L’INDUSTRIA SIDERURGICA
DELLE SERRE CALABRE
Boschi
(carbone), acque (forza motrice), miniere (ferro) sono gli elementi della
TRINITA’ materiale delle ferriere delle Serre calabre.
«La ferriera di Mongiana, fondata durante il regno di
Ferdinando IV di Borbone, è l'ultimo episodio di una attività fusiva, che in
Calabria ha origini antichissime - fonderie fenicie - di cui restano numerose
tracce nel territorio compreso tra Stilo e Serra San Bruno
(...). La storia delle miniere e dei primi rudimentali forni (data) fin dal
lontano 1094, anno in cui Ruggero Guiscardo il Normanno cede al Santo Brunone i
proventi delle miniere di ferro e dei forni fusori esistenti
nel circondario di Stilo e Arena. La 'Mongiana' è una filiazione delle amiche
«Ferriere del bosco e del demanio di Stilo» delle quali (...) si distacca nella
seconda metà del secolo XVIII. L'enorme fabbisogno di combustibile rendeva le
ferriere industrie nomadi all'inseguimento di boschi da carbonizzare (...) «che
non disponendo di trasporto adeguati a quel fabbisogno›› metteva le bocche dei
foni in cammino alla ricerca di nuovi pascoli da divorare. Nel 1771, distrutto il bosco stilense, i forni giungono in
località Cima, al centro di foltissime selve, (...) alla confluenza del Ninfo con l'Alaro (...) a circa
mille metri d'altitudine, a cavallo tra Jonio e Tirreno dove è minore la
distanza tra i due mari». Località all'incirca equidistante rispetto ai porti
d’imbarco per cui, per il versante tirrenico, assicura maggiore celerità di
comunicazione con la capitale, l’utilizzazione del porto di Pizzo.
Sulla Piana Stagliata Micone scorre il ruscello Mongiana che
provvede d'acqua - e di nome - le nuove fonderie: Le ferriere ed officine di
Mongiana. Ferriere, fabbriche d'armi, miniere - di argento, rame, piombo, ferro
- sembra il sogno di un nordico fatto in Calabria.
Certo l'acciaio di Mongiana non poteva competere fin dalle prime
colate con quello prodotto nel Nord Europa, né le prime lame, alla prima
campionatura, con quelle di Toledo; certo i cannoni non potevano confrontarsi
con le bocche di fuoco uscite dalle fusioni inglesi (la tecnica fusiva non
consentiva di purgare completamente dalle scorie il prodotto, e non lo consenti
fin quando due nostri «osservatori» non andarono in Francia e in Inghilterra ad
impadronirsi del segreto del mestiere, trafugando quel segreto - e quel
mestiere - che né i primi, né i secondi volevano cedere o svelare, e giunti in
Calabria i due (Tondi e Lippi, in seguito emulati da D'Agostino e Panzera) misero in
atto le esperienze sottratte e migliorarono notevolmente la qualità del
prodotto); l'argento; il rame, il piombo che per antica consuetudine erano fusi
sul posto di estrazione continuarono ad essere trattati con metodi artigianali,
ma nonostante l’inizio pioneristico, a datare dall'era cristiana, resta una
testimonianza lunga oltre otto secoli del «Sogno Calabrese» che se non fosse
stato interrotto dallo strattone dello Stato che sveglia il calabrese alla
nuova miseria con quell'avviso d'Asta del 25 giugno 1874 in cui cede al
migliore offerente forni e officine; boschi e segherie; terreni e miniere, e che vide attribuire al
Colonnello Achille Fazzari prima che la candela stendesse il miccio, in un
unico lotto tutto quel ben di Dio di tenitorio compreso tra Mongiana, Pazzano e
Ferdinandea, per una somma di poco più alta alla base d'Asta fissata in L.
524.667 e 21 la Calabria avrebbe certamente approdato ai tempi moderni con un diverso
destino.
