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martedì 18 gennaio 2022

Prima del calcio di rigore [di Wim Wenders - 1971]

 

Ricordi di gioventù
Una partita di calcio

Il trillo del telefono rompe la routine noiosa di una certa parte della giornata lavorativa.
La voce dall’altro capo del filo ha l’inflessione a me cara, e questo basta per farmi rasserenare, poi il motivo della telefonata mi ha catapultato all’indietro di quarant’anni.
Quante emozioni mi ha procurato quel trillo, richiamandomi ricordi buoni e cattivi, volti e nomi, giochi e sofferenze, amici, tanti amici.
La scuola, i compagni, i professori, le marachelle e le conseguenti sospensioni, gli amori primi e indimenticati. Ovviamente solo platonici. Spesso note solo a me e non alle destinatarie dei miei innamoramenti, tipici di quell’età.
Infine, un amore, questa volta praticato: il calcio, letto, parlato, e praticato appunto.
Giocavamo al campo del “Vignale” dietro la villa “Galatti” che di primavera si riempiva di glicini profumatissimi (ora è disabitata e diroccata e mi fa sanguinare il cuore quando, arrivando, la cerco per trovare i miei ricordi giovanili).
Il calcio, dicevo. Quante battaglie a parole e a calci, quando giocavamo.
Quelli di “Susu” contro quelli di “Jusu” oppure scontri tra classi diverse dell’avviamento ad indirizzo agrario che ebbi la fortuna di frequentare. Da lì è partita la mia laurea in Economia. Vedete come fruiscono i pensieri; questo “brainstorming” e proprio una tempesta del cervello, un torrente in piena come il Bonamico il 18 ottobre ’51!
Memorabile e rimasto il sonoro 11 a 0 che beccammo a Natile Nuovo, una calda domenica di giugno, a ridosso della festa di San Pietro che, se ricordo bene, è il patrono di Natile.
Partimmo a piedi da Platì alle otto di mattina, arrivammo a Natile verso le 10.
Cominciammo la partita con la stanchezza nelle gambe, oramai diventati di legno e la testa che era bloccata al pensiero che, a piedi, avremmo dovuto tomare al paese!
Ebbene le prendemmo di brutto, senza alcuna scusante. Lascio a voi immaginare con quanto entusiasmo ci siamo rimessi sulla via del ritorno con il peso schiacciante dello “scorno" delle undici “papagne" incassate.
Io facevo l’ala destra e, tifando per la Juve, mi chiamavano Charles, per la mia irruenza. Lui era il “gigante buono”, io invece...
Ecco ho voluto fissare alcune sensazioni tra le moltissime che velocemente mi sono passate davanti, al solo sentire che avrei dovuto scrivere per ricordare qualcosa della mia vita al paese.
Ecco ho fissato questi fatti insieme alle emozioni sicuramente insignificanti per chi legge. Non per me che mi hanno dato modo di rivivere attimi di cui ho rimpianto, a quest’ora, in questo mio studio, sicuramente bello e comodo, ma senza la spensieratezza e la gioia dei momenti appena rievocati.
Ho scritto di getto, senza neanche rileggere, probabilmente la dattilografa penserà che sono “uscito pazzo". Non sono pazzo, ho solo “vomitato” parte dell’immenso affetto che ho per la mia terra per la quale vorrei fare tanto e ho fatto niente.
Ecco ora ricordo l’odore che emana di questi tempi la “crizza” (come si chiama in italiano?) al sole, mentre asciuga dalla brina notturna di settembre.
Certo, un messaggio vorrei che arrivasse a qualche giovane che dovesse leggere questo scritto: non pensi al solito retorico vecchio che gronda nostalgia ed autocontemplazione dei bei tempi passati. No, sbaglierebbe. Si tratta sicuramente di una persona che ha passato i cinquanta, ma che nella vita ha lottato con “fede
ed ardimento" per affermare sé stesso e i valori positivi seminati e coltivati in una terra aspra e portati in giro per l’Italia.
Valori che ancora oggi danno forza ed entusiasmo per lottare e vincere le battaglie che quotidianamente la vita riserva. Questi momenti rievocativi servono a dare una rinfrescata ai valori suddetti e servono a rilanciarmi.
Guai a non avere momenti o angoli privatissimi che conservano la giocosità della fanciullezza, non ci sarebbe entusiasmo senza queste piacevolezze, dove rifugiarsi nei momenti di crisi della propria identità.
Servono per ritrovarsi e ripartire alla grande per nuove mete positive e di valore alto.
Attilio Caruso

Il testo originale è in

PLATI’ PERIODICO DI CULTURA E INCONTRO ANNO 0 - NUMERO 0 - NOVEMBRE 1996

rivista fondata e diretta da Mimmo Marando 

domenica 16 gennaio 2022

Le cinque rose di Jennifer [di Tomaso Sherman - 1989]


