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mercoledì 6 novembre 2019

Col ferro e col fuoco [di Fernando Cerchio, 1962]


L’INDUSTRIA SIDERURGICA
DELLE SERRE CALABRE

Boschi (carbone), acque (forza motrice), miniere (ferro) sono gli elementi della TRINITA’ materiale delle ferriere delle Serre calabre.
«La ferriera di Mongiana, fondata durante il regno di Ferdinando IV di Borbone, è l'ultimo episodio di una attività fusiva, che in Calabria ha origini antichissime - fonderie fenicie - di cui restano numerose tracce nel territorio compreso tra Stilo e Serra San Bruno (...). La storia delle miniere e dei primi rudimentali forni (data) fin dal lontano 1094, anno in cui Ruggero Guiscardo il Normanno cede al Santo Brunone i proventi delle miniere di ferro e dei forni fusori esistenti nel circondario di Stilo e Arena. La 'Mongiana' è una filiazione delle amiche «Ferriere del bosco e del demanio di Stilo» delle quali (...) si distacca nella seconda metà del secolo XVIII. L'enorme fabbisogno di combustibile rendeva le ferriere industrie nomadi all'inseguimento di boschi da carbonizzare (...) «che non disponendo di trasporto adeguati a quel fabbisogno›› metteva le bocche dei foni in cammino alla ricerca di nuovi pascoli da divorare. Nel 1771, distrutto il bosco stilense, i forni giungono in località Cima, al centro di foltissime selve, (...) alla confluenza del Ninfo con l'Alaro (...) a circa mille metri d'altitudine, a cavallo tra Jonio e Tirreno dove è minore la distanza tra i due mari». Località all'incirca equidistante rispetto ai porti d’imbarco per cui, per il versante tirrenico, assicura maggiore celerità di comunicazione con la capitale, l’utilizzazione del porto di Pizzo.



Sulla Piana Stagliata Micone scorre il ruscello Mongiana che provvede d'acqua - e di nome - le nuove fonderie: Le ferriere ed officine di Mongiana. Ferriere, fabbriche d'armi, miniere - di argento, rame, piombo, ferro - sembra il sogno di un nordico fatto in Calabria.
Certo l'acciaio di Mongiana non poteva competere fin dalle prime colate con quello prodotto nel Nord Europa, né le prime lame, alla prima campionatura, con quelle di Toledo; certo i cannoni non potevano confrontarsi con le bocche di fuoco uscite dalle fusioni inglesi (la tecnica fusiva non consentiva di purgare completamente dalle scorie il prodotto, e non lo consenti fin quando due nostri «osservatori» non andarono in Francia e in Inghilterra ad impadronirsi del segreto del mestiere, trafugando quel segreto - e quel mestiere - che né i primi, né i secondi volevano cedere o svelare, e giunti in Calabria i due (Tondi e Lippi, in seguito emulati da D'Agostino e Panzera) misero in atto le esperienze sottratte e migliorarono notevolmente la qualità del prodotto); l'argento; il rame, il piombo che per antica consuetudine erano fusi sul posto di estrazione continuarono ad essere trattati con metodi artigianali, ma nonostante l’inizio pioneristico, a datare dall'era cristiana, resta una testimonianza lunga oltre otto secoli del «Sogno Calabrese» che se non fosse stato interrotto dallo strattone dello Stato che sveglia il calabrese alla nuova miseria con quell'avviso d'Asta del 25 giugno 1874 in cui cede al migliore offerente forni e officine; boschi e segherie; terreni e miniere, e che vide attribuire al Colonnello Achille Fazzari prima che la candela stendesse il miccio, in un unico lotto tutto quel ben di Dio di tenitorio compreso tra Mongiana, Pazzano e Ferdinandea, per una somma di poco più alta alla base d'Asta fissata in L. 524.667 e 21 la Calabria avrebbe certamente approdato ai tempi moderni con un diverso destino.
