio postale pretese la restituzione dei soldi che gli aveva dato in elemosina.
Venne a capo di un’associazione a delinquere a Platì, lusingando un vecchio «'ndranghetista» che si era messo in testa di cambiare mestiere per fare il carabiniere. Il maresciallo Delfino gli fece intendere che la cosa era possibile e una sera, invitatolo in caserma, gli lesse un telegramma falso del Comando che lo nominava carabiniere ausiliario. Bisognava festeggiare l'avvenimento e il maresciallo Delfino organizzò il banchetto nella stessa caserma. Gli fece indossare la divisa e lo portò davanti allo specchio perché si mirasse. Qui accadde un colpo di scena pirandelliano perché il vecchio «'ndranghetista» sentendosi un altro, rivelò tutti i segreti che aveva, gli abigeati che da lui e dagli altri erano stati commessi, sicuro che ormai in quello stato, non avesse avuto più nulla da temere. Arrestato per primo, fu riconosciuto colpevole e condannato. Ma quando uscì dal carcere, un colpo di lupara alla schiena lo stroncò come traditore, mentre accudiva ad alcune pecore in un ovile.
Del suo fiuto poliziesco si racconta il seguente episodio. C'era il medico Fera a Platì che aveva accanto alla sua casa un pollaio con ottanta galline. Una notte sparirono. Il medico non aveva alcun sospetto; ma il maresciallo Delfino domanda: «Mi volete dire che cure avete prescritto ai vostri ammalati nei giorni precedenti?». Il medico Fera si sforza di ricordare e infine assicura che a un tale aveva ordinato pastina con brodo di pollo.
«Basta così», gli risponde il maresciallo Delfino; va nella casa del presunto ammalato e in una stalla contigua scopre settantanove galline; l’ottantesima era stata mangiata.
Scriveva bene i rapporti ai suoi superiori; ma non era forte in grammatica; e della punteggiatura conosceva solo, come certi matematici, il punto. Un tenente novellino gli contesta, nella caserma di Bianco, gli errori. Il maresciallo Delfino cercò di farsi aiutare da un carabiniere che gli pareva più istruito di lui. Ma questi non trovava nessuna virgola da aggiungere. «Sai come facciamo?», gli propose il maresciallo, «Facciamo così!». Intinse il pennino nel calamaio e, battendo la cannuccia, spruzzo il foglio con puntini d'inchiostro. «Non potranno dire che non ce li ho messi!».
Ma si rivolse al padre di Corrado Alvaro, ch’era maestro a San Luca, e prese lezioni di grammatica come uno scolaro. Divenne suo amico le gli offriva i suoi servigi quando andava a Catanzaro, dove il giovane Alvaro era studente al Liceo Galluppi.
Si incontravano sulla piazza di San Luca e il padre di Alvaro domandava: «Maresciallo, novità per Catanzaro?».
«Preparate il pane per domani».
La madre di Alvaro faceva il pane in casa per il figlio; tagliava il pane in due e metteva dentro la frittata. Quella era la colazione che veniva portata al figlio studente.
Nacque così la fiducia di Alvaro per l'umanità di lui, della quale notò poi alcuni tratti nel «Canto di Cosima».
Ma io, scrivendo ancora del maresciallo per suggestione delle parole di Alvaro, posso ricordare altri aspetti della sua umanità: che rifiutò di prendere la tessera fascista, pagando con la mancata promozione a maresciallo maggiore: egli che era stato insignito di medaglia d'argento o di bronzo, nonché di altri riconoscimenti al valore.
Non. so se avesse idee chiare di politica. Probabilmente il buon senso gli avrà fatto le veci della cultura che non aveva. Avvertiva in anticipo gli antifascisti delle perquisizioni che doveva fare. Per delicatezza si rifiutava di controllare la corrispondenza. dei confinati politici. Apriva per dovere di ufficio le lettere arrivate e senza leggerle le consegnava ai destinatari perseguitati.
Mario La Cava
Gazzetta del Popolo, Mercoledì 30 marzo 1977
e ripubblicato su:
calabria sconosciuta rivista trimestrale di cultura e turismo
anno XI - n. 40 gennaio-marzo 1988