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mercoledì 10 giugno 2015

La città dolente




Fra le rovine, non molto tempo fa, un ingegnere mi disse: «Questa baracca di legno ha un'area interna di meno di trenta metri quadrati. Da cinque mesi vi abitano ben trentatré persone - uomini, donne e bambini.››
«E non si lamentano?››
«Cominciano a lamentarsi ora. D'inverno va tutto bene, ma quando viene il caldo ... Beh, vedremo.››
Nessuna profetica visione della Messina di oggi con le sue baracche disseminate nel deserto di rovine che la gente vestita a lutto rende ancora più tetro, mi apparve alla mente quella sera, mentre sedevo al tavolino di marmo, sorseggiando il mio caffè (troppo tostato, come sempre in Italia) e fumando beatamente il mio sigaro. Sì, tutto era come doveva essere. Eppure, che occasione perduta!
Che occasione perduta per un Dio di stabilire, in un”epoca d'incredulità, il suo dominio sugli uomini!
Si deplora ovunque la mancanza di sentimento religioso: come sarebbe facile a un Dio mandare sulla terra un Isaia per predire l'ora dell’incombente catastrofe, salvando cosi quelli disposti ad ascoltarne la voce ammonitrice, ravvivando lo zelo dei fedeli, eliminando dubbi e dividendo le pecore dalle capre! Invero, Egli agisce misteriosamente, poiché non giunse alcun messaggio divino: i giusti furono sepolti con gli ingiusti, fra una confusione di telegrammi e di lacrime.
Alcuni giorni dopo il disastro, í giornali cattolici spiegarono il fatto asserendo che gli abitanti di Messina non avevano amato a sufficienza la Madonna, ma che Lei li amava ugualmente e aveva quindi mandato il terremoto per ammonirli. Una maniera piuttosto violenta di conciliarsi il loro affetto . . . Non esattamente suaviter in modo. . .
Ma se gli autentici profeti possono sorgere soltanto fra le malariche paludi dell'antica Babilonia o in altri luoghi altrettanto inverosimili, avremmo almeno potuto aspettarci di meglio dai nostri moderni spiritisti. Perché mai le apparizioni da loro evocate si accontentano di annunciare il decesso agli Antipodi di lontani parenti privi del minimo interesse? Ahimè! Comincio a rendermi conto che ancora non si è arrivati a scoprire gli spiriti utili. Quelli di cui disponiamo oggi sono come sismografi: registrano l’avvenimento dopo che è accaduto.Ora, noi abbiamo bisogno di ...
« Il signore non fa che fumare...Perché non prende il tram e non va ai giardini pubblici ad ascoltare la banda municipale?›› 
Norman Douglas, Old Calabria



«Musica? Giardini? Ottimo consiglio, Gennarino. ››

lunedì 8 giugno 2015

Tutto in vendita (reg. Andrzej Wajda 1968)


In presenza di noi qui sotto scritti testimoni il Massaro Michele Romeo Cerza si ha ricevuto dal Sig. Don Francesco Oliva fu Don Arcangelo la somma di Ducati 15 di moneta effettiva corrente in questo Regno ... A tal somma si obbliga corrispondere l’interesse al 10 per cento ... si obbliga pagarli a tutto 7bre del 1858 in mancanza resta venduto l’orto di sua pertinenza nella contrada Piroselli limito quello eredi di D. Francesco Gliozzi; Francesco Mittiga fu Rocco e altri; il prezzo che verrà fissato da Mastro Rosario Marando, in caso di sua morte, da F...  T..., o da uno eletto dal S.r Reg. Giudice di Ardore, a riceversi il di più che sarà stabilito di Ducati 18 d’interesse e capitale come sopra. Ove mai il Romeo sarà al caso pagherà prima, il Sig.r Oliva sarà obbligato riceverseli, ed ha il diritto riscuotere i soli interessi scaduti. Resta pure stabilito che in caso il detto Romeo volesse dimettersi dall’orto suddetto resta a favore del S. Oliva la facoltà di poterlo comprare, quando verrà fissato da periti come sopra o da uno eletto dal Reg. Giudice di Ardore,  ed a cautela.  Platì 29 7bre 1856.  Francesco Papalia Testimone - Giuseppe Virgara testimone.
La contrattazione come sopra l’ho ceduta a mio Signor Compare D. Filippo Gliozzi e dichiaro avermi ricevuto li ducati quindici ed a cautela - Platì 1 8bre 1856. Francesco Oliva fu D. Arcangelo.



