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domenica 24 ottobre 2021

La Valle dell'Inferno [di Gustavo Serena -1918]



ANTICHE LEGGENDE CALABRESI
LA COLLINA “LACCATA”
della Valle dell'Inferno
La triste storia delle tre sorelle Agra, Darussa e Suia

 

Platì, 3 ottobre
Nel punto più basso e strisciante della Valle dell’Inferno, situata in mezzo all'estrema punta dell'Aspromonte, rosseggia perennemente una collinetta, bassa, bruciata dal sole, e la cui composizione geologica è di natura silicea con abbondanza di pirite ferruginosa.
Nessun pastore ha mai fatto pascolare le sue capre nella fanghiglia laccosa della collina e, d'altra parte oggigiorno non esistono più capre che si mettono su terreni ricchi di minerali, come quelle, favolose del pastore polacco Drungonar.
Fino a qualche secolo fa, esisteva, in mezzo alla «Laccata» rossastra, il rudere del castello che la leggenda vuole sia appartenuto alle tre fatidiche sorelle di Alessandro XXXVII le quali si ritirarono in quel desolato paesaggio non resistendo al dolore per la tragica disfatta del fratello.
Per chi non lo sapesse, Alessandro XXXVII era, sempre secondo la leggenda, uno dei favolosi principi dello Stato di San Polinardo.
Ma non divaghiamo e torniamo alle sorelle di quell'ultimo, della cui triste storia ancora è impregnata la mortifera terra rossastra che non conosce erbe.
Quando le tre sorelle, la bionda Agra, con la rossa Darussa e la nera Suia, vennero ad abitare nel grande palazzo, i pastori di capre che osarono avventurarsi nella zona, ebbero una sgradita sorpresa: Le tre sorelle, infatti, dimostrarono di non avere nessuna intenzione di vedere adibite a pascoli le loro rossastre terre. Agra, che era la maggiore delle tre, si assunse l'incarico di «spulicare», come diceva lei, la piccola collina. Detto fatto, chiamò a raccolta i pastori avendo in precedenza affilato il più grosso dei coltelli di famiglia, quello che il fratello Alessandro
buonanima aveva immerso, da piccolo, nel sangue di Samuele di Samotracia.
Nel suo linguaggio stregonesco, che i pastori però, capivano a meraviglia, Agra cominciò: «Cosa fi? Tent! Nenti, chiurrin, Garicà!»
I pastori risposero arrogantemente. Troppo arrogantemente, per il gusto di Agra, che li distrusse nella sua furia alluvionale di giovane strega.
Dopo il sanguinoso avvenimento, nessun pastore, fino ai giorni nostri, portò a pascolare le capre nella laccata rossastra circostante il castello.
E le tre sorelle?
Gli anni passarono anche per loro, e un bel giorno Agra disse a Darussa con voce malinconica: «Oggi, per tirare il secchio dal pozzo, ho dovuto faticare quanto Briareo quando dové infilare i cesti da boxe per lottare contro Padre Giove!»
E Suia intervenendo nel discorso delle sorelle, confidò che nel chiudere la porta del «Mabì» (il loro ripostiglio segreto), aveva sentito nello stridore dei cardini, la tragica voce di «Testa di Jizzo» che le chiedeva irritante: «Suia, Suia, quando ti fermerai?»
La povera Suia non poté completare il discorso, che cadde stecchita ai piedi di Agra e Darussa. Queste, a distanza di pochi attimi la seguirono nella mortale caduta. E il favoloso castello si disgregò intorno ai loro miserabili colpi.
Questa è la storia di Agra, Darussa e Suia, che è una delle più strane e insieme delle più, belle leggende calabresi. Il pastore che me la raccontò, mi confidò terrorizzato che nelle notti in cui la luna è al suo primo quarto, dalle zolle rossastre della collina si sente la voce di Agra cantare al vento il suo motto abituale, che uccide chi lo sente.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 4 ottobre 1956

Foto: S. Carannante

Enigmatico, autunnale, dantesco Michele Fera, che innalza Santa Pulinara (San Polinardo) a stato e la suia a fata stecchita da «Testa di Jizzo». 

mercoledì 20 ottobre 2021

Fango bollente [di Vittorio Salerno -1975] - Una rievocazione del prof. Pipicella