 

Ciao … Mi chiamo Jennifer frequento la classe 4a, ho 10 anni e vivo a Cirella, un paesino ai piedi dell’Aspromonte. Io se mi affaccio dalla finestra posso ammirare il fascino dell’Aspromonte ma posso ammirare Pietra Cappa. Pietra Cappa è il monolite più alto d’Europa, è alta 140 metri e occupa 4 ettari di terreno, a pensare che tanti turisti partono da lontano per visitare l’Aspromonte mi fa sentire fortunata. Nella montagna Aspromonte si possono trovare diversi animali tra cui: il cinghiale, il lupo, la volpe, invece tra i rettili la più diffusa è la vipera e tante altre specie. Nella flora troviamo principalmente il faggio, abeti, il castagno, la quercia mail più diffuso nelle colline Aspromontane è l’ulivo.
Mio nonno nel piccolo paese di Cirella ha fondato il Frantoio Perre dal 1964 ad oggi, con molti sacrifici ha iniziato a comprare sempre più terreni, abbiamo circa 170 ettari di terreni ai piedi dell’Aspromonte. Nonno era papà di 8 figli e voleva inventare qualcosa per dare un futuro ai suoi figli, ha iniziato con un piccolo frantoio che aveva la macina in pietra stiamo parlando del 1964. E man mano che gli anni passavano i figli maschi che tutt’ora sono eredi, tra cui mio padre e due miei zii, si sono innovati con la tecnologia moderna e macchinari di ultima generazione. Abbiamo un imbottigliamento, cosa che una volta non c’era. Esportiamo il nostro olio a livello intercontinentale, negli Stati Uniti, in Canada, in Francia, Germania e in tutta Italia. Oh!!! Dimenticavo a dire una cosa molto importante, il nostro olio arriva direttamente dalle colline ed è tutto certificato bio, senza conservanti e le nostre piante non hanno alcun trattamento chimico. La macinatura delle olive viene lavorata a freddo nella stessa giornata della raccolta perciò l’olio è super buono; la raccolta ha inizio in ottobre e finisce a marzo. Io abito sopra al frantoio sin da quando ero piccolina, per me svegliarsi col profumo di olio appena macinato è una cosa che se non si sente non si può spiegare a parole. Io appena posso vado ad ammirare come avvengono i procedimenti della macinatura. Con il primo olio di ogni stagione, mi vado a fare direttamente la bruschetta giù insieme a tutta la famiglia.
Infine, più di una volta tutta la mia scuola è venuta a visitare la mia azienda, i miei compagni sono rimasti meravigliati, pur essendo dello stesso paese non avevano mai visto tutta la procedura che avviene, da piccoli ulivi a olio direttamente in bottiglia. Io sono molto fiera che mio nonno ci ha lasciato questa bellissima eredità, mi auguro che noi nipoti riusciremo a tramandare questa attività perché è una tradizione di famiglia e siamo fieri di averla.
Nonna mi racconta che nei paesi Aspromontani sino a non molto tempo fa le persone conducevano una vita sicuramente più dura e molto diversa specialmente le famiglie contadine.
I contadini Aspromontani passavano la giornata nei campi a coltivare e allevare il bestiame. Però la sera si radunavano nelle stradine o davanti un camino a raccontare storie successe realmente.
I miei nonni da bambini hanno vissuto la guerra del 1943. Nonna mi racconta che l’8 settembre ci fu una guerra tra forze armate italiane e gli alleati. La guerra si svolse in pieno Aspromonte (tra le montagne di Platì e Oppido Mamertina) Ci furono molti morti e prigionieri ma quella fu l’ultima guerra. Loro vivevano nella paura perché saccheggiavano le case.
L’Aspromonte è una terra meravigliosa e ricca di risorse, Aspromonte vuol dire “Monte aspro”, io sono contenta delle mie origini e tradizioni e orgogliosa di essere Aspromontana.
Jennifer Perre classe 4a primaria
Plesso Cirella istituto Platì
 

Testo partecipante al Premio "E. Gliozzi" organizzato dall'Associazione Etno- Culturale Santa Pulinara, edizione 2021.