mercoledì 3 giugno 2015

Il bambino perduto (reg. George Seaton - 1953)



Rorò era figlio dello zio Peppino (Diaco) di Oppido e della zia Iolanda, sorella della nonna Lisa. La prematura morte non permise il battesimo, per questo non è riportato nei registri della chiesa. A Platì ebbero i natali anche  Tommaso, Rocco e Domenico che lì vennero battezzati.
Grazie alla foto Rorò sarà un infante eterno.

mercoledì 27 maggio 2015

Un giorno da ricordare (reg. James Foley - 1995)

931

7 Ottobre ore 20 - Zappia F Antonio
15 Novembre ore 4 - Dottor Filippo Zappia
31 Dicembre ore 4-30 Cav Uff Oliva M(ichelangelo)
il 1° Gennaio - 32 mentre Spadaro stava tessendo l’elogio funbre venne turbato da terremoto

932

10 Agosto moriva a 30 anni Fera Michelangelo
18      “ moriva a Brancaleone la Signora Zappia Elisabetta al 19 venne portata a Platì
27 ottobre Zappia Pasquale fu Carlo

934

Domenica 29 Luglio 0re 23-30 moriva il Cav. Furore Don Giosofattino - nato il 1865



appunti, preziosi, del nonno Luigi (nella foto) 

lunedì 25 maggio 2015

Santa (reg. Antonio Moreno - 1932)

2° Epigramma

Quando la donna prega ... lasciatela pregare!
E’ l’unico momento, in cui ... non può parlare


Giacomo Tassone Oliva

Istantanee che valgono un intero romanzo o documentario di National Geografic


domenica 24 maggio 2015

Amore e guerra (reg. Woody Allen - 1975)

E' lunga questa orazione funebre.  Leggerla per una sola volta non è tempo sprecato, visto come siamo costretti a sentire quelle di oggi, dette da persone che non hanno mai conosciuto i nostri cari.
E' anche storia del paese e del suo coinvolgimento con la Grande Guerra.


                                                                   Ha un fior la vita per la speranza,
                                                                   Ha un fior la morte per l’avvenir.
                                                              G. Prati

