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domenica 26 ottobre 2014

Alba di gloria (reg. John Ford - 1939)

Oggi sono qui:
http://o-cool-world.tumblr.com/post/100807946544/tribute-to-my-great-friend-luigi-mittiga
come potete vedere anche a destra


giovedì 23 ottobre 2014

La macchina nera (re. Elliot Silverstein - 1976)



Dichiariamo noi qui sottoscritti coniugi Oliva Giuseppe fu Filippo e Macrì Francesca solidalmente da una parte, e dall’altra i sigg. Miceli Antonio fu Fu Giuseppe e Gliozzi Luigi fu Francesco.
I primi coniugi Oliva cedono fin d’ora in locuzione la loro macchina olearia sita in questo comune ed in contrada Filanda per l’annata in corso 1947-1948 si intende però che essa macchina sarà gestita in comune e cioè metà a favore dei coniugi Oliva e l’atra metà a favore dei locatari Miceli e Gliozzi.
La mercede locativa venne fissata di comune accordo per lire centoseimila (L. 106.000) ivi comprese le atrezze cioè luci. Questa somma è per metà di essi locatari che venne sborsata in atto e perciò rilasciano quietanza essi coniugi Oliva a favore di Miceli e Gliozzi.
Il ricavato di tale macchina va diviso come di regola metà ai coniugi Oliva e l’altra metà Miceli e Gliozzi.
La macchina viene consegnata in piena eficienza meno il tavolato per depositare l’olive.
In caso che verrà qualche impedimento cioè sospensione o chiusura della macchina i danni derivati da questo inconveniente sarà responsabili la parte che promuove tali difficoltà.
In caso che verrà qualche guasto alla macchina se la spesa è di lieve importanza verrà divisa in parte uguale. Letto e confermato viene sottoscritto dalle parti.
                Platì 29 – 11 – 947
Oliva Giuseppe fu Filippo accetto e confermo come sopra
Macrì Francesca accetto come sopra
Antonio Miceli fu Giuseppe
Gliozzi Luigi accetto

mercoledì 22 ottobre 2014

Perdono (reg. Ettore Maria Fizzarotti - 1966)



                                                                                              Catanzaro 12 – III – 34
Carissimo papà
Crederei di venir meno al mio dovere senza darvi una risposta alla lettera ultima. Essa mentre da un lato mi consola, come ogni cosa che mi viene da voi, da un altro mi rattrista. Non già, s’intende, per il suo contenuto, perché tutto ciò che contiene è ben detto, ma si perché vedo che, trascendendo un poco nel modo di scrivere, vi avrò potuto arrecar dispiacere. La mia ultima lettera però non voleva essere un dolce e sia pur lontano rimprovero a voi, ch’io venero ed amo, ma voleva solo farvi notare che non c’era ragione d’impensierirsi pel silenzio, sia pur prolungato, di uno di noi, perché altrimenti anche noi dovremmo stare in continua trepidazione, dato che ci lascia per mesi e mesi privi di notizie. Lo sa poi il cielo il bene che scambievolmente ci vogliamo con Ernesto.  Noi due andiamo così ben d’accordo che, direi quasi, formiamo una cosa sola. E’ per questo che se vi scrissi di risposta date alle domande di Ernesto e di mancanze di risposte alle mie domande, ciò scrissi non per lamentarmi di tutto questo o per dirvi che preferite l’uno all’altro, ma esclusivamente per portarvi un qualche esempio e per farvi capire che anche alle mie domande era necessaria una risposta. L’unica cosa per noi necessaria è aver vostre notizie spesso, che l’indirizziate ad Ernesto o a me poco importa, perché come voi ben dite, scrivendo ad Ernesto è lo stesso che scrivere a me e scrivendo a me è lo stesso che scrivere ad Ernesto.
 Ora che penso che la mia ultima lettera vi ha potuto arrecar dispiacere, vorrei non averla scritta, però vi protesto che essa non fu scritta per farvi un benché minimo e sia pur dolce rimprovero, come mi scrivete. Vi prego perciò di credere unicamente a questa mia intenzione e non al suono delle parole scritte in quella lettera, deponendo qualsiasi dispiacere che v’abbia potuto arrecare, dispiacere di cui vi chiedo sincero e filiale perdono.
Ieri ho ricevuto dallo zio una cartolina in cui già mi parlava della vostra andata aCasignana. Riguardo al camice direte a Rosina  e Cata che debbono cucirlo secondo le misure presemi. Solo riguardo al colletto debbono fare diversamente da quanto loro avevo detto. Debbono cioè, anziché fare il colletto, come avevamo stabilito, praticare al suo posto una scollatura come per le cotte, ma molto più stretta. Detta scollatura può avere una larghezza di circa 16 centimetri per lato. Riguardo agli altri lavorucci, possono farli col tempo loro purchè li facciano bene. Fra giorni manderò loro il disegno per un altro corporale e una palla torno a ripetere quanto ho loro scritto, che se non possono fare tutto loro, mandino qualche cosa alla zia Iolanda o si facciano aiutare da altra persona amica.. Questo disegno che manderò potrebbero senz’altro mandarlo a Oppido perché me lo facessero eseguire dalla zia.
Tempo addietro ho mandato anche a Rosina e Cata un giornalino, l’hanno ricevuto? Spero di mandare qualche altro migliore in seguito. Fra giorni scriverò a peppe e allo zio Giuseppino per l’onomastico.
A nome mio e di Ernesto, bacio caramente e abbraccio col più grande affetto, voi, la mamma, Rosina, Cata, Fina, Peppe, Iola, Amalia, gli zii Giuseppino, Michele e la nonna. A voi e alla mamma, bacio pure la mano                                                                     vostro aff.mo    
                                                                                           Ciccillo
P. S. Riguardo alla Messa ormai è questione di mesi, potete quindi star tranquilli, perché tutto, per la fine di luglio o i primi d’agosto, sarà a posto.  Tutto questo peò non lo divulgate se non quando ve lo scriverò e cioè qualche settimana prima dell’ordinazione Sacerdotale. Ho fatto aggiustare la pianeta regalatami da Caterinuzza. E’ riuscita bellissima e preziosa.

