TRE
RUDERI CALABRESI
Come
stemma del malgoverno della Calabria meriterebbero di essere posti tre ruderi:
malgoverno non solo politico ma anche amministrativo, che suscita cattedrali
nel deserto, e magari il deserto invece è una oasi meravigliosa, come la piana
di Gioia Tauro, dove prima vengono irrorati miliardi sacrosanti per l’agricoltura
e l’irrigazione, e poi si distrugge tutto per una acciaieria, dove ogni posto
di lavoro supererà di gran lunga il milione, risultando in più di una capacità
di occupazione assai modesta appetto alla spesa faraonica e al bisogno della
regione. In questo caso le cattedrali c’erano già, nel senso di chiese abbaziali,
in parte crollate per i terremoti, ma non così completamente da non potere
essere salvate in quei residui che erano rimasti in piedi e che, per la storia e
per l’arte, costituiscono avanzi preziosissimi, forse i più antichi della nuova
contea normanna, poi regno, di Roberto il Guiscardo e di Ruggero I.
Preziosissimi,
proprio perché fanno toccare all’inizio il processo di elaborazione di un’architettura,
che rappresenta il fatto artistico più cospicuo del Meridione fino a tutto il
secolo XIII.
Si
sa che, prima dei normanni, vi era, in Calabria e in Puglia, la dominazione bizantina,
in Sicilia invece erano già subentrati gli arabi. I bizantini sapevano suscitare
gli odi più tenaci nelle popolazioni soggette, ma erano sempre portatori dei
residui di una grande civiltà; con l’iconoclastia e poi le invasioni arabe una massa
di monaci basiliani si era allora riversata nel Salento, nella Basilicata e in Calabria:
e i monaci significavano soprattutto “laure” (gruppo particolare di celle)
nella roccia, ma anche chiese abbaziali, biblioteche, affreschi.
Il
furbo Guiscardo, per accaparrarsi la benevolenza della Chiesa, che poi infatti
sfociò nell’investitura di quelle terre, in cui il Guiscardo, sulle prime, aveva
seminato il terrore, si dette a costruirci qualche abbazia, chiamandovi i monaci
benedettini della paterna Normandia, con lo scopo di stabilizzarvi dei nuclei
di alta fedeltà, di iniziare uno sfruttamento razionale del suolo. I benedettini
erano agricoltori attivi e desiderosi di compiacere al papa, che desiderava
ricondurre sotto la Chiesa di Roma una regione ormai dichiaratamente
scismatica. L’opera fu fatta con molta circospezione: non si trattò di
fondazioni spettacolari. E infatti, di lì a poco, ottenuta l’investitura, il Guiscardo
cambiò casacca e passò a proteggere e a blandire gli ortodossi basiliani.
Queste
prime costruzioni normanne rappresentavano l’ingresso abrupto non tanto di una
nuova confessione religiosa, quanto di un’arte completamente estranea all’area
meridionale. Senonché non fu un trapianto radicale, come quello dei mitici
santi Cosma e Damiano che sostituirono a un cavallo bianco una gamba con quella
di un sauro. Certo, l’abate Roberto di Grantmesnil, preposto nel 1062 nell’abbazia
di Sant’Eufemia, doveva avere tutto il desiderio di trasferire dalla Normandia,
come un carrozzone con le ruote, un’abbazia benedettina-cluniacense, ma si trovò
subito a dovere comporre, naturalmente, con la tradizione bizantina, ancora
fiorente sul posto, la nuova tradizione benedettina cassinese, e i risoluti
influssi arabi dalla Sicilia, che era a due passi. Per esprimersi in termini
linguistici, si dava un caso più che di bilinguismo, di quattro filoni
idiomatici, che non necessariamente, ma inevitabilmente, dovevano venire a
comporsi.