A dieci anni Jennifer Perre oltre che essere “contenta delle mie origini e tradizioni e orgogliosa di essere Aspromontana”, ha già una prosa sciolta e sicura e con il suo nome e cognome promette anche di finire sulle copertine dei libri. È una speranza, solamente nostra, come poche altre, anche perché la Calabria ha una letteratura tutta maschile. Per ora le possiamo consegnare solo un virtuale olivo d’oro.



giovedì 13 gennaio 2022

Matrimonio in famiglia [di Rick Famuyiwa - 2010]



DIVAGAZIONI IN CASA NOSTRA
Il rito nuziale
negli usi calabresi
Ad Africo, la cittadina dell'ultima punta
della Penisola, il matrimonio assume la più
vasta eccezione alla semplicità dei popoli
 
Africo 19 gennaio
Ad Africo la citta più strana dell'ultima, punta dì Calabria il rito del matrimonio non poteva che assumere la più vasta eccezione alla semplicità dei popoli rivieraschi. Nella compagine della città chimerica, che vive appollaiata sul cocuzzolo di un monte, come il purgatorio dantesco, distaccata quasi del tutto dalla gente, i matrimoni avvengono solo tra parenti ed addizionano, così, i difetti secondo una autorevole teoria fisiologica — niella scala delle generazioni, tramandando ai nascituri tare ed infermità. Sono i parenti a disporre delle parentele e così, in segreto che i soggetti da convogliare a nozze neppure lo sanno. Cosi come nel Sesto di S. Martino a Firenze nel 300, gli sponsali servivano ad integrare i rapporti di parentela, ugualmente ad Africo, le nozze non volgono che a colmare partite vuote nei bilanci famigliari della gente più in vista. Solo più tardi i designati s'incontreranno nella loro qualità di fidanzati, che vale soprattutto a stabilire in rapporti di reciproca suggestione da intensificare in un certo qual modo l’amore attraverso gli sguardi ansiosi dei futuri fidanzati. Poi un distacco reciso, fin tanto che i parenti non avranno sistemato le loro faccende, certamente più serie. Quando è stabilito il giorno delle nozze la vicinanza dei parenti s'intensifica ed i loro cori di gioia, si faranno sentire più da vicino. Viene così stabilito da certi decreti intimi il giorno delle nozze ed in tal giorno, le donne, completeranno nell'interno delle case agghindate a festa, l'abbigliamento della sposa; mentre gli uomini, fuori estraggono con mossa fulminea delle tasche castagnole ben dosate per scaraventarle con tutta forza contro le mura che custodiscono il loro amato bene e le gravi detonazioni faranno trasalire la verginità inquietante della sposa. I più vecchi scaricano di tanto in tanto in aria vecchi archibugi dalle polveri antiquate ma efficienti, mentre i sumpesseri, (i genitori dei rispettivi sposi), eseguono in aria lanci di confettini variopinti e con la verga bastoneranno di santa ragione i monelli che non vogliono allontanarsi.
Il corteo sfila davanti alla Chiesa. In testa la sposa col velo bianco e le donne; dietro lo sposo con la sempreviva al petto, e gli uomini. Al ritorno le madri spargeranno con solerte premura il grano sulla soglia di casa, prima dell'ingresso dei nuovi arrivati. Quindi i baci ed i convenevoli.
Ma, a sera, quando fa buio tutto tace, la sposa entrerà di soppiatto nella casa del tuo uomo e li riceverà ti bacio del primo incontro. Fuori, intanto, fervono le feste danzanti. Una gran torcia arde nei cortili che richiama tutto il vicinato. La serata è ad ingresso libero. La torcia, fatta di resina indiana e che l'uso popolare chiama Leda, sprigiona nuove fiamme rischiarando i volti degli intervenuti accoccolati intorno al fuoco, talvolta con aria stanca, se le libazioni della giornata sono stati abbondanti. Poi intorno all'allegra fiammata si snoderà la tarantella.
ARTURO GIURLEO
Foto e testo: GAZZETTA DEL SUD 20 gennaio 1957
 
Il testo di Arturo Giurleo è un piccolo tesoro di scrittura che riporta alla luce tradizioni ormai sepolte, anche tra i fogli di giornali di provincia, che diventano patrimoni di cultura. Dell'autore, come di tanti altri che hanno scritto sulla locride nella Gazzetta del Sud, le tracce si perdono negli archivi dello stesso giornale. 

lunedì 10 gennaio 2022

La costa del sole [di John Sayles - 2002]

SI ESTENDEVA DAL FIUME HOLEX A CAULON
L'antica regione della Locride
Oggi costituisce una delle zone più depresse della Calabria, malgrado
che un tempo sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà
 