domenica 19 ottobre 2014

L'inchiesta (reg. Gianni Amico - 1971)

Questo numero della Settimana INCOM del 21 - 11 - 1951 proiettato nelle sale cinematografiche prima del film in programmazione segnalatomi da Francesco di Raimondo lo conoscevo solo per la parte finale dove si vede un signore che piange davanti ad una lapide. Il signore facendo tutti gli sforzi non sono mai riuscito ad identificarlo mentre la lapide è quella della mamma della nonna Lisa che si chiamava Caterina Fera da cui prese il nome mia mamma. Poco prima una panoramica ci rivela in che stato era il cimitero subito dopo la terribile e ricordatissima  alluvione.
 

questo è la nota dell'Istituto Luce:
Descrizione sequenze:cespugli radi sulle montagne dell'Aspromonte; la terra è ricoperte per la siccità ; un uomo prende tra le mani dei pezzi di argilla ; la terra frana sotto il piede di un uomo ; un giornalista parla con un contadino di fronte alla casa di quest'ultimo ; contadini e contadine discutono in piazza con il sindaco ; vista dall'alto della case addossate l'una all'altra di Caulonia ; case danneggiate dal nubifragio: una donna indica i danni alla propria abitazione ; una pala azionata da un uomo non visibile fuoriesce da un cunicolo ; donne trasportano sulla testa i cesti di terra ; contadini attorno a un carrello pieno di terra ; cimitero devastato dalla frana di terra ; un uomo accucciato piange davanti alla lapide di un parente.

e questa è Caterina Fera  1874 - 1943 sposa di Rocco Mittiga






giovedì 16 ottobre 2014

Caro diario (reg. Nanni Moretti - 1994)

Do inizio oggi alla pubblicazione delle copertine dei quaderni appartenuti al nonno Luigi, a suo fratello Ernesto e ad altri zii. Essi al loro interno contengono componimenti, conti e spese come anche i compiti per casa. Risalgono alla fine del 1800 ed arrivano all'epoca mussoliniana.  Con materiale del genere recentemente nella città dello Stretto è stata allestita una mostra presso la Biblioteca Regionale.






mercoledì 15 ottobre 2014

Tempo di guerra tempo d'amore (reg. Arthur Hiller - 1964)


Questa volta non so quanti lettori troverò d’accordo con me, forse ci sarà chi boccerà il blog ma devo andare ancora oltre. Intanto …

Tranquillizzatevi ….

Oggi leggerete di un rapporto molto spesso accennato nel susseguirsi dei post sino ad oggi pubblicati: gli scambi tra Platì e la città di Messina,  e viceversa.

intanto sentitevi questa ...


La più antica traccia di questo scambio l’ho rintracciata diversi anni or sono in un libro della professoressa Carmen Salvo di cui mi rincresce di non ricordare il titolo. In una delle pagine era ricordato un bosco di proprietà della ricca famiglia Marullo in località Platì o Motta Platì, tra il XV° e il XVI° secolo.

In anni più vicini a noi vari grossisti zanclei avevano commercio con i platioti per via dell’olio d’oliva.

Ho ricordato pure come da Messina arrivò a Platì lo zio Placido per cercare moglie; la fortuna lo arricchì: si portò oltre lo stretto la zia Rosa, sorella di papà. Una santa la zia Rosa. Soddisfatta tutta la famiglia Sciarrone, a Platì corse il fratello dello zio Placido, Giovannino.  Ancora più fortunato, si prese in moglie la bella di casa Mittiga, zia Pina. Questi distacchi alla fine causarono il trasferimento della nonna Mariuzza che si tirò dietro papà e mamma.
C’era stato pure il caso di qualche famiglia di Platì trasferitasi in Messina per motivi impiegatizi.  Felice di nominarne una ho il dubbio che a figli e nipoti la citazione in questo luogo non sia cosa gradita. Sta di fatto che dal paese si portarono anche Rachele, la futura moglie di Micheli u giamba, come collaboratrice domestica.




Nei miei ritorni soggiorni a Platì ogni volta che incontravo Rachele alla messa domenicale dello zio Ernesto essa mi chiedeva della famiglia citata come in vero anche con i figli messinesi ricordavamo Rachele.
Accadeva, è un ricordo di mio fratello Saro, che da Platì partivano per venire oltre lo stretto e sotto raccomandazione di don Umberto Romeo, allora agente di viaggio, quanti dovevano successivamente trasferirsi oltre i mari e in continenti remoti per la visita di idoneità all'emigrazione su quei grandi piroscafi che facevano scalo nel porto messinese.




Ancora.
Due furono le principali attrattive, se così le vogliamo chiamare, che spingevano i platioti verso Messina: il distretto militare e l’università.
A partire dagli anni cinquanta e fino alla metà dei sessanta del XX secolo quanti dovevano ottemperare alla visita per la chiamata alle armi avevano come tappa obbligata Messina. Ma già da tempo i platioti venivano spediti in servizio nei  fortini o nelle caserme se non addirittura all’ospedale militare quando renitenti agli incarichi



Platì sulla pietra di un portale del Forte Serra La Croce in località Curcuraci, villaggio di Messina

Si partiva da Platì con l’autobus di Panuzzo alle cinque e mezzo di mattina, lasciandosi dietro una cometa di fumo nero fragrante  di nafta bruciata. Nel tragitto verso Bovalino, dove si cambiava autobus, prendevano posto altri coscritti: Natiloti, Careroti,Benestaroti. Alle sette c’era il traghetto Aspromonte  da Reggio, dove ad attendere c’erano giovani  provenienti da altri paesi del reggino. Alle sette e trenta si sbarcava per giungere col fiatone e in numeroso gruppo presso la caserma Zuccarello alle otto. Erano ragazzi di tutte le taglie raggruppati senza distinzione di classe sociale, vincolati solo da giovinezza e baldanza.