«La ferriera, non costruita in muratura, è quasi sempre una rudimentale baracca-capannone quanto basta a contenere forni e forge››; una fascinosa, mastodontica Compagnia errante: il Carro di Tespi della siderurgia che piana le tende nella foresta, che ha per spettatori, in piedi, gli alberi, che dopo averli affascinati col solo spettacolo del montaggio del trabum li divora, fa il deserto, drago di fuoco a mantice - e retrattile - fa il deserto, un deserto di foreste rapate, di monti calvi, un deserto di flora bruciata, e di fauna traumatizzata, attorno a sé; e quando anche gli sterpi sono inghiottiti dalla bocca dei forni, leva le tende per trasferirsi su altre piazze che assicurino aria poco umida, acqua veloce, vegetazione fitta e sottosuolo generoso.
Questo fino a quando la fame del nomadismo siderurgico decretata da Murat non è recepita e concretizzata dai Borboni.
«La Mongiana, divenuta auto sufficiente, si costruirà da sola tutto l’occorrente; ne darà prova durante la realizzazione della nuova fabbrica d'armi i cui macchinari saranno progettati e costruiti sul posto. Neanche una lima sarà mai più importata, (...) con la nuova attrezzatura (...) sul piano produttivo la Mongiana non ha rivali». Nel 1855 dà lavoro a 1500 operai. «Dal 1856 la ferriera sta sfruttando una ricchissima vena di minerale (...) nel 1857, ancora in fase di rodaggio dopo l'alluvione, raggiunge l'apice della produttività, e i suoi 4 altiforni riuniti vomitano 25.000 cantaia di ghisa incandescente».
E siamo all’epopea garibaldina.
«In piena fase di lievitazione, la Mongiana è raggiunta dalle colonne.  Nei primi mesi del 1860 lo stabilimento è retto dal Maggiore Giuseppe Del Bono, il quale, oltre ai 1500 operai e impiegati, comanda anche il distaccamento d'Artiglieria (...). Il morale dei soldati è a pezzi (...) loro che sono a diretto contano con Pizzo (centro di smistamento e porto d'appoggio alle operazioni militari dove in continuazione giungono i reduci del teatro delle operazioni)›› al di là delle entusiastiche notizie provenienti da canali di informazioni «promozionali» «conoscono il reale andamento delle cose (...). E’ da poco partito il corriere con il dispaccio che, per la stessa strada, si mette in marcia una colonna garibaldina con l'ordine di requisire lo stabilimento. Del Bono ha appena terminato la lettura dell'allarmante dispaccio che si rende conto di essere già accerchiato dalle camicie rosse. Al momento dispone di 25 uomini e pochi ufficiali contro i 1370.  È la capitolazione, ineluttabile, ed è l’inizio della fine.
«A Massimino, primo amministratore della ferriera «liberata» (...) che non si è ancora ripreso dallo stupore di avere trovato tra quelle montagne simile stabilimento, le nuove autorità chiedono un primo consuntivo sulla fabbrica». E Massimino comunica: «Come appare dallo stato n. 1 qui lavorano tre alti forni ventilati (...).
Evvi poi un altro forno a manica Cubilot per la seconda fusione (...) Questa fonderia può dare 40.000 cantari di ferro fuso l’anno (...) sonvi pure tre raffinerie da ferro nelle quali il ferraccio si riduce in ferro fucinoso (...). A tre ore di distanza nei monti evvi un'altra fonderia che possiede un altro forno (...) e a tre ore dalla vicina Ferdinandea sono le miniere di ferro (...) producenti ottimo minerale». Lo stesso Massimino, dopo essere rientrato precipitosamente da Pizzo, dove si era recato per imbarcarsi verso Napoli in cerca di lumi ed aiuti, raggiunto dalla notizia della sommossa (31 dicembre 1860), trova il coraggio di affrontare la folla da solo, e riesce ad imbastire un dialogo. Scriverà dopo: «Nelli scorsi mesi, varie feste si celebrarono in Mongiana, per Garibaldi, per Vittorio Emanuele, con musiche, luminarie, fuochi artificiali e balli. Nessuna donna compariva, il che a me, nuovo di questi paesi, faceva meraviglia. La mattina del 31 dicembre quando insorse il paese al grido di Francesco II» - si erano accorti, intanto nel frattempo, che erano passati dalla padella alla brace - «e con armi onde potevamo temere anche stragi, tutte le donne vecchie, giovani, maritate e zitelle, correvano per la città armate di bastoni e spiedi, furenti come baccanti, gridando abbasso Vittorio Emanuele, Viva Francesco II ed esse animavano gli uomini ed insultavano fino a stracciare la barba alla spagnuola ad alcuni che credevano affetti al nuovo governo››.
