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domenica 10 novembre 2019

Le tre sorelle [di Irving Rapper,1942]


TRE RUDERI CALABRESI

Come stemma del malgoverno della Calabria meriterebbero di essere posti tre ruderi: malgoverno non solo politico ma anche amministrativo, che suscita cattedrali nel deserto, e magari il deserto invece è una oasi meravigliosa, come la piana di Gioia Tauro, dove prima vengono irrorati miliardi sacrosanti per l’agricoltura e l’irrigazione, e poi si distrugge tutto per una acciaieria, dove ogni posto di lavoro supererà di gran lunga il milione, risultando in più di una capacità di occupazione assai modesta appetto alla spesa faraonica e al bisogno della regione. In questo caso le cattedrali c’erano già, nel senso di chiese abbaziali, in parte crollate per i terremoti, ma non così completamente da non potere essere salvate in quei residui che erano rimasti in piedi e che, per la storia e per l’arte, costituiscono avanzi preziosissimi, forse i più antichi della nuova contea normanna, poi regno, di Roberto il Guiscardo e di Ruggero I.


Preziosissimi, proprio perché fanno toccare all’inizio il processo di elaborazione di un’architettura, che rappresenta il fatto artistico più cospicuo del Meridione fino a tutto il secolo XIII.
Si sa che, prima dei normanni, vi era, in Calabria e in Puglia, la dominazione bizantina, in Sicilia invece erano già subentrati gli arabi. I bizantini sapevano suscitare gli odi più tenaci nelle popolazioni soggette, ma erano sempre portatori dei residui di una grande civiltà; con l’iconoclastia e poi le invasioni arabe una massa di monaci basiliani si era allora riversata nel Salento, nella Basilicata e in Calabria: e i monaci significavano soprattutto “laure” (gruppo particolare di celle) nella roccia, ma anche chiese abbaziali, biblioteche, affreschi.
Il furbo Guiscardo, per accaparrarsi la benevolenza della Chiesa, che poi infatti sfociò nell’investitura di quelle terre, in cui il Guiscardo, sulle prime, aveva seminato il terrore, si dette a costruirci qualche abbazia, chiamandovi i monaci benedettini della paterna Normandia, con lo scopo di stabilizzarvi dei nuclei di alta fedeltà, di iniziare uno sfruttamento razionale del suolo. I benedettini erano agricoltori attivi e desiderosi di compiacere al papa, che desiderava ricondurre sotto la Chiesa di Roma una regione ormai dichiaratamente scismatica. L’opera fu fatta con molta circospezione: non si trattò di fondazioni spettacolari. E infatti, di lì a poco, ottenuta l’investitura, il Guiscardo cambiò casacca e passò a proteggere e a blandire gli ortodossi basiliani.
Queste prime costruzioni normanne rappresentavano l’ingresso abrupto non tanto di una nuova confessione religiosa, quanto di un’arte completamente estranea all’area meridionale. Senonché non fu un trapianto radicale, come quello dei mitici santi Cosma e Damiano che sostituirono a un cavallo bianco una gamba con quella di un sauro. Certo, l’abate Roberto di Grantmesnil, preposto nel 1062 nell’abbazia di Sant’Eufemia, doveva avere tutto il desiderio di trasferire dalla Normandia, come un carrozzone con le ruote, un’abbazia benedettina-cluniacense, ma si trovò subito a dovere comporre, naturalmente, con la tradizione bizantina, ancora fiorente sul posto, la nuova tradizione benedettina cassinese, e i risoluti influssi arabi dalla Sicilia, che era a due passi. Per esprimersi in termini linguistici, si dava un caso più che di bilinguismo, di quattro filoni idiomatici, che non necessariamente, ma inevitabilmente, dovevano venire a comporsi.
Tale composizione, e i modi con i quali avvenne, rappresenta il fascino e l’interesse precipuo dei tre monumenti di cui si parla e che, sebbene spersi in campagna, anche se in una bellissima campagna, sono conosciuti da tempo quasi immemorabile, e naturalmente si trovano in stato sempre peggiore, dato che non si è fatto niente per salvarli: quando, in un solo caso, intervento c’è stato, era meglio che non ci fosse. Soprattutto bisogna notare che, distrutta quasi totalmente dai terremoti del 1638 e del 1783 l’abbazia di Sant’Eufemia, matrice in senso proprio di tutte le opere benedettine successive, e l’altra, per egual motivo, di Sant’Angelo di Mileto (la Trinità, incompiuta, di Venosa è da escludere recisamente che possa risalire al 1063) non restano, di questo primissimo periodo, che i ruderi di San Giovanni vecchio a Stilo, quelli di Santa
Maria di Tridetti e di Santa Maria della Roccella. È in questi ruderi che l’impatto delle tre tradizioni formanti, normanna, bizantina, araba (quella cassinese è meno rilevante) dà luogo a una miscela che è il codice ma investe anche la struttura.
È sintomatico come, nella selezione di elementi discordanti, si riesca a comporre un gusto cromatico della muratura tardobizantina, con la linearità degli intrecci arabi. Questi vecchi, decrepiti muri, sempre sull’orlo di un crollo, espongono ancora la stoffatura materica del mattone e della pietra, l’alto interstizio di malta, come se invece di mattoni fossero tessere musive. Gli archi intrecciati arabi, che non si sa perché alcuni studiosi vogliono far venire dalla Spagna tramite l’Inghilterra, aggiungono l’ordito di ombre e di profili che
stendono come una rete argentea sulle pareti.
Policromia bizantina e archi acuti arabi si inseriscono in una pianta che rispecchia, a poco più di settant’anni di distanza, le innovazioni del Cluny II fra il 1055 e il 1081. Questo non sarebbe stato possibile se non fosse avvenuto “in diretta”. Ma naturalmente le varianti risultano subito cospicue, e non a caso, con una compensazione quasi spontanea fra i quattro diversi poli di attrazione.