Per molto tempo la visita di leva è stata una stazione obbligata nella corsa del treno della vita, indipendentemente dal risultato, e toccava tutti i maschi che stavano in piedi e con la mente che camminava. Se ne parlava in famiglia e con i compagni di scuola. La chiamata era arrivata ai nonni come ai padri, naturale che toccasse i figli. Per alcuni si trattava del primo passo messo fuori della nativa Platì: temuta in privato, in gruppo la si beffeggiava.
Tre le giornate che tenevano impegnati i giovani, retribuiti con la medesima paga che spettava chi già era sotto le armi. In fila si attendeva il proprio turno cadenzato in ordine alfabetico dalla voce disattenta del furiere per essere introdotti alla visita medica con ufficiali medici scontrosi. In gruppo, in stanzoni arredati come aule scolastiche si affrontavano i test attitudinali somministrati da baffuti marescialli furibondi, se non erano ufficiali a tre stellette.
Molti erano quelli che alla fine del tempo concesso per le risposte consegnavano i fogli senza esito. Nessun problema la naia è stata sempre comunista  anche in territori fascisti. Lo stesso venivano arruolati per finire nell’ artiglieria come fucilieri con la sfortuna di fare le guardie alla porta centrale della caserma un giorno si e uno no.

Quei tre giorni non erano altro che naia a tutti gli effetti, naturale che si attendesse con impazienza l’ora della libera uscita e prendere d’assalto la città.

Messina offre ben poco a chi deve trattenersi anche se per pochi giorni. I vari terremoti che l’hanno sollevata dalle fondamenta, come i bombardamenti alleati nell’ultimo conflitto mondiale hanno cancellato per sempre ogni traccia del suo storico passato. Nei tempi che stiamo ricordando le sole attrattive erano i bar-pasticceria e le sale cinematografiche. Ora non dobbiamo dimenticare, lo si è riferito prima, che Messina è un porto di mare … Ho detto che lo zio Placido e lo zio Giovannino andarono a Platì per cercare moglie per contro anche i giovani chiamati alle armi stando in urbe avevano in mente non la moglie bensì a fimmina e voi sapete a cosa alludo, e metto punto, per non offendere la sensibilità delle signorine Scrivo solo che in quel passato a Messina la ricerca di questa soddisfazione, Tolstoi la chiama igiene intima, aveva due strade: per chi poteva spendere più adeguatamente le locande; chi possedeva meno il citato porto oppure il poco distante cavalcavia se non le spalle del duomo, ma in quest’ultime accorrevano solo i cittadini della periferia per la modestia dell’offerta e del costo. Ora dovete sapere che in certe serate con gli amici cinefiles si andava in questa parte della città, che poi è centralissima, to shoot certe immagini, certe inquadrature di stile felliniano. La scenografia come gli abiti indossati parevano allestiti dal signor Gherardi come le luci fissate dal signor Tonti mentre noi buontemponi fischiettavamo un motivo del maestro Rota. Il più dotato tra noi incrociando indice ed anulare di entrambe le mani e formando un piccolo riquadro 35 mm. improvvisava una panoramica. Fine Al rientro in paese alla famiglia si menzionava quanto accaduto in caserma mentre con gli amici si svelavano le imprese scostumate ma erano queste che squassavano l’attesa di quanti dovevano prendere l’autobus successivamente.
Si diceva prima che Messina offre poche attrattive per il forestiero, Platì chiuso per com’era offriva ancora meno e la visita di leva era vissuta come un sorta di rito di iniziazione che apriva le porte della maturità se non del matrimonio.
Dovrei ora scrivere sull’università ed il conseguente naturale abbandono del paese da parte dei laureati; è un argomento serio che cerco in tutti i modi di esprimere al meglio, credetemi, è uno strazio il solo pensarci.

giovedì 2 ottobre 2014

Il crepuscolo degli eroi (reg. John Huston e Fadil Hadzic - 1963)




Segue la lista degli eroi! …
Oggi è il nome glorioso di
Mittiga   Domenico
Onore a lui.