Signori,
E pure, mente l’ecatombe immane tinge il mondo di sangue, mentre le giovani vite mietute dalla mitraglia, giacciono insepolti ancora sulle balze del Trentino e del Carso, qui, dove la voce rauca del cannone non schianta i cuori, siamo riuniti ad una mesta cerimonia. La funebre cerimonia, se non è un’inferie di sangue da strappare dei cuori il grido, come dalla belva ferita; è non di meno un contributo di lacrime e di preghiere. Voi certamente non condividerete l’idea anticristiana del “ sacro egoismo “, e se vi stringete in questi giorni, ai petti i panni insanguinati dal dolore, guardate anche compassionevoli a coloro che piangono; a coloro che furono colpiti dalla sventura, sia essa acerba e crudele come quella per un caduto in battaglia, sia essa blanda e confortabile come quella di una madre che serenamente s’invola.
È il dolore che amalgama tutti, che stringe i vincoli dell’affetto; è il dolore che rifulge maggiormente l’idea cristiana, è, insomma intorno alle tombe che si cementano i cuori. E il vostro spontaneo accorrere in questo tempio, parato a lutto, la vostra solidanza nel dolore di un figlio che piange amaramente la madre molto mi danno affidamento; ond’io mi accingo a intessere parole dio lode per Donna Mariantonia Mittiga nata Gliozzi la quale, fra le virtù comuni a tutte le donne cristiane, si ebbe anche quella di amare intensamente, profondamente tutti i suoi parenti da formare in lei come un’esagerazione di amore, il che non è poco.
Il dovere, quindi, di riconoscenza mi lega ad onorare questa donna che come una madre ebbe per me palpiti di tenerezza; il pensiero che se vivesse mio padre mi avrebbe baciato con più affetto per questa azione, mi anima ..e se io arrivassi a convincervi che l’ardenza del suo cuore irradiava anche gli estranei, farei cosa utile anche per voi che mi ascoltate, perché voi sapete, l’esempio è tutto: è la scuola del genere umano. Ah si io vorrei che nelle parentele ci fossero di tali soggetti; ci fossero di queste donne che sentissero la missione di stringere i legami del sangue e si adoperassero a raccogliere intorno a loro tutti i membri della famiglia e del casato da formare un solo tetto, un focolare solo. Io vorrei che le famiglie patriarcali esistessero in questi tempi critici e che il comando di esse fosse affidato a una donna forte, energica e buona come quella che si è dipartita da noi in questo mese.
Ella vide compiuta la sua missione, vide realizzato il suo ideale e si addormentò nel Signore nella tarda età di ottant’anni, benedetta e compianta da quanti la conobbero.
Basterebbe tutto questo per tessere una corona ed ella, passata dalle ombre alla luce, potrebbe essere contenta, perché, alla fine dei conti, a noi tutti è dato di conseguire tanto e noi sappiamo che le giovani querce cadute accanto agli alberi secolari nella foresta, gemono di più  quando l’uragano passa e li schianta.
Ma io credo che qualche cosa di più ci abbia lasciato, se non fosse altro; quell’amore tenero e compassionevole verso i suoi parenti che la faceva soffrire ed inquietare per loro, per la loro salute, per i loro beni. Gioiva delle loro gioie, ne condivideva i dolori, era sempre vigile, anelante per loro e, se non poteva aiutarli, sacrificava tutto, anche se occorresse il sangue delle sue vene. Quest’amore era, come vi dicevo, poc’anzi, qualche cosa di anormale, un’esagerazione, una malattia, delle volte anche incompresa, perché non tutte le malattie dell’anima hanno una facile diagnosi. Ed anche sul letto di morte, dimenticava i suoi dolori per interessarsi di noi che l’assistevamo “ Voglio che stiate sano ”, mi diceva poche ore prima della sua morte, quando, nell’esercizio del ministero sacerdotale, io supplivo il figlio dolorante, “ che stiate sano – mi diceva – e vi ricordiate di me nel Santo Sacrifizio della Messa “. Fu allora che la mia mente corse a Santa Monica, la madre del grande Agostino ed alle parole che la morente rivolgeva al figlio là, sulle rive del Tirreno.