E lo stesso Massimino, che  aveva sue virtù imprevedibili – e lo dimostrò quando si presentò, candidato del partito radicale del collegio di Serra, alle elezioni del primo Parlamento Italiano - ma anche una onesta ingenuità di fondo, capi in ritardo di aver offerto ai «politici» un orto da razziare - lui che come tanti altri garibaldini aveva creduto nella realizzazione di una nazione migliore e a questo fine aveva prestato anche da Mongiana la sua opera; atto non ultimo, per importanza, l'invio dei rilievi sulle ferriere -, capì di aver offerto ai «politici» l'orto cresciuto dall'invio di questi rilievi.
Il canto del cigno di Massimino raggiunge il suo patetico diapason quando, alla prima tornata, risulta vincitore su Vito Doria, suo antagonista; ma «già marchiato come indesiderabile», nel ballottaggio viene 'bruciato' dalle fazioni. Si perde così l'unico uomo che avrebbe potuto «fare ascoltare la voce dei mongianesi e dello stabilimento», quello che, congedandosi suo malgrado, in veste di sindaco, scrive: «Il Governo deve conoscere che esiste in tutto il regno una rete reazionaria tesa, e che forse doveva in un istante involgere il paese in un lago di sangue (...). lo chiamai il cambio di quelli che ora l’opinione pubblica segnala come centri dirigenti. Nulla si fece, nessuno di noi è responsabile. Il Governo negò il denaro che doveva. I creditori non avendo altro titolo si rivolsero a Francesco II. Io promisi a nome di Vittorio Emanuele, ma le mie parole furono smentite, forse perché io venivo qui mandato da Garibaldi» ...
A Catanzaro, prima che la candela accesa sul banco del banditore si spenga, l’ex sarto, ex colonnello, deputato On. A. Fazzari solleva la mano per l'offerta più alta e si aggiudica tutto il complesso. Non poteva andare peggio di così (...). In mano a questo arrampicatore sociale, futuro nobile, in odore di intrallazzi, e dai vaghi atteggiamenti di mecenate, la ferriera si è preclusa ogni futuro».
A questo arrampicatore sociale, colonnello in odore di intrallazzi, l'eroe dei Due Mondi, da Caprera il 6 febbraio 1880 indirizz  la seguente lettera: «Mio car.mo Fazzari, L'amicizia di cui voi mi avete data in questa solenne circostanza tali e tante luminose e generose prove. E certamente il più nobile dei sentimenti che onorano l'umana natura. Fu per me una vera fortuna essere stato beneficiato. E consacrato a voi quella soddisfazione di coscienza del giusto di cui oggi ambo siamo fregiati. Per la vita V.ro G. Garibaldi» «A sua eccellenza il Presidente della Camera dei Deputati. Roma. La cittadinanza napoletana è indignata per la truffa di lire seicentomila organizzata dal signor Fazzari a danno del banchiere Eugenio Rocca, capo della casa F.lli Rocca. Non facendo più il Fazzari parte della Camera; il nome di lui non dovrebbe più a ragione indirizzarsi alla E.V. se non vi fosse la circostanza che la truffa non sarebbe riuscita ad effettuare senza la partecipazione dei due deputati Pucci de' Zerbi e Diego Tojani. ll primo, mediante la pattuita mezzaria, l'ha iniziata; ed il secondo ha completato di organizzarla. Non si ebbe difficoltà di carpire la buona fede di un angusto personaggio a fare che egli credesse di servire ad elevati interessi nel raccomandare personalmente il Fazzari al banchiere Rocca, che gli venne presentato. La Camera non può restare inerte. Essa è pregata per la sua dignità di nominare una commissione d'inchiesta, alla quale saranno provate le più minute circostanze del fatto» ,.. «Certo che se tra le 'generose prove' ve ne erano di natura economica, parte di quelle seicentomila lire sottratte