La regione della locride si estendeva dal fiume Holex (attuale Amendolea), che segnava il confine del territorio reggino da quello locrese, al territorio di Caulon, nei pressi dell'attuale Marina di Monasterace, occupando quasi tutta la fascia litoranea dell'attuale provincia di Reggio Calabria bagnata dal glauco Jonio.
Una leggenda vuole che le cicale sulla sponda sinistra dell'Holex, in territorio locrese, fossero canore, mentre sulla sponda destra, in territorio reggino, fossero mute. Si spiegava il curioso episodio col fatto che Ercole, giunto esausto sulla sponda destra del fiume e non potendo prender sonno perché disturbato dal canto delle cicale, pregò ed ottenne da Giove che divenissero mute. Un'altra versione attribuisce alla maledizione lanciata da S. Paolo l'afonia delle cicale del territorio reggino, perché disturbato dal loro canto mentre predicava.
In vicinanza dello stesso fiume era Peripoli, colonia locrese messa a guardia del confine, non lontana dall'attuale Melito Portosalvo, cara alla storia del Risorgimento per il leggendario sbarco di Garibaldi nel 1860 e per quello del 1862, che ebbe per doloroso epilogo lo scontro fratricida di Aspromonte. Vi è ancora sotto le acque della rada di Melito la carinea del piroscafo «Torino» affondato dalle cannonate delle navi borboniche «Aquila» e «Fulminante», le quali inutilmente tentarono di ostacolare lo sbarco del 1860 e il corso della nuova storia.
Nei pressi di Melito, l'attenzione è attratta dalla caratteristica roccia di Pentidattilo, fantasiosamente illustrata in copertina da Sìmbari, una roccia gigantesca che si staglia nel cielo, a 400 metri di altezza, come una colossale mano dalle dita aperte, alla base del quale sono abbarbicati i ruderi di un vecchio castello medioevale, che ricorda le tragiche lotte tra le famiglie Alberti ed Abenavoli.
Lungo la linea ferroviaria Reggio-Catanzaro, che corre parallela alla statale 106 e vicinissima al mare, si allineano numerosi i nuovi paesi, lindi e civettuoli, scesi dalla marina alle colline retrostanti, attratti dalle nuove esigenze e dai nuovi mezzi del progresso umano.
Il capo Bruzzano (Zephyrlum promontonum), che si prolunga nel mare descrivendo un ampio arco con l'altra estremità di punta Stilo, ci ricorda lo sbarco in questa località dei primi coloni e la loro primitiva sede, prima di prendere dimora definitiva sul monte Epopis e fondare, nel VII secolo a. C, la città di Locri.
In alto, a circa 20 Km. a nord del capo Bruzzano, quasi al centro dell'ampio golfo, si erge maestosa l'amba conchiglifera sulla quale è ubicata Gerace, dominatrice delle ampie vallate dei fiumi Novito e S. Paolo. Vero baluardo naturale, Gerace, difesa a monte dal munitissimo castello, i cui resti testimoniano le vicende bizantine e normanne della gloriosa città, deve il suo nome alla voce greca «ieròs», sacro (città santa) o, secondo altri, a «ièrax», sparviero. Infatti, uno sparviero, o meglio un'aquila ad ali spiegate, è lo stemma del Comune. Vuole la leggenda che i profughi locresi, guidati dal volo di uno sparviero, si rifugiassero sulla rupe inaccessibile per sfuggire alle continue invasioni e razzie dei Saraceni. Quantunque in posizione ritenuta inespugnabile, venne tuttavia saccheggiata più volte dai Saraceni che, nel 952, inflissero ai Bizantini una grave sconfitta. La città conserva tuttora la struttura di una munita fortezza bizantina dell'alto medioevo e vi si accede ancora attraverso le porte del Borghetto e delle Bambarde per le strade irte e selciate, ai cui lati sono allineati vecchi palazzi, alcuni con bifore. La Basilica-Cattedrale stessa, vista dalla parte esterna delle tre absidi, ha il severo aspetto di una fortezza e le strette e lunghe finestre gotiche somigliano a vere e proprie feritoie.
Questa costruzione chiesastica - la più grande della regione - ha la forma di un vasto rettangolo di circa metri 26x75, con l'altezza alla cupola di circa m. 25 e con un dislivello esterno a est di circa m. 6, dove è situata l'ampia cripta. L'inizio della costruzione si fa risalire ai primi decenni del secolo, mentre è sicura la data della sua consacrazione, 1045, come si rileva da una targa in piombo incastrata nella terza colonna in «corno Evangeli», esistente al tempo del vescovo Pasqua. Tra le costruzioni coeve occupa un posto importantissimo l'icnografia della basilica latina a tre navate, divisa da venti colonne greche di marmo scanalate o lisce, sormontati da capitelli di vario stile e da archi falcati in tufo; la presenza del transetto sporgente triabsidato e della cupola; la cripta suddivisa da 24 colonne di granito, provenienti, come quelle delle navate, dai templi della vicina Locri, sono elementi efficaci a dimostrare l'ardita e vasta concezione architettonica dell'opera, ideata e portata a termine da esperti architetti.
L'insigne archeologo Paolo Orsi, al quale tanto deve la nostra terra per le sue importanti scoperte archeologiche, la definì «la più importante e grandiosa costruzione della Calabria, il più sontuoso monumento della regione».
Nei recenti restauri e scavi nella cripta (1955), si è rinvenuta, tra l'altro, una primitiva sacra mensa e si è riscontrato che la costruzione dell'XI sec. è sorta con un preesistente complesso edilizio dei secoli VII e VIII.
