Zio Ernesto 12/04/1915 - 02/02/2008
ciao ginocugino!
questo che ti mando è uno stralcio della relazione che scrissi nell’anno dell’immissione in ruolo.
ho tagliato, naturalmente, tutta la parte “burocratica”, lasciando spazio solo all’emozione, fortissima, che mi accompagnava costantemente in quel periodo. mi ha fatto sorridere rileggerla. mi sento un’altra persona e forse lo sono. oggi non l’avrei raccontata così, ma mi emoziona ancora sapere di aver pensato, allora, che non poteva essere altrimenti. e lo zio, oggi come allora, non mi indurrebbe a pensare un’altra cosa.
quando c’era dio
prologo
nell’ottobre del 1981, con in tasca un diploma di maturità, ottenuto con il massimo dei voti, cosa che mi era costata la perdita di un’amicizia che io ritenevo tra le più care, salii su uno di quei treni che noi ragazzi chiamavamo “del far west”: una o due vecchie carrozze con durissimi sedili di legno, lentissimo; ero diretta a reggio, dove volevo “vedere” la facoltà di architettura, per valutare tra l’eventualità di seguire uno dei miei due desideri (l’altro era quello di studiare lingue), oppure ascoltare i suggerimenti di mio padre, che mi avrebbe voluta, invece, notaio.
nello scompartimento, ad un certo momento, entrò un distinto vecchietto, con una folta barba e lunghi capelli bianchi che gli arrivavano sulle spalle. si sedette di fronte a me e cominciò a chiedermi dei miei studi e delle mie ambizioni per il futuro; incuriosita dall’insistenza, gli confessai che ero ancora indecisa: mi sarebbe piaciuto moltissimo studiare lingue, ma pensavo che, se fossi rimasta in calabria, avrei finito per fare l’insegnante di francese, e l’insegnante era proprio quello che avrei mai voluto fare!!!
il vecchietto mi guardò a lungo prima di rispondermi, poi mi sorrise e mi disse:” non pensarci, cara! non vuoi fare l’insegnante di francese? bene! allora farai l’insegnante di disegno”.
a diciotto anni appena compiuti, e il mondo per me, guardai il vecchietto con commiserazione: non aveva capito niente,io non volevo fare l’insegnante!
narrazione
ero piccola.
la nonna mi raccontava, come favole, il nabucco e il trovatore.
i colleghi della mamma si fermavano a mangiare a casa nostra prima dei consigli, mentre papà, a volte, mettendosi a giocare a carte con gli amici, ci rubava la “stanza dei giochi”: io e mio fratello eravamo “addetti al ristoro”, e quando aprivamo quella porta venivamo investiti da folate di aria irrespirabile, per il fumo.
lo zio ciccillo, sacerdote, mi accompagnava ad ardore, dove prendevo lezioni di pianoforte, ma io detestavo il solfeggio: con lui mi piaceva passeggiare per il paese o per le campagne, giocare a comporre filastrocche buffe e, a natale, costruire il presepe, ma avevo il terrore di entrare nella sagrestia della chiesa del rosario, dove lui diceva messa, perché la statua del cristo morto, steso su un lettino bianco e coperto da un velo, mi faceva paura.