Che tutto ciò si trovi poi ad alto livello nelle famose cattedrali di Cefalù e di Monreale, per citare solo alcuni dei monumenti direttamente visibili, non toglie l’enorme importanza di conservare a ogni costo i tre ruderi di cui si è detto. Perché non si fa? Perché non si è fatto? Il recentissimo studio di Corrado Bozzoni, Calabria normanna (Roma, marzo 1974), accerta che nulla è stato fatto, e che, ad esempio, il meglio conservato dei ruderi stessi, quello di San Giovanni vecchio di Stilo, funge ancora da stalla!
Ma in realtà è facile rendersi conto di come questo sia potuto accadere, nello sfacelo dell’Amministrazione delle Belle Arti: tuttavia questo è cominciato da poco. È mai possibile che mentre si restaurava, ad esempio, la cattedrale di Gerace, non si sentisse il bisogno di “fermare” i ruderi di San Giovanni vecchio, di Santa Maria di Tridetti? Il restauro di un rudere non è certo un problema semplice, come, del resto, nessun restauro. Ma neppure è così impegnativo come, ad esempio, il consolidamento del duomo di Pienza, che, ineluttabilmente, slittava a valle. Si ha l’impressione che non sia stato nemmeno proposto l’esproprio dei ruderi e il consolidamento, e che mentre si spendono centinaia di milioni sciagurati, offerti dalla Cassa per il Mezzogiorno, per il restauro, scempio criminale, di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila, non sia stata ravvisata la necessità del salvataggio di questi incunabuli dell’arte dei normanni.
Cosa volete sorprendervi? Quando si fa d’ogni erba un fascio, mettendo insieme, nel ministero appena creato e subito strozzato, beni culturali ed ecologia, figurarsi se c’è da spendere qualcosa più di una lacrima per i tre ruderi calabresi.
CESARE BRANDI (1906-1988), Terre d’Italia, Giunti/Bompiani, 2019

Le foto (sono dei particolari) vagano volanti nella rete: nella prima Santa Maria dei Tridetti presso Staiti (RC), nella seconda San Giovanni Theristis (ristrutturato) presso Bivongi  (RC), la terza Santa Maria della Roccella presso Roccelletta di Borgia (CZ).

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