al banchiere Eugenio Rocca, finirono col sostenere la causa garibaldina. Causa che non sostiene, sottolineando e traendo conclusioni, lo Sciascia che tratta il Verga della 'Chiave d'oro': Un povero ladro di ulive viene ammazzato da un campiere nella proprietà di un canonico; il campiere, una specie di mafioso, scappa: e il canonico resta a far fronte alla «giustizia», cioè a un giudice che arriva minaccioso (...). Fatto il sopralluogo il giudice accetta un boccone (...) Il giorno dopo, un messo viene a dire al canonico che il signor giudice aveva perso nel frutteto la chiave dell'orologio»: «e che la cercassero bene che doveva esserci di certo». Il canonico capisce, compra una bella chiave d'oro di due onze, la manda al giudice: «e il processo andò liscio per la sua strada», il canonico indenne, il campiere indultato poi da Garibaldi. E il canonico usava dire poi del giudice: «Fu un galantuomo! Perché, invece di paniere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l'orologio e la catena». (...) ll giudice (che vide) nettamente le responsabilità morali e legali: «si sfogò» dice Verga «contro quel servo di Dio che era una specie di barone antico per le prepotenze, e teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva ammazzare la gente per quattro ulive», ma questo sfogo, questa minaccia, serve soltanto a disporre il canonico a pagare quel prezzo che, con un accorgimento, il giudice stabilirà. E alla non fatta giustizia del giudice borbonico, succede l’indulto di Garibaldi. La parabola si compie spietatamente, tremendamente, con questa frase: «Nel frutteto, sotto l'albero vecchio, dove è sepolto il ladro di ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini». Non c'è il destino, non c'è la fatalità: ci sono gli uomini, la società, la storia. Non troveremo, all'opera di Verga, accusa più netta e terribile di questa, contro la classe di «galantuomini», contro la loro «giustizia». Un «galantuomo» il giudice che dà un prezzo abbastanza modico alla propria corruzione -- e si sente che a giudizio del canonico e di Surfareddu, del servo di Dio e del mafioso, anche Garibaldi, per l’indulto che tocca a questo e per la terra che lascia a quello, può essere considerato, nonostante tutto quello che prende nome di rivoluzione, ma soltanto nome, un galantuomo».
Da bambino vedevo che alle pietre scritte, ai cippi che segnavano il passaggio di Garibaldi i calabresi, analfabeti e colti, non poggiavano l'occhio se non in tralice.
Un’altra riflessione suggerisce la truffa al banchiere Rocca: nonostante i Fazzari, i Pucci, e i Tojani quelli erano tempi in cui un siffatto avvenimento indignava una cittadinanza intera. Per le truffe bancarie, a danno o a favore, certo i nostri tempi di Fazzari, di Pucci, di Tojani cresciuti nel moltiplicarsi, non consentono di indignarci se non che in diversa direzione: a sfavore della banca.
Dall’arrivo dei garibaldini al 1881, vi furono tiepidi tentativi di ripristinare la fonderia: tanto tiepidi che i forni - che avevano bisogno di ben altro calore - non fusero più. Refrattari ad ogni caldeggiamento, Fazzari e il Governo, cincischiano con gli atti e le promesse, ed è più un cercare di stagliare le lacrime dei mongianesi che un serio tentativo di rioccuparli. E fu un continuo franare della Ferriera Itinerante che concluse il suo ultimo viaggio nelle valli dell’umbro ternano. A Temi che ha le stesse caratteristiche montane della Mongiana - e non quelle marine volute dalle leggi della nuova siderurgia - la stessa Italia che si nega a Mongiana, spende molto di più per costruire una grande Siderurgica.