«La ferriera, non costruita in muratura, è quasi sempre una
rudimentale baracca-capannone quanto basta a contenere forni e forge››; una
fascinosa, mastodontica Compagnia errante: il Carro di Tespi della siderurgia che piana le tende nella foresta, che ha per spettatori, in piedi,
gli alberi, che dopo averli affascinati col solo spettacolo del montaggio del trabum li divora, fa il deserto, drago
di fuoco a mantice - e retrattile - fa il deserto, un deserto di foreste rapate, di monti calvi, un
deserto di flora bruciata, e di fauna traumatizzata, attorno a sé; e quando
anche gli sterpi sono inghiottiti dalla bocca dei forni, leva le tende per
trasferirsi su altre piazze che assicurino aria poco umida, acqua
veloce, vegetazione fitta e sottosuolo generoso.
Questo fino a quando la fame del nomadismo siderurgico
decretata da Murat non è recepita e concretizzata dai Borboni.
«La Mongiana, divenuta auto sufficiente, si costruirà da
sola tutto l’occorrente; ne darà prova durante la realizzazione della nuova
fabbrica d'armi i cui macchinari saranno progettati e costruiti sul posto.
Neanche una lima sarà mai più importata, (...) con la nuova attrezzatura (...)
sul piano produttivo la Mongiana non ha rivali». Nel 1855 dà lavoro a 1500
operai. «Dal 1856 la ferriera sta sfruttando una ricchissima vena di minerale
(...) nel 1857, ancora in fase di rodaggio dopo l'alluvione, raggiunge l'apice
della produttività, e i suoi 4 altiforni riuniti vomitano 25.000 cantaia di
ghisa incandescente».
E siamo all’epopea garibaldina.
«In piena fase di lievitazione, la Mongiana è raggiunta
dalle colonne. Nei primi mesi del 1860
lo stabilimento è retto dal Maggiore Giuseppe Del Bono, il quale, oltre ai 1500
operai e impiegati, comanda anche il distaccamento d'Artiglieria (...). Il morale dei
soldati è a pezzi (...) loro che sono a diretto contano con Pizzo (centro di
smistamento e porto d'appoggio alle operazioni militari dove in continuazione
giungono i reduci del teatro delle operazioni)›› al di là delle entusiastiche
notizie provenienti da canali di informazioni «promozionali» «conoscono il reale andamento delle cose (...). E’ da
poco partito il corriere con il dispaccio che, per la stessa strada, si mette
in marcia una colonna garibaldina con l'ordine di requisire lo stabilimento.
Del Bono ha appena terminato la lettura dell'allarmante dispaccio che si rende
conto di essere già accerchiato dalle camicie rosse. Al momento dispone di 25
uomini e pochi ufficiali contro i 1370.
È la capitolazione, ineluttabile, ed è l’inizio della fine.
«A Massimino, primo amministratore della ferriera «liberata»
(...) che non si è ancora ripreso dallo stupore di avere trovato tra quelle
montagne simile stabilimento, le nuove autorità chiedono un primo consuntivo
sulla fabbrica». E Massimino comunica: «Come appare dallo stato n. 1 qui
lavorano tre alti forni ventilati (...).
Evvi poi un altro forno a manica Cubilot per la seconda fusione
(...) Questa fonderia può dare 40.000 cantari di ferro fuso l’anno (...) sonvi
pure tre raffinerie da ferro nelle quali il ferraccio si riduce in ferro
fucinoso (...). A tre ore di distanza nei monti evvi un'altra fonderia che
possiede un altro forno (...) e a tre ore dalla vicina Ferdinandea sono le
miniere di ferro (...) producenti ottimo minerale». Lo stesso Massimino, dopo
essere rientrato precipitosamente da Pizzo, dove si era recato per imbarcarsi
verso Napoli in cerca di lumi ed aiuti, raggiunto dalla notizia della sommossa (31
dicembre 1860), trova il coraggio di affrontare la folla da solo, e riesce ad
imbastire un dialogo. Scriverà dopo: «Nelli scorsi mesi, varie feste si
celebrarono in Mongiana, per Garibaldi, per Vittorio Emanuele, con musiche,
luminarie, fuochi artificiali e balli. Nessuna donna compariva, il che a me,
nuovo di questi paesi, faceva meraviglia. La mattina del 31 dicembre quando insorse il paese al grido di Francesco II» - si erano
accorti, intanto nel frattempo, che erano passati dalla padella alla brace - «e
con armi onde potevamo temere anche stragi, tutte le donne vecchie, giovani,
maritate e zitelle, correvano per la città armate di bastoni e spiedi, furenti
come baccanti, gridando abbasso Vittorio Emanuele, Viva Francesco II ed esse animavano
gli uomini ed insultavano fino a stracciare la barba alla spagnuola ad alcuni che credevano affetti al nuovo
governo››.