E non è questo pio desiderio che manifesta il suo amore e la sua fede?  Non c’è in queste parole tutta l’anima sua che visse della vita dei sui parenti, vicini e lontani; la manifestazione dell’Ideale per il quale era vissuta e che s’imprometteva di raccogliere i frutti di là della tomba, in un luogo dove “ l’umano spirito si purga e di salire e di salire al ciel diventa degno “?
Ecco l’Ideale!
L’uomo deve proporsi nella vita un fine e a quello tendere costantemente. E quando questo ideale è santo, quando al conseguimento di esso si uniscono tutte le forze della mente e delle braccia e si arriva a raggiungerlo … oh allora è grande la soddisfazione che si sente: è una soddisfazione divina. Che se poi ostacoli insormontabili si superano e si arriva stanchi, affaticati, sanguinati ad occupare la meta, anche gli astanti allora applaudiscono a l’eroe, egli è un grande che merita tutto quanto l’entusiasmo e la lode.
Quante virtù domestiche ed ignorate rassomigliano a questo genere di eroismo, che se si potessero raccontare tutte, non ci sarebbe bisogno di mendicare nei libri un po’ d’entusiasmo per solleticare gli animi nell’apatia della vita.
Donna Mariantonia Gliozzi, uscita dalla casa paterna in cui con mano assidua era stata educata come un fiore di bellezza e di virtù, uscita, dico, per cominciare la vita coniugale, cullava il più bello ideale; quello di avere un figlio e di farlo prete. Dio aveva stabilito intanto che ella non avesse altri figli maschi se non il primogenito. Non importa! Pensa che questo figlio l’aveva promesso a Dio, che dovrebbe vederlo salire l’altare ed assisterla poi sul letto di morte … ed oltre tomba. Oggi il figlio, come vedete, scioglie l’ultimo voto della genitrice.
Ma per giungere a questa meta, quanti sacrifizii superati, quante vittorie oscure!
Non è questo il luogo né il momento che io debba ricordare di che genere fossero i patimenti, le strettezze, le contraddizioni e le noie che si opponevano a questo ideale; non si contano le giornate d’ansie, le fatiche, gli ostacoli … ed il sogghigno dell’invidia, le vendette dei patenti, i castighi della miseria.  Basta!
Con fermezza volle, sempre volle, fortissimamente volle e finalmente vide salire l’altare il Novello Unto del Signore. Il suo desiderio era appagato!
Oh chi può dire la gioia di una madre che vede il figlio, ministro dell’Altissimo, messo in alto, sull’altare, tra i ceri fiammanti e l’incenso odoroso, che stende la mano per chiamare la Divinità sulla terra e sulle teste abbassate e i cuori commossi dispensa celestiali benedizioni? E questa gioia divina la ricompensò largamente dei passati travagli, si vide rispettata, amata, venerata da tutto un popolo riconoscente e buono e si raccolse in se stessa per aspettare la fine. La fine giunse in questi orribili tempi che misero, ancora una volta, l’assenzio dentro il suo cuore. Contristata dal pensiero della guerra, l’ansie indicibili dei parenti richiamati, il pericolo della partenza imminente del figlio; tutto un cumulo di timori, affrettarono la catastrofe; sebbene a scongiurarla ancora il figlio non lasciasse mezzo intentato e la morente si rivolse a noi con pietoso affetto, implorando la carità di un ricordo.
La tomba è santa, è cosa che non si nega a chi muor.
Che se poi è vero come non dubito, che la religione del Nazareno è la religione dei sepolcri, come quella che è nata tra le tombe  le tombe infiora con speranza, se è vero, dico, che i viventi si affacciano sulle tombe per accompagnare le anime di là coi suffraggi delle preghiere e dei voti; io credo che Donna Mariantonia Gliozzi si sia molto bene regolata nella vita, facendo il figlio prete, come colui, come colui che dovesse rischiararle il cammino d’oltre tomba, quando dall’altare, offrendo l’Eterna Vittima di espiazione, la prega che conceda alla madre sua “ la luce perpetua, l’eterna pace “.
Oh, si riposa in pace e ti sia lieve la terra che ti ricopre. A te che per l’Ideale combattesti e vincesti; a te sorrida l’Eterno Ideale Dio, che è il premio dei buoni, la luce delle anime, la meta verso cui cammina fidente lo stuolo innumerevole di tutte le creature vive. Salve!
                                                                                              Sac: E Gliozzi sen.
Platì 5 – 3 - 1917