Non lacrime – fiori spargete a piene mani, o ragazzi. Non si tratta di piangere sulla tomba degli eroi, di per se stessa illustre. Attorno ad essa, i piccoli mortali s’affollano per ammirare, giudicare e apprendere. Voi non pensate che tutto è morto colui che da noi si commemora. La parte migliore dei trapassati rimane e quando una mesta cerimonia chiama i superstiti alla commemorazione dell’estinto, allora una tenera corrispondenza d’amorosi sensi corre invisibile tra la terra e il cielo: è la religione dei sepolcri; è l’umanità che guarda, mestamente, i nuovi orizzonti s’oltre tomba e modella, guida e corregge il cammino della vita sugli ammonimenti e le voci che vengono di sotterrra. Ascoltate Una voce viene anche da questo tumulo; una voce che è il coro di mille voci, come quelli che cantano, di monte in monte, il peana calmo e sereno della vittoria; voci di corpi lacerati, d’anime gagliarde = è la voce tonante della riscossa che si ripercuote quaggiù, dalle Alpi invano contrastate e dal mare per la terra. Dice la voce: Morimmo, per un ideale di carità cristiana; per quell’ideale proclamato dal Nazareno quando diceva “ Non vi ha carità maggiore di colui che pone la vita per i propri fratelli “. Morimmo, per dare col nostro sangue il movimento alla ruota del progresso. In obbedienza alle sante leggi della Patria, morimmo.
Intendete l’orecchio a questa voce! È la religione e la patria che si fanno sentire. L’una libera i corpi dalla schiavitù, l’altra le anime dal peccato; l’una raccoglie il sangue dei figli, l’altra le lacrime delle madri;  l’una pianta sui tumuli una croce, l’altra avvolge tumoli e croce con la bandiera.
E sull’altare della patria, santificato dalla religione, si posa il martire, dal petto squarciato, i fedeli vi intrecciano ghirlande di rose; è un pellegrinaggio di fede e di patriottismo, perché la fede vi trova un campione, la patria un figlio: = Così, certo, l’intendevano i nostri maggiori dell’impero che salivano il Campidoglio per offrire a Giove le ostie di pingui giovenchi; così l’intendevano i nostri maggiori dei comuni che appendevano alle mura dei tempii  le armature vittoriose; così l’intende la novissima gente italica che fa dei due amori un solo amore! Religione e Patria! – Da questi due sentimenti amalgamati insieme, da queste due corde della medesima lira traggo i concenti per cantare di te, piccolo soldatino d’Italia, che ti fermasti col nome nella storia e sopra i cuori di tutti.

Canto
Allor che ne l’Americhe
Corse una voce che le fibre scosse …
E gli italici petti si vestirono
D’entusiasmo di camicie rosse …
Ed atleti pugnanti sui nevosi
Picchi dell’Alpi – scintillanti al sole –
Protesero le braccia ed invocarono:
Italia! Italia!
Quando si vide, come mostruoso,
serpente che le spire disnodava
su per i monti e i valichi contesi:
l’esercito vestito in grigio verde
Allora appunto fu che tu vedesti
in ogni cosa il tricolor vessillo;
lasciasti a mezzo il tuo lavor, dicesti:
Italia, vengo.
E t’imbarcasti. Come trasvolanti
Grida di madri e di figliuoli oppressi
Ti portavano l’onde. Ed era l’eco
Non ascoltata, né vendicata mai
Del “ Lusitania “
Fiero lo sguardo rivolgesti indietro,
A quella terra di mercanti atroci
Poi, scarmigliata, nel dolor sublime,
Ecco la Madre!
La grande madre che di spighe ondeggia,
La grande madre, madre degli eroi;
Dove in eterna giovinezza regna
Natura ed arte.
Nel suo dolore t’immedesimasti
Grande dolore che le vene accende
Baciasti in fretta i cari tuoi. Volasti
Su le frontiere.
XXX
Quivi, non erano uomini! Angioli parevano
al guardo
Roteanti le spade – in una luce d’or
Avvolti ne la clamide – del patrio stendardo
Su cui fermavan l’occhio – su cui tremava il cor:
E li vedesti ascendere – su per i monti immani
Biancheggianti di neve – su cui si ferma il ciel
Cantavano il peana – lieti, con voci imani
Puntando sul bicipite – nero d’Asburgo angel.
XXX
Accorrete, accorrete!
O tutelari numi della Patria,
O sognanti da secoli
La riscossa!
O voi, cui l’amarissimo copre
custoditi da le sirti infide,
da le ambe selvagge,
Eroi d’Italia e di Roma,
d’oggi, di ieri, dei secoli.
Accorrete, accorrete!
Oggi l’Italia in armi
Per vendicarvi tutti,
Per liberarvi tutti …
O suoi figli, accorrete
Ed assistete all’impeto
di magnanimi eroi
Alla generazione
Di novissimi figli
Raccogliete quei fiori
Fiori di giovinezza
Germogliati nel sangue
Col sangue abbeverati …
Venite, accorrete!
Perché segue ancora l’epopea del sangue.