Nei pressi della Basilica-Cattedrale sorge, più in alto, il castello (m. 480), costruito sulla viva roccia, tagliato particolarmente tutt'intorno per renderlo inaccessibile da tutti i lati. Un profondo fossato verso il lato est lo divideva dalla città alla quale era unito solo attraverso il ponte levatoio. Dalla sommità del castello, l'occhio spazia sul mare da capo Bruzzano a punta Stilo, dalle ampie vallate circostanti ai pianori della Milea, alle giogaie dell'Aspromonte.
In questo castello, ormai in gran parte distrutto, sotto la dominazione normanna, nella sala di Mileto, pare sia avvenuta la pacificazione tra il conte Ruggero e suo fratello Roberto.
Altri tesori d'arte contiene la vetusta città: la chiesa di San Francesco, in completo abbandono e quasi distrutta, in stile romanico - gotico, del 1252 dal bel portale ogivale a costoloni, con decorazioni di carattere arabo-normanno, e la piccola chiesa di S. Giovannello, dalle caratteristiche forme (abside semicircolare).
Gerace ebbe, nel passato, grande importanza politica, militare e religiosa, e durante la dominazione borbonica fu capoluogo del distretto e sede di tutti gli uffici. Nel 1847 ebbe luogo nel suo distretto l’insurrezione liberale, coordinata con i moti di Reggio e Messina; ma, fallito il moto, dopo sommario processo, nella sottostante piana della città, il 2 ottobre 1847, vennero fucilati: Michele Bello, Pietro Mazzoni, Domenico Salvatori, Gaetano Ruffo e Rocco Verduci, antesignani del Risorgimento della patria.
Ai piedi della rocca geracese appare, adagiata come in un sonno di secoli, la pianura, verdeggiante di ulivi e di pampini di vite, e le colline della Mannella, Abbadessa, Janchini e Patarriti, sulle quali sono vivi e parlanti gli avanzi di una città dalle tradizioni gloriose e millenarie, che dette al mondo occidentale il primo codice di leggi scritte: Locri.
Da Locri si scorge il caratteristico castello di Roccella con torre di vedetta, armato con artiglierie e caposaldo di resistenza nell'ultima guerra mondiale; sia la torre, però, che il castello sono in pessime condizioni di staticità e quasi distrutti. Il castello subì vari assedi da parte dei Saraceni, il cui capo, Dragut, invano lo assali, rinunziando all'impresa quando ebbe colpite diverse navi dalle colubrine del castello.
Chiude l'ampio golfo l'estremità di Punta Stilo (il Concyntum promontorium degli antichi), sotto il cui faro sono visibili i resti di tempio dorico.
In alto, alle spalle del Faro, sulla vasta e brulla montagna del Consolino, sorge abbarbicata alla roccia la storica cittadina di Stilo, della quale l’insigne archeologo Paolo Orsi scrisse: «Stilo, annidata sulle rocciose pendici del monte Consolino, sbarrando la pittoresca e storica vallata sottostante, che poi si serra e sale erta e rapida alla regione centrale e appenninica, selvaggia e ricca di selve secolari, Stilo così piena di ricordi bizantini e normanni e patria del fiero e turbolento monaco Tommaso Campanella, che nel secolo XVII con le sue ardite teorie politiche e sociali mise a soqquadro il Mezzogiorno, è tutta dominata da questa piccola gemma dell'arte bizantina - la Cattolica - incastonata su un brevissimo risalto dell'Aspromonte. Ed è oggi entro la piccola città l'unico e prezioso avanzo superstite della bizantinìtà, che altri e certo pregevoli monumenti sono tutti scomparsi, travolti dalle tristi vicende, che per quasi un millennio attraversò Stilo, ultimo il sacco e l'incendio perpetrato dai Francesi nel 1804».
La Cattolica, bellissima piccola chiesa bizantina dalle linee caratteristiche orientali, vero gioiello d'arte pervenuto fino a noi quasi intatto, riproduce un tipo di chiese spesso ripetute in Georgia, in Armenia e nel Peloponneso. Costruita sopra un limitato ed angusto ripiano del monte, domina la città di Stilo; è una costruzione quadrata sormontata da cinque basse cupole con tre absidette volte ad oriente. L'interno, di appena sei metri di lato, è diviso da quattro colonne in tre piccole navate o nove quadrati uguali: le colonne, due di cipollino, una di granito ed una di marmo bianco, provengono da templi antichi e sono dotate di capitelli diversi. Importantissima la prima colonna a destra, sulla quale è scolpita una greca iscrizione, che tradotta, dice: «Dio è il Signore apparso a noi».Paolo Orsi, che vivamente si interessò per i restauri, efficacemente coadiuvato dai mezzi finanziari concessi dalla sensibilità della Regina Margherita, la definisce «...insigne monumento bizantino, il più bello, il più completo della Calabria; malgrado la sua piccola mole, anzi appunto per essa in particolare, desta l'ammirazione degli studiosi».
La plaga descritta, che è tutta la costa jonica della provincia, è una delle contrade più depresse della regione calabrese, malgrado che nell'antichità sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà.
Deleteria azione degli agenti atmosferici e tellurici, incuria di uomini, hanno trasformato gran parte di questa terra in brulle colline argillose e in aridi terreni. Solo nella fascia costiera, dove la tenacia dell'uomo ha conteso palmo a palmo l'humus all'avverso destino, la terra è coltivata ad ulivi ed agrumi.
Con l'avversità degli elementi e la incomprensione dell'uomo fanno stridente contrasto le bellezze naturali della regione: i panorami paradisiaci, il cielo di cobalto, i purpurei tramonti, la tradizionale ospitale cortesia del calabrese, il profumo della zagara che si sposa a quello del gelsomino, la mitezza del clima, rendono la nostra terra un giardino sempre fiorito.
U. Sorace Marasca
Gazzetta del sud 17 gennaio 1956