Donna Mariantonia Mittiga nata Gliozzi - sposò Mittiga Nicola e furono i genitori dell’arciprete Francesco, di Giovanna e Angiolamaria, 
Fu zia di Francesco Gliozzi padre di zia Serafina e zio Ernesto sen. e quindi di nonno Luigi

mercoledì 20 maggio 2015

La città dolente



Ricordo una notte di settembre del 1908, una domenica notte fragrante di odori rosmarino, di cisto e di finocchio che calavano in aromatiche ondate dalle alture disseccate dal sole -una notte stellata, calma e tranquilla. Messina non mi era mai parsa così bella. Arrivandoci di giorno e da altre città più grandi e più animate, si è portati a notare soltanto i suoi difetti. Ma la notte meridionale possiede un tocco magico. Nasconde tutte le cose brutte, oppure le trasforma in oggetti di mistica bellezza; mentre le opere più nobili dell'uomo-quelle facciate, quei cornicioni, quei panciuti balconi in ferro battuto-diventano eteree come palazzi di fate. E venendo, come venivo io, dall'impervia Calabria, la città con le sue larghe vie ben tenute, i suoi caffè illuminati e la sua folla di cittadini contegnosi nella passeggiata serale, prendeva l’aspetto di una metropoli.
Con voluta lentezza, ritardando con molto sentimento, mi diressi verso il ristorante che mi era familiare. Finalmente! Finalmente, dopo un'interminabile dieta a base di pane duro, di cipolle e di formaggio di capra, stavo per assaporare il complicato menu che studiavo da settimane, vagliandone con cura i pro e i contro tanto complicato, in effetti, che ho dimenticato da tempo i suoi particolari. Ricordo soltanto il pesce-spada, una specialità locale e (per finire in bellezza) la cassata alla siciliana, una sinfonia glaciale, un gelato multicolore di sapori deliziosamente fusi, che ci vuole assai più tempo a descrivere che a divorare. Sotto l'effetto di questi cibi sibaritici, innaffiati da una vecchia bottiglia di vino calabro (troppo forte è il vino siciliano per me, troppo deciso e senza compromessi: preferisco perdere le mie facoltà mentali poco per volta, come un gentiluomo), il mio fisico esausto rifiorì come per incanto: diventai amabile e socievole. Dopo tutto, conclusi, il destino del viaggiatore non è dei peggiori. Quanto a Messina ...Messina era indubbiamente una città piacevole. Ma perché i negozi chiudevano tanto presto, la sera?
«Questi Siciliani devono sempre giocare a qualcosa» mi spiegò il cameriere napoletano, una mia vecchia conoscenza. «In questo periodo giocano agl'inglesi. Sono  ossessionati dall'idea della chiusura domenicale. Ma di solito i loro attacchi non durano più di quindici giorni.››
Giocano agl'inglesi!
Ora, quelli che sono rimasti hanno inventato un nuovo gioco: vivono ammassati in case di bambola e temo che la situazione non cambierà molto presto.
Norman Douglas, Old Calabria

lunedì 18 maggio 2015

Ricorda il mio nome

-Ielasi Domenico(13.6.1935/32-58)di Domenico carzivirdi e Catanzariti  Caterina di Domenico gajìna.
-Marando Giuseppe saverio(29.6.1935/33-60)di Rosario testelignu e Sergi Caterina di Saverio.
-Zappia Bruno(1.7.1935/34-63)di Giuseppe cirejotu e Zappia Immac.di Pasq.
-Violi Caterina(14.7.1935/35-68)di Antonio riggineju e Ielasi Fr.sca di Dom.
-Catanzariti Maria(1.8.1935/36-71)di Franc .mussubeju e Carbone Marianna di Rocco surdineju.
-Calabria Anna(28.3.1935/23-30)di Franc.tizzuni e Ciampa Fr.sca di Gius.
-Pangallo Domenico(21.4.1935/24-35)di Pasquale batazzinu e Sergi Elis.di A
-Catanzariti Francesco(21.4.1935/25-38)di Gius. grugna e Carbone Maria di Francesco..
-Bartone Marianna(2.5.1935/26-40)di Antonio brigante e Pangallo Filom.di Fr
-Carbone Francesco(26.5.1935/28-47)di Franc. prunarisi e Demarco Caterina di Francesco catojino.
-Carbone Michele(26.5.1935/29-48)di Dom. tridicinu e Grillo Maria di Michele.
-Perre Saverio(26.5.1935/29-50) di Gius. pascalici e Barbaro Anna di Dom.
-Agresta Domenico(19.5.1935/30-51)di Saverio ddommìcu e Perre Elisabetta
-Barbaro Domenico(15.5.1935/30-52)di Dom.zumpanu e Catanz.Cater.di D.
-Sergi Domenica(6.6.1935/31-54)di Franc. birrozzu e Sergi Caterina di Paolo.
-Iermanò Francesco(9.6.1935/31-55)di Antonio pitera e Taliano Ant.a di Gius.
-Iermanò Antonio(9.6.1935/31-56)di Giuseppe pitera e Zappia Maria di Gius.