Signori
Ogni pietra dunque è un altare, ogni fiore è un simbolo di passione; ma dalle zolle vermiglie spuntano anche i fiori della vittoria. Domani quei fiori apporteranno i frutti. E coi fiori della memoria si abbelliscono le tombe. Con religiosa mano raccogliamo sul cammino della gloria i crisantemi pallidi, i narcisi recisi, i gerani, le viole del pensiero ed, alimentate dalle lacrime, servano, questi fiori, allo studio delle generazioni venture.
Così anche tu comparirai nella storia o Mittiga Domenico di Saverio, perché scrivesti col sangue la tua pagina ed il martirio della tua bella giovinezza brillerà negli occhi di coloro che ti conosceranno, come brilla, oggi, tra le lacrime, e nel pensiero  di coloro che mi ascoltano
Così apprenderete, o ragazzi, nelle scuole, la sua  vita:
Egli nacque nel 1889, al 21 Settembre, da Trimboli Assunta e Mittiga Saverio ed offrì alla grandezza della patria i suoi 27 anni il 14 Marzo di quest’anno di gloria.
Come la sua dedizione fu generosa, spontanea, pura, lo sappiamo noi che l’abbiamo visto ritornare dall’America, quando meno se l’aspettavano i suoi genitori. _ Emigrato, non per la cupidigia d’ingrandirsi, ma per quello spirito di libertà di cui ha tante attrattive quella terra, s’intese laggiù più italiano di prima, perché questo amore possente si manifesta e si fa sentire nell’impulso dell’anima che ti spinge, fra la folla sconosciuta, nelle braccia di un operaio sconosciuto di cui un solo accento lo ti manifesta della tua lingua. Intese la poesia della patria nelle dispute e nelle contese di quella folla multipla e policroma quando la nazionalità d’ognuno si difende unghibus et rosribus, l’intese nel garrire di cento bandiere al vento, quando il bel tricolore brillava e fremeva nell’aria come un occhio ed una voce conosciuta: voce per correggere, occhio per vigilare!
Ed un giorno questo segnacolo della patria chiamò i suoi figli a raccolta. Aveva nuovi fremiti quella voce, quell’occhio, vigilante, sulla folla, aveva lampi di sdegno. Si strinsero attorno a quella gli sparsi figli della patria. Ritornavano dalle officine stridenti, dagli arsi campi, dalle miniere insidiose, venivano i lavoratori delle pingue fazendas, i pastori delle pampas, a flotte, a gruppi, a soli, e si stringevano in silenzio le mani come un giuramento, come una promessa: Partire. Il Tricolore, in alto, brillava come l’Idea. Partire! Non si vedevano lassù, verso la vecchia Europa, bagliori come d’incendio? Non era verso quel punto, in quel punto medesimo, il loro paesello natio, la loro casetta bianca, il loro focolare domestico?
Allora più violento ed altero s’intese l’amor di patria, nella tempesta di fuoco si videro le fisionomie delle persone care e a quella vista, la decisione di Mittiga Domenico fu quella d’un figlio che vede la genitrice offesa e si slancia per difenderla con tutte le forze dell’anima. – Narra la storia tutta la grandezza di Cesare in tre parole “ Venne, vide, vinse “. Anche Mittiga Domenico potrebbe compendiare La sua epopea in questo  semplice messaggio, perché fulminea fu la sua venuta, la sua visione, la fine. – Arrivò, mentre la manifestazione di gloria, apparsa alla nostra giovinezza, era fermata lassù dove l’alpe scendeva verso il mare ed il leone di San Marco s’intisichiva sotto la minaccia dell’aquila d’Asburgo. La fortuna d’Italia volle che lassù si trovasse un Uomo degno del suo compito, un Re, ma non come l’Imperatore teatrale dei barbari, un Re latino, semplice, intrepido e buono, avente la stessa anima dei suoi soldati.
Accorse verso la gloria. Si slanciò nella pugna sicuro di vincere e di morire. Vinse. Lo dite voi con la vostra manifestazione di riconoscenza e di simpatia, che vi esalta; lo dicono i soldati che lo sanno e, domani, lo diranno anche le madri ai figli nati e cresciuti valorosi, “ perché un bel morire tutta la vita onora “.
Sebbene egli non avesse bisogno di lavare nel sangue le impurità della vita. Ma io sto per dire che Colui che agita le nazioni per l’assestamento finale – Iddio – come nei tempi passati, ama anche oggi nei sacrifizii le cose migliori. Sono i fiori che Egli raccoglie per inghirlandare le nazioni, saranno forse, e senza forse, gli angeli tutelari della patria ed i viventi, imbalsamando la loro memoria, faranno cosa degna di loro e di utile per le generazioni venture. Muoiono i piccoli, i deboli, i pusillanimi, gli eroi della patria vivono e il nostro Mittiga Domenico insieme a Saverio Campiti, Pietro Callipari, Rocco Grillo, Morabito Giuseppe, Catanzariti Domenico ed altri, passò in questa categoria di viventi a cui non giova il pianto a cui si deve soltanto l’onore.
Parlare del resto di queste cose ai genitori è vano lo so. Le parole più belle e confortanti riescono sempre troppo dure al cuore dei genitori e se noi parlassimo loro della Patria, dei suoi ideali, della sua grandezza e del suo diritto, oh! I genitori non sanno ascoltarci, essi sentono solo l’angoscia infinita dell’anima che ha distrutte le loro più belle e più grandi speranze. Ma poiché ci troviamo al cospetto di Colui che amò tanto la Patria sino a piangere di dolore per essa; poiché altro conforto non ci resta se non quello che ci viene dalla Religione; diciamolo pure francamente, a conforto della desolata famiglia, come egli buono, religioso, ubbidiente, ha fatto una morte, starei per dire invidiabile. Perché, alla fine, la morte non è così brutta per i buoni che ricevono il premio della virtù Oh! Tutt’altro. Ma la madre, mi direte voi, il padre, le sorelle …
Oh si, non sono tanto alto da non vedere l’umanità coi suoi dolori, coi suoi spasimi, con le sue angosce. Ma ci sono delle bende per i cuori sanguinanti; c’è dell’olio e del balsamo che si sparge su tante sciagure, ed è la carità del mio Maestro che vuole che tutti gli uomini siano fratelli e come tali si amino. Religione e Patria! Le ali che Dio ha dato all’anima per salire sino a Lui; le corde più armoniose dei nostri cuori, le leve che sospingono verso nuovi orizzonti il nato di fango, per cui si sente vicino agli angioli; assimilato a Dio!  Amori che non si possono separare, che completano l’uomo interiore e dove non c’è Religione non c’è Patria, perché la prima non si fonda che sull’amore del prossimo, e la seconda non è altro che questo prossimo che siamo tenuti ad amare. Porgiamo perciò il nostro conforto a questa famiglia desolata e se il tempo con le sue fredd’ali vi spazza fin le rovine, oh facciamo almeno che non si cancelli dalle nostre menti e dai nostri cuori il ricordo degli eroi, perché i figli si possano specchiare nelle virtù dei padri  e voi sapete che “ A egregie cose il forte animo accendono, L’urne dei forti “.
E più che un nobile entusiasmo quello che ci anima, dev’essere un sentimento di riconoscenza e d’amore. Mi spiego. Se domani, ad esempio, la vostra esistenza viene minacciata da un pericolo ed in quel momento accorre in vostro aiuto un parente, un vicino, un amico; non siete voi tenuti a ringraziarlo?
E se questo amico, parente, vicino, per liberare voi, la vostra casa, i vostri figli, abbia perduto perfino la vita, non sentite che le sole, azioni di grazie non bastano e che ci vuole amore, amore, amore per pagare tanto sacrificio? Ebbene! Mittiga Domenico è morto per voi, per me, per tutti!
Sacrificò la sua esistenza, perché le porte d’Italia fossero ben assicurate; perché i sonni che noi dormiamo fossero più sicuri, perché le vergini, le madri, le spose fossero ben rispettate. E che se noi pensassimo alle donne martirizzate del Belgio, ai ragazzi mutilati e abbandonati per le vie della Serbia, alle chiese pollute e i monasteri violati della Polonia … se noi pensassimo, dico, che solo per un miracolo di eroismo del nostro eroico esercito furono arrestate le onde dei barbari là in Val Sugana e Valle Lagarina in questi giorni, se tutto questo pensassimo, oh allora non potremmo far di meno di non benedire i martiri che col proprio sangue vinsero il nemico; benediremmo i superstiti, benediremmo tutti, e ci parrebbe di essere indegni, degeneri, ingrati, il giorno in cui li dimenticassimo per un solo momento.
Non sia così! Il concorso di tutti voi, nobili signori, graziose signore, e popolo tutto, questa manifestazione di stima, che vi esalta, mentre segue l’apoteosi di Mittiga Domenico, depone bene di voi, ond’io non trovo che il patriottismo e la religione sono affetti inseparabili e che voi, onorando i caduti della Patria, vi dimostrate dio essere un popolo altamente civile, religioso e onesto. Come tali, inchiniamoci dunque dinanzi a questo tumulo che è l’espressione del nostro entusiasmo e del nostro amore.
La patria è grande e la religione è santa. Mostriamoci degni della patria e onoriamo Dio. Nell’Ecclesiastico si leggono le lodi di coloro che concorsero col senno e con la mano a rendere forte, indipendente e libera la Patria. Il grande capitano della Giudea, mandò a Gerusalemme dodicimila dramme di argento per offrire doni e sacrifizii alle anime dei caduti, bene e religiosamente pensando. Ché, se la patria sulle ferite dei corpi, come il pietoso samaritano, sparge il vino dell’assistenza civile con cento e cento ospedali della Croce Rossa, la religione dal canto suo, spalanca le porte delle sue chiese e dinanzi ad una Croce rossa ancora del sangue d’un Dio, chiama a raccolta i suoi figli a pregare per le anime. E qui, nel tempio, intorno a questi monumenti solenni, è qui che si stringono i patti della solidarietà; è qui che si sente la maestà di Dio, la grandezza della patria. E siccome il dolore è il migliore cemento per amalgamare le anime, qui in questo ambiente saturo di pianto, promettiamo a Dio di essere uniti di mente e di cuore, di forze, di anime e di volontà, nel fine supremo della Vittoria d’Italia che è la vittoria della grandezza e della civiltà  umana.
Salvete o Morti!