In apertura l'ingresso della prigione dei cinque martiri di Gerace

martedì 4 gennaio 2022

Una raffica di piombo [di Paolo Heusch - 1965]

PLATI’ - In contrada «ALATI» la neve ha raggiunto gli 80 centimetri di neve

GAZZETTA DEL SUD 12 gennaio 1956


Incredibile fortuna
di un cacciatore a Platì
Platì, 16 gennaio
(M. F.) - La caccia ai tordi ha assunto, nelle nostre zone, sviluppi imprevisti: migliaia e migliaia di questi volatili, cadono sotto il piombo dei cacciatori.
Incredibile successo ha avuto un metodo sperimentato ieri l'altro da un cacciatore nostro concittadino; questi, avendo notato come
le «Marvizze » volano a stormi compatti, ha caricato il fucile con cartucce pesanti, usate di solito per la caccia alla volpe: sparando sugli stormi ha uccìso con cinque colpi, ben sessantacinque bestiole.
Non è il numero che fa impressione, perché dato l'andamento della caccia di quest'anno, ogni cacciatore che si rispetti, non torna casa se non ha nel carniere almeno una cinquantina di tordi; ma è impressionante il fatto che il suddetto cacciatore abbia potuto con un sol colpo fare cadere dieci quindici tordi per volta.
A detta dei cacciatori anziani, un fatto simile non si era ancora verificato nel nostri paraggi; solo una volta, nel 1939, un cacciatore sparò con un sol colpo sei beccacce; ma i maligni dicono che una sola di queste bestie fu colpite, mentre le altre
morirono per sincope cardiaca. provocata dalla paura ...
Riferendosi a questo fatto, celebre negli annali della caccia platiese, non vogliamo insinuare nulla; ciononostante, non escludiamo
che se si facesse l'autopsia a tutte le vittime del fortunato cacciatore di questi giorni, si scoprirebbe che almeno una di esse è morta per la paura!!...
GAZZETTA DEL SUD 17 gennaio 1956

Foto e testi di Michele Fera







sabato 1 gennaio 2022

La vita semplice [di Francesco De Robertis - 1945]



In tutta semplicità come è stata la sua vita
ci ha lasciati con tutta la sua memoria
CARLETTO ZAPPIA
di Pasquale e Caterina Lentini
25 novembre 1928 - 1 gennaio 2022
queste pagine e I LOVE PLATI'
a lui devono molto



giovedì 30 dicembre 2021

Un mondo a parte [di Chris Menges - 1988]

C’era una volta Platì/C’era una volta in Platì! Dentro questi titoli rubati al Maestro dei Maestri si può incorniciare la “Vita di Platì”. Quella che viene fuori dalla trascrizione dei Catasti Onciari del 1746 e del successivo del 1754. In quelle pagine Platì non è mai riconosciuto ancora come paese ma di volta in volta come: Terra, Tenimento, Curia, Unità, Università e, molto più spesso, Motta. Come già altrove divulgato per Mocta, Motta, si intende un rialzo di terreno. I due Catasti non sono molto dissimili nella loro forma, sono differenti nel contenuto finale. Per ora e per non annoiare riportiamo la “Vita di Platì” del 1754 e con gli occhi e la penna di Don Tolentino Oliva parroco, cui fu devoluto l’incarico di registrare lo Stato delle Anime. Erano 220 Fuochi. Per Fuoco o focatico si intendevano le singole unità familiari comprendenti le persone soggette al pagamento delle imposte. I 220 fuochi erano comprensivi di 901 Anime: 462 donne, 439 maschi, 5 adolescenti erano chierici, 7 i sacerdoti. Tra le donne vi erano 34 vedove e due in capillis. Con “virgines in capillis” si definivano le giovani nubili che “per segno di illibatezza dovevano portare i capelli raccolti e non scioglierli che il giorno delle nozze”. Altri Tempi! La vita media in Platì si aggirava intorno ai 50 anni di età: Nicola Barbaro 90 e Filippo Cusenza 95 erano i più longevi. I ceppi più numerosi erano Agresta, Barbaro, Carbone, Cusenza, Catanzariti, Italiano/Taliano, Perri/e, Portulisi, Sergi, Trimboli, Virgara, il cognome più insolito è Zinnamusca. L’oligarchia che dominava era quella degli Oliva ma c’erano anche Zappia al timone di comando. “Magnifico” era l’appellativo che precedeva quegli Oliva e Zappia. “Magnifico” era Marzio Perre/i ed anche Francesco Musitano il Cancelliere che siglava gli atti. Tra le donne i nomi più diffusi erano quelli di Domenica ed Elisabetta/Lisabetta, tra gli uomini Antonio, Domenico, Francesco e Giuseppe. Lo Stato delle Anime del 1754 era comprensivo dei soli nativi, mentre in quello del 1746 erano stati inclusi anche i forastieri. Quella che ne esce è una ripresa grandangolare, il campo verrà ristretto solo zoomando le “rileve” fatte dai singoli cittadini e non ci sarà distinzione tra nativi e forastieri.