-Pangallo Rosario(9.6.1935/32-57)di Franc.batazzinu e Portolesi Gius.a di R.

domenica 17 maggio 2015

martedì 12 maggio 2015

Il prezzo del potere (reg. Tonino Valerii - 1969)

Mons. Giosofatto Mittiga
1876 - 1951
ritratto di Luigi Musitano

Quanto si poteva raccogliere dei rapporti tra Platì e Polsi oggi ha termine con il personaggio che più di tutti ha fatto parlare di sé: Monsignor Giosofatto Mittiga, il quale destinò le sue capacità e le sue conoscenze alla maggior gloria del santuario. Personaggio colluso col potere fascista ricorda un altro paesano per molti aspetti simile. Ambedue finirono scaricati dopo un sommario processo segreto.
Si ricorre al capitolo I vescovi di Locri-Gerace a Polsi a cura di Enzo D’Agostino apparso in S. Maria di Polsi – Storia e pietà popolare, Laruffa editore, 1990.
Monsignor Giosofatto Mittiga era nato a Platì il 16 marzo del 1876 da Domenico e Violi Maria.

Il Santuario, ora elevato ad abbazia,  mercé  la  solerzia  di  monsignor  Mittiga,  allora  non  era  che una chiesa alle dipendenze della diocesi di Gerace,  retta  da  un  priore  e  servita,  per  le  questue,  da  un corpo ristretto di frati secolari, non dipendenti da alcun ordine,  che  giravano  la  provincia,  come  fanno tuttora, cavalcando i loro bei muli gagliardi, e raccogliendo le offerte dei fedeli.
Francesco Perri, Emigranti