E lo stesso Massimino, che aveva sue virtù imprevedibili – e lo dimostrò
quando si presentò, candidato del partito radicale del collegio di Serra, alle
elezioni del primo Parlamento Italiano - ma anche una onesta ingenuità di
fondo, capi in ritardo di aver offerto ai «politici» un orto da razziare - lui
che come tanti altri garibaldini aveva creduto nella realizzazione di una
nazione migliore e a questo fine aveva prestato anche da Mongiana la sua opera;
atto non ultimo, per importanza, l'invio dei rilievi sulle ferriere -, capì di
aver offerto ai «politici» l'orto cresciuto dall'invio di questi rilievi.
Il canto del cigno di Massimino raggiunge il suo patetico
diapason quando, alla prima tornata, risulta vincitore su Vito Doria, suo
antagonista; ma «già marchiato come indesiderabile», nel ballottaggio viene
'bruciato' dalle fazioni. Si perde così l'unico uomo che avrebbe potuto «fare
ascoltare la voce dei mongianesi e dello stabilimento», quello che,
congedandosi suo malgrado, in veste di sindaco, scrive: «Il Governo deve conoscere
che esiste in tutto il regno una rete reazionaria tesa, e che forse doveva in
un istante involgere il paese in un lago di sangue (...). lo chiamai il cambio
di quelli che ora l’opinione pubblica segnala come centri dirigenti. Nulla si fece, nessuno di noi
è responsabile. Il Governo negò il denaro che doveva. I creditori non avendo
altro titolo si rivolsero a Francesco II. Io promisi a nome di Vittorio
Emanuele, ma le mie parole furono smentite, forse perché io venivo qui mandato
da Garibaldi» ...
A Catanzaro, prima che la candela accesa sul banco del
banditore si spenga, l’ex sarto, ex colonnello, deputato On. A. Fazzari solleva
la mano per l'offerta più alta e si aggiudica tutto il complesso. Non poteva andare peggio di così (...). In mano a questo arrampicatore sociale,
futuro nobile, in odore di intrallazzi, e dai vaghi atteggiamenti di mecenate,
la ferriera si è preclusa ogni futuro».
A questo arrampicatore sociale, colonnello in odore di
intrallazzi, l'eroe dei Due Mondi, da Caprera il 6 febbraio 1880 indirizz la seguente lettera: «Mio car.mo Fazzari,
L'amicizia di cui voi mi avete data in questa solenne circostanza tali e tante
luminose e generose prove. E certamente il più nobile dei sentimenti che onorano l'umana natura. Fu per me una vera fortuna essere stato
beneficiato. E consacrato a voi quella soddisfazione di coscienza del giusto di
cui oggi ambo siamo fregiati. Per la vita V.ro G. Garibaldi» «A sua eccellenza il Presidente della Camera dei Deputati.