Nella foto d'apertura il dottor Giuseppino Mittiga

 

venerdì 24 dicembre 2021

Oratorio di Natale [di Kjell-Åke Andersson - 1997]


Silvana Trimboli, Veni Natali, 2021
Antonio Vivaldi (1678-1741), Gloria RV "Et in terra pax hominibus", Largo
 



mercoledì 22 dicembre 2021

Never Ending Story [di Wolfgang Petersen - 1984]

La storia di Platì è ancora tutta da scrivere.
Etimologicamente il nome Platì, sarebbe da far risalire al termine prata (prati). Altri, invece, lo ritengono riconducibile alla voce greca-bizantina platus (ampio). Il riferimento, in questo secondo caso, va alle frequentazioni dei monaci basiliani che tanta importanza ebbero in questa parte dell’Aspromonte. Altri ancora ritengono che il toponimo andasse collegato al termine pratos, ossia “venduto” (alludendo ai passaggi feudali), e alle successive alterazioni in protì e, poi, pratì.   
La nascita dell’abitato di Platì si crede collocabile nel XVI secolo, in concomitanza dello spostamento di uomini dai centri più arroccati, con scarsa possibilità di espansione, verso valle. Concausa di questo esodo pare fosse la pratica, invisa al popolo, del fiscalismo senza scrupoli che danneggiava proprio i ceti più deboli spingendoli lontano dall’influenza dei feudatari. 
Si ha notizia di alcune foreste date, nel 1496, dal re Federico d’Arag0na a Tommaso Marullo, barone di Bianco e conte di Condojanni. Quelle terre furono rivendute, nel 1507, allo stesso conte Marullo da Ferdinando il Cattolico.     
Tra quei possedimenti ricadevano, però, alcune terre “nominatum de Plati at de Sancta Barbara” che erano state vendute precedentemente (nel 1505) a Carlo Spinelli sempre dal re. Iniziò a questo punto una complicata controversia sulle spettanze territoriali che durò per anni. A derimere la lite tra gli Spinelli e i Marullo ci pensò un intervento regio che assegnò la proprietà di Platì agli Spinelli i quali decisero di farne un centro agricolo. Il feudo rimase nelle loro disponibilità fino all’eversione della feudalità (1806).
Il terremoto del 1783 colpi duramente Platì, cosi come molti altri paesi della Calabria, provocando 25 vittime e danni ingenti.     
 Con l’ordinamento amministrativo del generale Championet, nel 1799 Platì divenne autonoma rientrando nel cantone di Roccella. I Francesi, nel 1807, ne fecero un’università compresa nel governo di Ardore.      
Elevata a comune, le vennero in seguito assegnate le frazioni di Cirella e Natile (quest’ultima oggi è frazione di Careri). Nella prima metà dell’Ottocento venne chiamata Mottaplati e soltanto alla fine di quel secolo riconquistò l’antico nome.
Terminata l’occupazione francese, gli Spinelli decisero di vendere i loro cospicui possedimenti. I nuovi proprietari terrieri arrivarono da Napoli. Questi edificarono grandi palazzi lungo la via San Nicola sottoponendo, però, il popolo a ogni sorta di angheria. 
Dopo l’Unità d’Italia, Platì fu al centro di un duro scontro, generato dall’insoddisfazione del popolo continuamente vessato dai ricchi proprietari. La sollevazione fu capeggiata da Ferdinando Mittiga, un ex sergente borbonico che si fece aiutare nell’impresa dal generale spagnolo don Jose Borjes. Circondata Platì, la battaglia durò per ore. Alla fine, pere, ebbero la meglio i bersaglieri e gli uomini delle Guardie Nazionali Civiche intervenuti. La repressione fu dura e provocò molti morti. Mittiga, rifugiatosi sui monti, fu tradito e ucciso in un mulino nei pressi di Natile Vecchio.
Nel 1908 un altro devastante sisma colpi Platì, distruggendo gran parte del paese. Fu l’inizio dell’emigrazione verso l’America che registrerà la sua punta massima negli anni Cinquanta.
Nel 1951 una paurosa alluvione (ce ne saranno altre nel ’53 e nel ’58) provocò pericolosi movimenti franosi che portarono gravi conseguenze alla viabilità.
La chiesa parrocchiale fu edifica verso ii 1550, ed era governata da economi, mantenuti dall’università. Fu elevata a parrocchia nei 1704, e primo parroco fu il Sac. Francesco Perre; il Sac. Stefano Oliva, fu nominato primo Arciprete dal Vescovo Scappa l’8 marzo 1774 in tempo di S. Visita.       
La chiesa era situata nel primo rione abitato.
Nel 1783 fu totalmente distrutta dal terremoto e dopo alcun tempo fu riedificata sul posto stesso dove oggi è piantata, perché più centrale e più stabile per la natura del terreno. 
La chiesa parrocchiale, rimasta vacante ii 5 dicembre 1817 per morte dell’investito, finalmente, eliminate le cause che avevano determinate il provvedimento, fu provveduta nella persona del Sac. Francesco Oliva.        
Per lo stato indecente in cui, era   stata lasciata la chiesa, fu restaurata dopo il terremoto del 1894 a spese e cooperazione del Cav. Uff. Francesco Oliva fu Arcangelo. Trenta anni dopo la cappella della titolare fu restaurata dalla generosità del Cav.  Michele Oliva, e nel 1926, dalla pia signora Maria Lentini vedova Filippo Oliva, fu decorata la navata di S. Francesco.
In Platì, oltre alla chiesa parrocchiale, vi è quella di S. Pasquale, che è stata eretta dai fedeli nel 1720. Vi era inoltre la cappellania dell’Immacolata, i cui beni, anch’essi furono aggregati alla parrocchia.
Nella chiesa di S. Pasquale l’1 giugno 1888, fu eretta la confraternita del Santo Rosario, il cui statuto fu approvato dal Vescovo Mangeruva nello stesso anno, e, per volontà del popolo la chiesa pigliò il titolo di Maria SS. del Rosario. Tale chiesa fu riparata nel 1924 e nel 1926, con l’obolo dei fedeli per iniziativa della Confraternita.             
Il terremoto del 1908 quasi distrusse la chiesa parrocchiale.
La costruzione del1’attuale chiesa venne iniziata nel 1944, con molto entusiasmo dell’Arciprete Mons. Giuseppe Minniti e con la collaborazione attivissima di tutta la popolazione.     
La costruzione andò avanti in tal modo, fino verso il 1952, quando fu emanata la Legge n. 2522 del 19-12-1952, che diede modo di avere contributo dello Stato.      
Emanuele Maggioni e Lino Tagliani, Padri Missionari della Consolata