Giosofatto Míttiga, giovane sacerdote di Platì , arrivò a Polsi il 3 ottobre 1905 con l'incarico di economo curato, ottenuto dall'amministratore apostolico fr. Sisto Paoleschi; il 10 aprile 1906 divenne titolare della parrocchia e superiore del santuario; il 15 settembre 1908 ottenne di portare al cappello un laccio nero dorato; il 4 maggio 1910 ottenne per sé e per i superiori suoi successori il titolo di prelato domestico di S. S..: un crescendo di cariche e di riconoscimenti che certamente alimentarono smodatamente le già presenti inclinazioni ai fasti ed agli onori del Nostro. Il quale, vedendosi così considerato, immaginò di poter fare di Polsi la sede idonea a realizzare i propri sogni di indipendenza ed a praticare un potere effettivamente monocratico. Polsi divenne una specie di cantiere onnicomprensivo e continuamente aperto: furono restaurate o ricostruite parecchie abitazioni; fu innalzato il terzo piano del convento; fu installato il telegrafo; fu realizzato il monumentale calvario e fu posta in sito l'artistica balaustra dell'altare maggiore (opere di V. ]erace): il tutto contraendo molti debiti, ma sotto gli occhi entusiasti e compiaciuti di pellegrini e pellegrinaggi sempre più frequenti e numerosi .
Dagli inizi del 1907 la diocesi di Gerace era retta da mons. Giorgio Delrio …
Nei confronti del Mittiga, mons. Delrio fu all'inizio prodigo di incoraggiamenti e di riconoscimenti; poi, quando si accorse che la situazione debitoria stava diventando estremamente grave, intervenne con energia e durezza; infine, reagendo alle ambizioni del superiore, tentò con tutti i mezzi di liberarsene.
L'anno cruciale fu il 1913, nel quale, il vescovo, prese le distanze dalle iniziative del Mittiga, e ridottine drasticamente i poteri, avocò decisamente a sé l'effettiva direzione del santuario e riuscì quanto meno a bloccare, sia pur temporaneamente, l'incremento dei debiti .
Il Mittiga, però, non rinunziò ai propri progetti e tentò in tutti i modi e con diversi mezzi di creare le condizioni per raggiungere l'agognata indipendenza. Di ciò è segno la petulante richiesta di poter abitare a Polsi nel palazzo vescovile “, ma sono segno più evidente i tentativi operati scopertamente per " inventare" una qualche autorità che fosse superiore al vescovo e che dal vescovo non potesse in alcun modo essere contestata.
Non può essere letta che in tale chiave l'operazione "cardinale protettore", pensata e felicemente condotta a termine dal Mittiga con la nomina pontificia, appunto a protettore del santuario, del cardinale Filippo Giustini, ottenuta il 20 dicembre 1916. Da tale situazione il Mittiga trasse l'aìre per riprendere le sue progettazioni fantastiche.
La nomina del cardinale, obtorto collo salutata dal vescovo Delrio con una notevolissima lettera pastorale , consentì al Mittiga di organizzare grandi festeggiamenti per la venuta a Polsi del protettore. L'evento si svolse il 2 settembre 1919 e ce lo ricorda l'epigrafe posta l'anno dopo sulla facciata del convento  ivi il vescovo Delrio è del tutto ignorato, non essendo citato nello scritto e mancando il medaglione con la sua effigie accanto a quelli di Benedetto XV, di Filippo Giustini e di Giosofatto Mittiga. Non basta. Sempre più deciso a svincolarsi da qualsiasi tutela vescovile, il Mittiga, favorito da ambienti romani interessati, andò precisando un nuovo progetto, con il quale si proponeva di restituire "al santuario l'antico titolo di
Abbazia e quello di Abate al Superiore del tempo, con tutti quegli onori e privilegi degli antichi abati, onori e privilegi che corrispondono a quelli degli Abbati o Prelati Nullius, escludendo ben inteso ogni idea di giurisdizione, la quale dovrebbe rimanere sempre al vescovo di Gerace, come lo è attualmente .
Il progetto andò in porto (8.4.192O) , senza che vi si potesse opporre il vescovo Delrio, il quale, anche se mancano documenti precisi, sembra improbabile che potesse condividerlo .
Appena qualche mese dopo, il 16 novembre 1920, mons. Delrio fu promosso arcivescovo e trasferito ad Oristano.
Il titolo di Abate nullius consentì al Mittiga un nuovo periodo di gloria. Nello stesso 1920, "sontuosamente vestito da vescovo”, partì per l'America e ne ritornò dopo due anni con i ricchi proventi della sottoscrizione ivi operata tra i tanti immigrati italiani. Nuovi privilegi (quello di celebrare in trono con baldacchino e pastorale) ottenne dal protettore cardinale Michele Lega († 15.12.1935), che era succeduto al cardinale Giustini, e dal pontefice Benedetto XV un chirografo attestante stima.
Nel frattempo, però, egli, impenitentemente, non aveva smesso le iniziative fantasiose e dispendiose, oltreché malviste e denigrate per le umane debolezze di tutti i tempi nei confronti di chi comunque operi. Il Mittiga aveva tentato un passo lungo. Forse era stato mal consigliato, ma è probabile che fosse stato anche strumentalizzato. Le sue intenzioni erano probabilmente oneste, le sue azioni non limpide e comunque non condivise, anzi in contrasto con le intenzioni e le direttive dell'autorità vescovile.
Chiamato ancora una volta a rispondere del suo operato 91, il Mittiga non riuscì più a convincere alcuno della bontà delle sue iniziative. Pu così che il 10 novembre del 1927 fu privato del titolo di abate, ed il 26 ottobre 1928 fu costretto a dimettersi da arciprete. Da quel momento, con Polsi ebbe rapporti soltanto per qualche debito da pagare. Morirà poverissimo (è questo è segno della sua intima onestà) nel 1951.


Di seguito il filmato dell’inaugurazione del Sanatorio ” Vittorio Emanuele II “ai Piani di Zervò. Alla cui edificazione contribuì in vario modo Mons. Giosofatto Mittiga