///

Conforto ai  vivi, riposo ai morti
L’Italia implora, Gran Dio da te
Fa che Vittoria cantino i forti
Sacri alla Patria e alla fe

FINE
Sac. Ernesto Gliozzi il vecchio

mercoledì 1 ottobre 2014

Brand new day - Al Kooper






Gli artisti dell'Italia moderna sono i suoi burocrati che intuiscono ed elaborano le tasse; i suoi filosofi sono i contadini che le pagano.
Norman Douglas, Old Calabria, Aldo Martello editore



Le pesche sono del Moio e si vede.

lunedì 29 settembre 2014

Il principe folle (re. Harold Braun - 1957)


La morte del Principe
Odo lenti rintocchi,
morto è qualcun co’ fiocchi,
un agitarsi vario,
anzi straordinario
di sarti e calzolai ,
e di fabbri-ferrai,
e di candele e fiori
d’incensi, fumi e odori,
di falegnami chini
su cassa da becchini,
di priori e fratelli,
di chericotti belli,
di sacerdoti e croci,
di lacrime e di voci,
per funebri apparati
son tutti affaccendati.
Ecco ch'é preparata
la cassa sospirata:
aperta, vi si serra
un corpo, che la terra,
ove per sempre giace.
accoglie; e si dispiace
del puzzo che esso spira
che a vomitar ti tira,
dai pochi denti guasti
dal tempo, già rimasti;
da bianca testa e calva;
da grinze de la malva
del colorito cupo;
da le labbra di lupo;
da l'occhio che s'incava
ne l'orbita che scava;
dal padiglione acustico
od asinino e rustico;
dal pendolo evirato
da moto esagerato,
che sempre de la volpe
ricorda molte colpe.
La bara parte, un'onda
di gente la circonda;
l'olla di traditori,
di ladri e adulatori,
di adultere deluse
e vergini contuse,
di sordidi usurai,
del mondo eterni guai;
di prepotenti tristi,
di vili camorristi,
di bastardi parecchi,
di paraninfi vecchi,
di tutta la plebaglia
che ha nome di canaglia.
Ahi! non si vede il povero
che nel suo vil ricovero
va.. mentre vi si reca,
contro la salma impreca;
il giusto in casa fugge.
di gaudio si strugge;
la donna egregia, onesta.
come ne' dì di festa,
di nastri cinge il crine;
la popolana in trine
si para, pur s'adorna,
impreca e dice corna
al suono della squilla:
il ciel, l'aria brilla;
foresi e forosette
in su le collinette
cantando, in ogni loco.
fanno falò, va in foco
del misero massajo
qualsiasi pagliajo;
ruggir di gioia s'ode
la vampa, che pur gode;
gli uccelli pure inneggiano
di libertà gorgheggiano;
tripudio si arriso
nè anco è in paradiso;
mentre l'inno di morte
intuona la coorte
di preti rallegrati,
financo ai morti ingrati.
Durante il lutto un moto
di servi, non ignoto,
di serve e concubine,
dì cugini e cugine,
e d'altri in parentezza
si svolge con destrezza,
si svolge con la mani,
frugando in ogni vano
casse, cassette, scrigni,
stipi, tutti gli ordigni,
di giorno e pur di notte,
rubando fln ricotte.
Il lutto terminato,
va tutto suggellato;
e, fatto' l’inventario,
cosi cala il sipario.
Ad onorare l’ossa
si scrive in sulla fossa:
Qui senza lividure,
ma pieno di lordure;
di Dio e dei diavoli
non degno, sterco ai cavoli,
qui giace sua Eccellenza;
finì la penitenza!
 Vincenzo Papalia, op. cit.