Roma. La cittadinanza napoletana è indignata per la truffa di lire seicentomila
organizzata dal signor Fazzari a danno del banchiere Eugenio Rocca, capo della casa F.lli Rocca. Non facendo più il Fazzari parte della
Camera; il nome di lui non dovrebbe più a ragione indirizzarsi alla E.V. se non
vi fosse la circostanza che la truffa non sarebbe riuscita ad effettuare senza
la partecipazione dei due deputati Pucci de' Zerbi e Diego Tojani. ll primo,
mediante la pattuita mezzaria, l'ha iniziata; ed il secondo ha completato di
organizzarla. Non si ebbe difficoltà di carpire la buona fede di un angusto personaggio a fare che egli credesse di servire
ad elevati interessi nel raccomandare personalmente il Fazzari al banchiere Rocca, che gli venne
presentato. La Camera non può restare inerte. Essa è pregata per la sua dignità
di nominare una commissione d'inchiesta, alla quale saranno provate le più minute circostanze del fatto» ,.. «Certo che se tra le
'generose prove' ve ne erano di natura economica, parte di quelle seicentomila
lire sottratte al banchiere Eugenio Rocca, finirono col sostenere la causa
garibaldina. Causa che non sostiene, sottolineando e traendo conclusioni, lo
Sciascia che tratta il Verga della 'Chiave d'oro': Un povero ladro di ulive
viene ammazzato da un campiere nella proprietà di un canonico; il campiere, una
specie di mafioso, scappa: e il canonico resta a far fronte alla «giustizia»,
cioè a un giudice che arriva minaccioso (...). Fatto il sopralluogo il giudice
accetta un boccone (...) Il giorno dopo, un messo viene a dire al canonico che
il signor giudice aveva perso nel frutteto la chiave dell'orologio»: «e che la
cercassero bene che doveva esserci di certo». Il canonico capisce, compra una
bella chiave d'oro di due onze, la manda al giudice: «e il processo andò liscio
per la sua strada», il canonico indenne, il campiere indultato poi da Garibaldi. E il canonico usava dire poi del
giudice: «Fu un galantuomo! Perché, invece di paniere la sola chiavetta,
avrebbe potuto farmi cercare anche l'orologio e la catena». (...) ll giudice
(che vide) nettamente le responsabilità morali e legali: «si sfogò» dice Verga
«contro quel servo di Dio che era una specie di barone antico per le prepotenze,
e teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva
ammazzare la gente per quattro ulive», ma questo sfogo, questa minaccia, serve
soltanto a disporre il canonico a pagare quel prezzo che, con un accorgimento,
il giudice stabilirà. E alla non fatta giustizia del giudice borbonico, succede
l’indulto di Garibaldi. La parabola si compie spietatamente, tremendamente, con
questa frase: «Nel frutteto, sotto l'albero vecchio, dove è sepolto il ladro di
ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini». Non c'è il destino, non
c'è la fatalità: ci sono gli uomini, la società, la storia. Non troveremo,
all'opera di Verga, accusa più netta e terribile di questa, contro la classe di
«galantuomini», contro la loro «giustizia». Un «galantuomo» il giudice che dà
un prezzo abbastanza modico alla propria corruzione -- e si sente che a
giudizio del canonico e di Surfareddu, del servo di Dio e del mafioso, anche Garibaldi, per l’indulto che tocca a
questo e per la terra che lascia a quello, può essere considerato, nonostante
tutto quello che prende nome di rivoluzione, ma soltanto nome, un galantuomo».
Da bambino vedevo che alle pietre scritte, ai cippi che
segnavano il passaggio di Garibaldi i calabresi, analfabeti e colti, non
poggiavano l'occhio se non in tralice.
Un’altra riflessione
suggerisce la truffa al banchiere Rocca: nonostante i Fazzari, i Pucci, e i Tojani
quelli erano tempi in cui un siffatto avvenimento indignava una cittadinanza intera.
Per le truffe bancarie, a danno o a favore, certo i nostri tempi di Fazzari, di
Pucci, di Tojani cresciuti nel moltiplicarsi, non consentono di indignarci se non che in diversa direzione: a
sfavore della banca.
Dall’arrivo dei garibaldini al 1881, vi furono tiepidi tentativi
di ripristinare la fonderia: tanto tiepidi che i forni - che avevano bisogno di ben altro
calore - non fusero più. Refrattari ad ogni caldeggiamento, Fazzari e il Governo, cincischiano con gli
atti e le promesse, ed è più un cercare di stagliare le lacrime dei mongianesi
che un serio tentativo di rioccuparli. E fu un continuo franare della Ferriera
Itinerante che concluse il suo ultimo viaggio nelle valli dell’umbro ternano. A
Temi che ha le stesse caratteristiche montane della Mongiana - e non quelle marine
volute dalle leggi della nuova siderurgia - la stessa Italia che si nega a Mongiana, spende molto di più
per costruire una grande Siderurgica.
E’ mancata una precisa volontà politica di, se non
privilegiare, trattare l’arrancante Sud come il Centro e il Nord Italia.