E’ mancata una precisa volontà politica di, se non privilegiare, trattare l’arrancante Sud come il Centro e il Nord Italia. Nonostante la promessa «Saremo una Nazione, una», Nord, Centro e Sud non funsero da espressioni geografiche e semantiche, ma divennero, ad Italia unificata, connotati di una classifica a scalare.
Così mentre le Esposizioni di Firenze (1861) e di, addirittura, Londra (1862) premiano i prodotti di- Mongiana, il Potere Centrale ne decreta la fine. Ed è l’inizio del grande esodo: 1884, i mongianesi sono costretti a passare dalla loro disarmata alla armata fabbrica d'armi di Temi. (allo smacco della perdita delle ferriere e delle officine si unisce l’umiliazione di dover chiedere aiuto proprio a chi era stato privilegiato a loro danno); e a «passare» il mare: i calabresi sono un'ampia parte di quei 500.000 emigranti che ogni anno lasciano la banchina del Sud per i marciapiedi delle Americhe.
Fazzari è (anche) incompetente, ma a sua parziale discolpa bisogna dire che il Governo, a fianco del quale siede in Parlamento, non gli ha commesso nemmeno un chiodo. La latitanza dei governi italiani, a fabbrica e ferriera chiuse, sarà in seguito totale. L'emigrazione inizia subito. Partono i bastimenti; e arrivano i soldi: in divisa estera. Con le rimesse in valuta pregiata si costruirà l’ossatura industriale dislocata al Nord di modo che all'emigrazione estera si sostituirà quella interna; e il Sud vedrà partire dalle rampe dei predellini ferroviari, gli emigranti a 'media gittata': i 'settentrionali'.
«Non abbiamo trovato nessuna delle vecchie attrezzature dello stabilimento. Lo si deve alla solerzia della Soc. Recupero Rottami Marasco incaricata una trentina d'armi fa dalle Acciaierie di Temi di recuperare tutto il ferro giacente nel meridione. I convertitori umbri hanno squagliato le ultime testimonianze di tuta attività to aveva battutofusiva iniziata in Calabria molto prima della venuta di Ruggero il Normanno».
Nessuno alla Terni in questo Evo di avulsi, di distratti del sentimento, anche del sentimento storico (il di «dal›› ed era   giusto correggere: del, non dal, sentimento si è distratti - magari fosse! - si è distratti dall'assenza di sentimento), sentì la necessità di rendere l’onore delle armi alla fabbrica d'armi di Mongiana: di rendere onorevole la resa alla fabbrica, e allo stabilimento siderurgico, restituendo al contendente sconfitto i resti firmati di quella identità originale induplicabile costituita dallo «stampo»
riproduttivo. L'attenzione era compito della consorella che nasceva dalle ceneri dell'altra; non certo dalla greve insensibilità di una società di recupero di rottami. In fondo è anche giusto, ed emblematico: la «testimonianza di ferro›› delle Ferriere della Mongiana fuse dalle Acciaierie di Terni: un mostro ingoia l'altro, e dopo averlo digerito, maramaldeggia sulle vestigia morte dell'altro. Sarà senz'altro il caso di dire che la Società Recupero Rottami non ha responsabilità nella sottrazione di quei reperti che costituivano futura memoria fisica, come non ne ha l'Acciaieria di Temi quando, inconsciamente compiaciuta, nel crogiuolo della fusione verticalità di quei reperti. E un caso. Ma non poteva essere altri a chiedere quei rottami? Una fonderia che non fosse sorta al posto di quella di Mongiana che fu fatta «fondere» privilegiando Temi? Sarà il caso certo, ma quanto deridente e sconsacrante. E quanta ironica ironia!
Nota: gli stralci virgolettati non attribuiti alla paternità di altre firme sono scollati dal vivido affresco di una pubblicazione dì B. De Stefano Manno e G. Matacena, del 1979. La lettera di Garibaldi è stata riportata così come si legge alla pagina 95 della medesima pubblicazione.
SERVIZI, STRALCI, POESIE E TESTI DI LUIGI PASSALIA
OGGISUD, 7 febbraio 1985







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