domenica 28 settembre 2014

Bianco e nero (reg. Paolo Pietrangeli - 1975)


Bianco
(con una nota su Ferdinando Mittiga, partigiano
ed il testamento di Padre Bonaventuta da Casignana)
E’ una delle più cospicue e antiche terre della diocesi ed occupava il quinto posto nella gerarchia ecclesiastica.
Col terremoto del 1783 il paese rimase totalmente distrutto compresa la Chiesa parrocchiale e per sovrana disposizione il popolo passò a trapiantare la patria nell’amenissimo suolo di Pugliano dove in virtù del Reale Decreto 1788 vi trasferì l’Arcipretura e l’amministrazione comunale.
Per officiare provvisoriamente si eresse dalla pietà dei fedeli una capanna, mentre con una elargizione della Cassa Sacra si diede principio alla Chiesa Arcipretale. Già la costruzione era molto avanzata quando vennero meno i mezzi, e già si era ottenuto il mandato di altre somme  per il compimento di essa, ma per cavilli degli impiegati, le somme non furono pagate. Successero intanto le vicende calamitose dell’occupazione militare francese che portava spese enormi, continui alloggi e saccheggi, sicché la popolazione restò esaurita e immiserita per quattro anni. Ristabilita la pace il Decurionato ottenne 600 ducati dal Sovrano perché abolita la Cassa Sacra, e con quella somma si portò la chiesa a compimento. Vi era la parrocchia detta di Santa Marina che fu soppressa dal Vescovo Scoppa nel 1791 e la popolazione fu aggregata alla matrice.
In detta chiesa vi era il beneficio di San Giacomo, di patronato della famiglia Medici, fondato nel 1693, quello di S. Maria della Stella della stessa famiglia; quello della Concezione della famiglia Mediati, col peso di una messa settimanale; quello di S. Antonio di Padova della famiglia Saporito, con due messe settimanali; quello di S. Michele Arcangelo della famiglia Medici; quello di S. Francesco di Paola, della famiglia Staiti; quello di S. Giov. Battista, della famiglia Palizzi, con l’onere di 4 messe settimanali; quello di S. Giuseppe della famiglia Ceratti, poi Mesiti; quello di S. Caterina, che fu poi aggregato alla teologale di Gerace; quello di S. Giacomo e S. Nicola De Muscolis, fondato dai fratelli Abate Diego Muscolo, Medico Francesco Muscolo e Ignazio, dotato il 7 Maggio 1677. Inoltre quello di S. Domenico, dell’Annunziata e quello di S. Mercurio di patronato del Principe di Roccella e quello del Sacramento.
Vi erano pure i seguenti altari: Del S.S. Crocefisso di patronato della famiglia Saporito; del Carmine della famiglia D’Andrea con l’onere di due messe settimanali poi passato alla famiglia Medici e quello di S. Gregorio della famiglia Albanese con l’onere di due messe settimanali; quello di S. Maria della Stella della famiglia Napoli e Pittari e quello dell’Immacolata della famiglia Medici; quello didel carmine e di S. Giuseppe eretto da Prassede D’Andrea.
Nell’ambito della cura vi era la chiesa di S. Francesco di Paola situata nel rione Bombile di patronato della famiglia Ielasi e si celebrava la sola festa di S. Francesco. Con l’andare del tempo distrutta la chiesa gli eredi Ielasi in memoria del Teol. Ielasi la costruirono nuovamente nel rione Marina aderente al proprio palazzo. Vi era pure la chiesa campestre di S. Nicola col beneficio omonino distrutta prima del 1750 e il beneficio fu aggregato alla matrice. Vi era ancora la chiesa di S. Giov. Battista e quella dell’Annunziata nella quale vi era la cappella di M. S. S. di Loreto di patronato di Laura Ciranta. Vi era un conservatorio di vergini fondato nel 1632 da Suor Maddalena Lucà per legato fatto da Giovanni Lucà. Le vergini convivevano a propriie spese ed avevano la Chiesa propria sotto il titolo di S. Giov. Battista dove l’economo celebrava messa e amministrava i sacramenti della Penitenza e della Eucarestia. Questo luogo non solamente fu rispettato dal Sovrano ma bensì con reale decreto venne dichiarato sotto la sua protezione. Verso lo scorcio del 1700 i beni furono usurpati da varie persone del luogo. Vi era pure un monte dei Pegni.
Nel 1875 esisteva una confraternita sotto il titolo di Pugliano e sciolta questa dall’Arcip. Dama nel 1912, ne istituì quella del Carmine ed il suo successore Arcip. Raschellà compilò lo statuto che venne approvato dal Vescovo Del Rio.
Titolari della parrocchia sono “ Tutti i Santi “, patrono è S. Leonardo. La Chiesa non fu consacrata né vi ha canonica. La popolazione della parrocchia ascende a 3.500abitanti. Hanno luogo durante l’anno le seguenti processioni: Pugliano, del Carmine, S. Francesco, S. Antonio. Poco lontano era la chiesa sotto il titolo di S. M. di Pugliano che apparteneva alla celebre badia sotto lo stesso titolo, le cui rendite ascendevano a 700 scudi annui ed ebbe quale Abate Commendatario il Cardinale Enrico Enriquez. Vi era inoltre il convento dei riformati, sotto il titolo di S. M. della Vittoria fondato nel 1622. Sorgeva in uno dei tre villaggi che formavano la “ terra di bianco “ detto Crocefisso, forse perché si venerava ivi la miracolosa ed antica Immagine del S. S. Crocefisso. Questo convento non patì detrimento dal terremoto del 1783 e viene diretto con somma cura da un numero di morigerati esemplari Padri che vivono di elemosina. Si rende eziandio di somma utilità per le due fere che si fanno nel piano del convento una alli 3 di Maggio per tre giorni continovi e similmente un’altra alli 14 di Settembre ove vi concorrono compratori di più luoghi della provincia. Il Principe Carafa si dice che era lui ad ordinare da una finestra del Convento l’incominciamento delle fiera. Esercitava tale diritto perché forse era stato il fondatore del Convento, come lo fu di tanti altri.
In detto convento visse quasi tutta la sua vita Padre Bonaventura da Casignana religioso di santa vita che era stato confessore della Regina di Spagna, la beata Maria Cristina ( di cui si conservano alcune lettere dirette allo stesso). Egli fu valente oratore ( un volume delle sue prediche esiste), predicò a Roma, Corfù, Venezia ed in molte città, col ricavato delle sue prediche arricchì il Convento di suppellettili preziose e di sette statue. Nel 1860 il Convento fu bruciato per rappresaglia dei bersaglieri comandati dal tenente Rossi e dal tenente Quadri i quali seguivano le peste dei 22 ufficiali e del Generale Boryers mandati dalla Spagna ad inquadrare e comandare il grosso brigantaggio di Ferdinando Mittiga da Platì. Il Padre Samuele da Siderno, al secolo Antonio Vincenzo Mercuri fu Pietro, era in quell’epoca il Guardiano del Convento ed avendo dato alloggio alle truppe spagnuole, diede motivo alla rappresaglia per cui il convento fu bruciato. Il 21 Settembre 1861 P. Samuele fu proditoriamente ucciso. Durante l’incendio è andato distrutto il celebre, antico e artistico Crocifisso che vi si venerava e si vuole che nel cadere a terra abbia lasciata l’impronta della mano del Cristo.
Vi era inoltre il Convento dei P. P. Osservanti di S. Francesco di Assisi fondato nel 1576 e soppresso nel 1789 di cui nulla resta. Di quello invece di Riformati esistono le mura, fu adibito ad uso di cimitero comunale sino a poco tempo fa, oggi chiuso per ordine del Prefetto della Provincia.