Nonostante la promessa «Saremo una Nazione, una», Nord, Centro e Sud non
funsero da espressioni geografiche e semantiche, ma divennero, ad Italia
unificata, connotati di una classifica a scalare.
Così mentre le Esposizioni di Firenze (1861) e di,
addirittura, Londra (1862) premiano i prodotti di- Mongiana, il Potere Centrale
ne decreta la fine. Ed è l’inizio del grande esodo: 1884, i mongianesi sono
costretti a passare dalla loro disarmata alla armata fabbrica d'armi di Temi. (allo
smacco della perdita delle ferriere e delle officine si unisce l’umiliazione di dover
chiedere aiuto proprio a chi era stato privilegiato a loro danno); e a
«passare» il mare: i calabresi sono un'ampia parte di quei 500.000 emigranti
che ogni anno lasciano la banchina del Sud per i marciapiedi delle
Americhe.
Fazzari è (anche) incompetente, ma a sua parziale discolpa
bisogna dire che il Governo, a fianco del quale siede in Parlamento, non gli ha
commesso nemmeno un chiodo. La latitanza dei governi italiani, a fabbrica e
ferriera chiuse, sarà in seguito totale. L'emigrazione inizia subito. Partono i
bastimenti; e arrivano i soldi: in divisa estera. Con le rimesse in valuta
pregiata si costruirà l’ossatura industriale dislocata al Nord di modo che
all'emigrazione estera si sostituirà quella interna; e il Sud vedrà partire
dalle rampe dei predellini ferroviari, gli emigranti a 'media gittata': i
'settentrionali'.
«Non abbiamo trovato nessuna delle vecchie attrezzature
dello stabilimento. Lo si deve alla solerzia della Soc. Recupero Rottami
Marasco incaricata una trentina d'armi fa dalle Acciaierie di Temi di
recuperare tutto il ferro giacente nel meridione. I convertitori umbri hanno
squagliato le ultime testimonianze di tuta attività to aveva battutofusiva
iniziata in Calabria molto prima della venuta di Ruggero il Normanno».
Nessuno alla Terni in questo Evo di avulsi, di distratti del
sentimento, anche del sentimento storico (il di «dal›› ed era giusto
correggere: del, non dal, sentimento si è distratti - magari fosse! - si è distratti
dall'assenza di sentimento), sentì la necessità di rendere l’onore delle armi
alla fabbrica d'armi di Mongiana: di rendere onorevole la resa alla fabbrica, e
allo stabilimento siderurgico, restituendo al contendente sconfitto i resti firmati
di quella identità originale induplicabile costituita dallo «stampo»
riproduttivo. L'attenzione era compito della consorella che
nasceva dalle ceneri dell'altra; non certo dalla greve insensibilità di una
società di recupero di rottami. In fondo è anche giusto, ed emblematico: la
«testimonianza di ferro›› delle Ferriere della Mongiana fuse dalle Acciaierie
di Terni: un mostro ingoia l'altro, e dopo averlo digerito, maramaldeggia sulle
vestigia morte dell'altro. Sarà senz'altro il caso di dire che la Società
Recupero Rottami non ha responsabilità nella sottrazione di quei reperti che
costituivano futura memoria fisica, come non ne ha l'Acciaieria di Temi quando,
inconsciamente compiaciuta, nel crogiuolo della fusione verticalità di quei reperti.
E un caso. Ma non poteva essere altri a chiedere quei rottami? Una fonderia che
non fosse sorta al posto di quella di Mongiana che fu fatta «fondere» privilegiando
Temi? Sarà il caso certo, ma quanto deridente e sconsacrante. E quanta ironica
ironia!
Nota: gli stralci virgolettati non attribuiti alla paternità
di altre firme sono scollati dal vivido affresco di una pubblicazione dì B. De
Stefano Manno e G. Matacena, del 1979. La lettera di Garibaldi è stata
riportata così come si legge alla pagina 95 della medesima pubblicazione.
SERVIZI, STRALCI, POESIE E TESTI DI LUIGI PASSALIA
OGGISUD, 7 febbraio 1985
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