Tale
composizione, e i modi con i quali avvenne, rappresenta il fascino e l’interesse
precipuo dei tre monumenti di cui si parla e che, sebbene spersi in campagna,
anche se in una bellissima campagna, sono conosciuti da tempo quasi immemorabile,
e naturalmente si trovano in stato sempre peggiore, dato che non si è fatto
niente per salvarli: quando, in un solo caso, intervento c’è stato, era meglio
che non ci fosse. Soprattutto bisogna notare che, distrutta quasi totalmente
dai terremoti del 1638 e del 1783 l’abbazia di Sant’Eufemia, matrice in senso
proprio di tutte le opere benedettine successive, e l’altra, per egual motivo,
di Sant’Angelo di Mileto (la Trinità, incompiuta, di Venosa è da escludere
recisamente che possa risalire al 1063) non restano, di questo primissimo
periodo, che i ruderi di San Giovanni vecchio a Stilo, quelli di Santa
Maria
di Tridetti e di Santa Maria della Roccella. È in questi ruderi che l’impatto
delle tre tradizioni formanti, normanna, bizantina, araba (quella
cassinese è meno rilevante) dà luogo a una miscela che è il codice ma investe
anche la struttura.
È
sintomatico come, nella selezione di elementi discordanti, si riesca a comporre
un gusto cromatico della muratura tardobizantina, con la linearità degli intrecci
arabi. Questi vecchi, decrepiti muri, sempre sull’orlo di un crollo, espongono
ancora la stoffatura materica del mattone e della pietra, l’alto interstizio di
malta, come se invece di mattoni fossero tessere musive. Gli archi intrecciati
arabi, che non si sa perché alcuni studiosi vogliono far venire dalla Spagna
tramite l’Inghilterra, aggiungono l’ordito di ombre e di profili che
stendono
come una rete argentea sulle pareti.
Policromia
bizantina e archi acuti arabi si inseriscono in una pianta che rispecchia, a
poco più di settant’anni di distanza, le innovazioni del Cluny II fra il 1055 e
il 1081. Questo non sarebbe stato possibile se non fosse avvenuto “in diretta”.
Ma naturalmente le varianti risultano subito cospicue, e non a caso, con una
compensazione quasi spontanea fra i quattro diversi poli di attrazione.
Che
tutto ciò si trovi poi ad alto livello nelle famose cattedrali di Cefalù e di Monreale,
per citare solo alcuni dei monumenti direttamente visibili, non toglie l’enorme
importanza di conservare a ogni costo i tre ruderi di cui si è detto. Perché
non si fa? Perché non si è fatto? Il recentissimo studio di Corrado Bozzoni, Calabria
normanna (Roma, marzo 1974), accerta che nulla è stato fatto, e che, ad
esempio, il meglio conservato dei ruderi stessi, quello di San Giovanni vecchio
di Stilo, funge ancora da stalla!
Ma
in realtà è facile rendersi conto di come questo sia potuto accadere, nello sfacelo
dell’Amministrazione delle Belle Arti: tuttavia questo è cominciato da poco. È
mai possibile che mentre si restaurava, ad esempio, la cattedrale di Gerace,
non si sentisse il bisogno di “fermare” i ruderi di San Giovanni vecchio, di
Santa Maria di Tridetti? Il restauro di un rudere non è certo un problema semplice,
come, del resto, nessun restauro. Ma neppure è così impegnativo come, ad
esempio, il consolidamento del duomo di Pienza, che, ineluttabilmente, slittava
a valle. Si ha l’impressione che non sia stato nemmeno proposto l’esproprio dei
ruderi e il consolidamento, e che mentre si spendono centinaia di milioni
sciagurati, offerti dalla Cassa per il Mezzogiorno, per il restauro, scempio
criminale, di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila, non sia stata ravvisata la
necessità del salvataggio di questi incunabuli dell’arte dei normanni.
Cosa
volete sorprendervi? Quando si fa d’ogni erba un fascio, mettendo insieme, nel
ministero appena creato e subito strozzato, beni culturali ed ecologia,
figurarsi se c’è da spendere qualcosa più di una lacrima per i tre ruderi calabresi.
CESARE BRANDI
(1906-1988), Terre d’Italia, Giunti/Bompiani, 2019
Le foto (sono dei particolari) vagano volanti nella rete: nella prima Santa Maria dei Tridetti presso Staiti (RC), nella seconda San Giovanni Theristis (ristrutturato) presso Bivongi (RC), la terza Santa Maria della Roccella presso Roccelletta di Borgia (CZ).
Nessun commento:
Posta un commento