Sac. Ernesto Gliozzi, il vecchio


Testamento di Padre Bonaventura da Casignana al secolo Giuseppe Nicita

Avendo io qui sottoscritto dal mio superiore Generale nel 1827 il permesso da potermi conferire in Napoli e dimorar colà tra frati del mio ordine del convento di S. Pietro ad Aram, subito mi son conferito colà, ed ivi cominciai a far parte di quella comunità, ma non potei sanzionar nel luogo  conto per lungo tempo, perché spesso disturbato da due vizi capitali ambizione ed invidia. Col permesso del suo successore Padre Ferdinando da S. Bartolomeo ottenni e passai ad altra famiglia dei PP. Osservanti di S. Severo Maggiore ove dimorai per il corso di anni 22, ed in questa lunga dimora mi applicai nell’esercizio della santa predicazione, e cavalcai quasi tutti i pulpiti rinomati del regno non esclusi quelli di Corfù Venezia Benevento, da quali ricavai molto lucro, che applicai all’acquisto di sacri arredi, mobilia ed ornamenti di chiese, e molte statue di santi, che comperai per ornarci la chiesa del convento del Sant. Crocifisso di Bianco, ove a mie spese feci fabriche, riformai la chiesa, , ma ritenni per uso mio libri, ed arredi sacri, che per gratitudine lascio al mio pronipote Giuseppe Nicita per consegnarli al suo figlio Francesco Nicita essendosi iniziato per ascendere al Sacerdozio. Detti oggetti li lascio anche col permesso del Sommo Pontefice a me comunicato per mezzo della Sacra (…..), e per gratitudine verso lo stesso il quale per il corso di anni dodici mi mantenne in convento e fuori a sue proprie spese, e mi salvò come è noto al pubblico ed al chiesaro  da fiera persecuzione, per cui son vivo per miracolo. Così voglio, e così lascio, poiché niuno da chiesaro e di fuori, potrà domandar veruno oggetto, né libri, né calici, né camici, né pianete. A questo permesso si unisce u  fondo di vari decreti reali, i quali accordano al religioso la facoltà di disporre degli oggetti da lui acquistati e che conserva a suo uso e comodo. Lascio questa mia volontà in scritto per cautela a cui ho tutto lasciato.
Casignana oggi 23 7bre 1859
P. Bonaventura da Casignana lascio come sopra

Da un altro atto testamentario quasi identico risulta che il padre Bonaventura avesse in Platì una sorella, Elisabetta Nicita, moglie di Domenico Portulise. I quali ebbero quattro figli di cui il primo, Rocco nacque nel 1811, come risulta dal lavoro compiuto dello zio Ernesto, il giovane