lo zio ernesto, sacerdote anche lui, ma anche musicista, poeta, scrittore, pittore, falegname, elettrotecnico, insegnante e non so più cos’altro, mi aiutava a disegnare, a suonare, a comporre versi e, poi, a tradurre il latino. ad ogni inizio d’anno scolastico, fin dalla prima elementare, si sedeva accanto me e mi compilava la pagina iniziale dei quaderni, scrivendo il mio nome con lettere meravigliose (come invidiavo i suoi studi di calligrafia!). crescendo, mi sono scontrata più volte con lui sulla “dottrina” della chiesa, anche se spesso, devo dire, mi lasciava alle mie convinzioni, senza preoccuparsi troppo di indurmi a cambiare idea; quando succedeva che lui non ribattesse ai miei violenti attacchi di adolescente, non avevo mai la sensazione di averlo “convinto”, ma nemmeno sentivo in bocca il sapore amaro che si ha quando si è costretti al silenzio, piuttosto pensavo che fosse davvero un uomo “illuminato”…
“deportata”, come era successo a tutti i miei cugini, in luoghi che ci avrebbero garantito, secondo chi aveva deciso, una serenità maggiore di quella che ci regalava la vita del paese, mi misi anch’io alla ricerca, senza sapere cosa cercare…
seguivo un copione… la mia terra e il mio mare. poi reggio laurea matrimonio lipari lavoro un altro mare. scuola? se proprio devo… stromboli canneto pianoconte quattro pani un’altra terra …un figlio? no per favore ancora no! va bene come vuoi… e ancora lipari forse in germania. no per carità! emigrante no! (ma non lo sono già?) e poi lavoro. e lipari e un figlio. stavolta si, forse, no, e poi si! e di nuovo bovalino e un altro figlio! maschio anche questo per favore. si come vuoi.. e foligno milazzo e un’altra. “con i capelli di tutti i colori, mamma”. dolore. lacerante e interminabile. la fine. e il mio mare. scuola? stavolta si e collane barattoli e fondi di bottiglia isole trasparenti e fiori di carta e finalmente, dopo dieci anni dal progetto, la prima pietra del centro pastorale…
nel cuore sempre la stessa domanda: cosa farò da grande?...
in tempi recenti, l’uomo “illuminato” nulla ha mai chiesto delle mie contorte vicende, eppure, in quel silenzio, immaginavo il suo dolore, silenzioso e grande. forse più del mio.
quando, a luglio dello scorso anno, fui convocata al csa di reggio per il mio primo incarico annuale, mi trovai costretta ad una decisione che mi appariva terribile: le possibilità si erano ristrette al punto da dover scegliere la sede di platì, l’unico posto che tutti mi consigliavano perché sarebbe “diventato definitivo”, l’unico posto dove non sarei mai voluta ritornare.
lo zio ernesto, quasi immobile da tempo, ma sempre lucidissimo e pronto, non sembrò meravigliato: “non sei contenta? - mi disse - sei tornata a casa! qui tutti ti vogliono bene!”. io, invece, provai la stessa sensazione di venticinque anni prima, davanti al vecchietto sul treno…
alla fine di gennaio io firmai il contratto per l’immissione in ruolo e lo zio si aggravò.
quella sera stessa mi disse, mentre lo abbracciavo, che si stava “appropinquando”, e il 2 febbraio, all’alba del giorno della presentazione di gesù al tempio, anche lui si presentò al signore.
epilogo
quel pomeriggio, mons. femia, vicario del vescovo, venne a trovarci.
non avevo avuto che pochissime occasioni di parlargli, ma lui, invece, sembrava conoscermi bene: “architetto! - mi disse - tu segui le orme dello zio! raccogli la sua eredità! anche lui era un artista!”. cercavo di sottrarmi all’elogio, ma lui continuava: “e’ stato mio insegnante in seminario”. di religione, pensavo io, mentre lui incalzava: “per un periodo insegnò francese, poi, però, continuò insegnando disegno tecnico, ed era davvero un eccellente…”
non riuscii più a sentire cosa stava aggiungendo: nelle mie orecchie c’era solo il rumore di un ingranaggio gigantesco, che si era innescato non so quanto tempo prima e che, in quel momento, stava mettendo al loro posto gli ultimi pezzi. il meccanismo era stato messo a punto in modo esemplare e i tempi avevano funzionato alla perfezione. leonardo, pensavo, le macchine e lo zio ernesto ed io.
ed io? dove avevo cercato di andare? dove volevo ancora scappare?
ero al mio posto, finalmente, nonostante avessi fatto di tutto per allontanarmene. non avevo mai creduto, prima, di essere parte un progetto più grande di me che mi coinvolgeva, ma la mia strada era disegnata e mi era stata indicata: la mia strada è il mio paese e dio, un giorno, era salito sul mio stesso treno per indicarmela.
io non lo avevo ascoltato.
platì, 2 luglio 2008
Marilisa