Testo e foto, Dedicazione della Chiesa “Santa Maria di Loreto” in Platì, 2006
 

domenica 19 dicembre 2021

La festa perduta [di Piergiuseppe Murgia - 1981]



A Platì
Platì, 25 nov.
(M. F.) In modo particolarmente solenne si e svolta quest’anno a Platì la festa degli alberi. Alla cerimonia svoltasi nelle ore antimeridiane, erano presenti le autorità cittadine e gli insegnanti elementari accompagnati dalle rispettive classi. Non mancavano rappresentanti di tutti gli strati della popolazione.
Oratore ufficiale è stato il prof. Giuseppe Gelonesi, che in un breve, commosso discorso ha ricordato all’uditorio quale enorme importanza rivesta per Platì il rimboschimento delle montagne straziate dalle alluvioni.
Unica risorsa, infatti, per la sicurezza del nostro paese sono gli alberi: che fortificano con le loro radici e arrestano il corso delle frane ovviando in tal modo, alla incuria dimostrata finora dai vari governi per la terra calabrese.
La coreografia era stupenda: Su un lunghissimo tratto della statale 112, si stendevano infatti le file composte degli scolari che alla fine del discorso riprendevano la via, sotto l’attenta guida degli insegnanti, cantando inni patriottici, seguiti dal numerosissimo pubblico
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 26 novembre 1954


La foto d'apertuta con il Maestro Peppino Gelonesi appartiene a Teresa Mittiga che ringrazio per averla pubblicata. Posso riconoscere solo Pasqualino Violi, Nicola Barbaro, Mimmo Riganò, Duccio e Saro che non perdeva occasione per smentirsi. I ragazzi della foto sono cresciuti e gli alberi tagliati.