Ai primi del mese di ottobre c'erano state delle piogge e la fiumara in piena aveva travolto un bovino. la notizia appena diffusa, aveva colpito la popolazione, in quanto la perdita di un bovino era considerata una grossa perdita!!
Dopo una breve pausa, riprese a piovere ininterrottamente sino alla notte del 17, quando verso le due, un boato assordante fece tremare la terra e il cielo svuotò improvvisamente tutte le nuvole che l'avevano coperto per una settimana.
Le povere case, che non avevano un solo angolo asciutto, furono completamente allagate. I cittadini tutti svegli e preoccupati non riuscivano a comunicare tra di loro, perché le strade erano trasformate in ruscelli impetuosi e i tizzoni accesi con i quali solitamente squarciavano le fitte tenebre non erano utilizzabili.
Abbandonati i letti inzuppati c'eravamo portati vicino al focolare fino a quando il tuono non spense completamente la brace.
A casa mia, i quattro figli eravamo avvolti in una coperta. Mia madre pregava e piangeva, mio padre si affacciava sull'uscio e rientrava gocciolante.
Le ore che precedettero l’alba durarono un’eternità e la luce del giorno ha aperto ai nostri occhi uno scenario spettrale: a valle un’immensa distesa di acqua e fango con piante e cose semoventi; a monte frane dovunque e dai fianchi squarciati delle montagne possenti gettiti d'acqua.
La pastorizia e l’agricoltura, uniche fonti dell’economia natilese, erano state spazzate via: il patrimonio ovino e bovino era stato completamente travolto e depositato lungo la fiumara dalla montagna al mare; i campi sconvolti e ridotti pietra su pietra!
Ma di tutto questo la popolazione non ebbe percezione, in quanto subito si cercarono gli assenti e si capì che cerano stati dei morti.
In un primo momento i dispersi erano molti, ma il giorno dopo il tragico elenco fu definitivo.
I morti furono dieci: due persone anziane e otto giovani. 


Di seguito i nomi in ordine alfabetico e il loro tragico destino:

Domenico e Pietro Callipari, fratelli, si trovavano assieme al padre ed altri familiari nell’ovile posto nel bacino della sorgente della fiumara Acone. La sera del 17 ottobre, poiché nel loro ricovero era filtrata dell'acqua, avendo saputo che il capanno di un ovile vicino era asciutto e più sicuro, sono stati mandati dal padre a rifugiarsi e a tenere compagnia ai due giovani che custodivano quel gregge. Questa decisione sarà motivo di rammarico e di rimorso per il povero genitore che andava ripetendo: per mettere in salvo i figli maschi, li ho mandati a morire, mentre io e le femmine cl siamo salvati!

Bruno Cavalieri, aveva 65 anni ma per gli stenti e la fatica dimostrava molti di più. Si trovava in contrada Maddamma perché il granturco era maturo e bisognava vigilare.
Il persistere delle piogge aveva reso impraticabile il suo pagliaio, per cui il i7 aveva cercato rifugio in una struttura più solida. Si era portato infatti presso un mulino, esattamente in quello centrale rispetto ai tre esistenti. Qui ha incontrato altre persone che avevano tentato inutilmente di attraversare la fiumara per rientrare in paese quando si accorsero che la portata diventava sempre più minacciosa, tutti insieme abbandonarono il mulino per recarsi verso la montagna con la speranza di trovare qualche soluzione.
Sarà trovato raggomitolato ai piedi di un albero in contrada Lacco di torno. Si è detto che sarebbe caduto dall'albero sul quale aveva cercato scampo, come avevano fatto altri, o che sarebbe stato colpito da un macigno staccatosi dalla frana.
Riportarlo a casa su una scala di legno improvvisata è stata un'impresa difficile e straziante.

Domenico Marvelli, quasi novantenne, viveva assieme ai familiari in una casa di campagna in contrada Acone. Quando è stato invitato a cercare verso l'alto un rifugio più sicuro, ha incoraggiato gli altri a farlo, ma lui volle rimanere a casa sua. Aveva una grande fede e trascorreva parecchie ore a pregare.
Il suo corpo è stato trovato, distante da dove si trovava l'abitazione, ma ben composto e senza nemmeno un graffio.

Antonio Mirto, di anni 27, una settimana dopo sarebbe dovuto partire per l'Australia. Si trovava nell'ovile della Costa Dabate, dov'erano andati a rifugiarsi i fratelli Callipari.
Unico figlio maschio, era lui che badava alla famiglia costituita dall'anziana madre e dalle sorelle.
Del suo corpo e di quello degli altri tre, nonostante le lunghe e amorevoli ricerche, non si è vista traccia. 

Francesco Pangallo, di anni 18, la sera del 17 era partito assieme al padre dall'ovile per rientrare a casa. Ad un certo punto poiché il padre, attraversando un ruscello in piena stava per essere travolto, ha consigliato Francesco di non rischiare e di ritornare a tenere compagnia ad Antonio Mirto. Rifacendo la strada è passato dall'ovile dei Callipari ed è stato lui a riferire che nel suo ovile tutto era tranquillo e la “casetta” era asciutta e riscaldata. Fu la quarta vittima inghiottita da quella frana.

Antonio Pipicella, di anni 20, assieme al fratello Domenico ed al padre si trovavano nell'ovile di contrada Lacco di torno.
Aveva fatto la visita di leva ed era in attesa di partire per il servizio militare. Di lui è stato reperito un arto superiore ed uno inferiore, a diversi chilometri di distanza cercando e scavando tra le carcasse dei suoi animali.

Domenico Pipicella, di anni 16, è stato trovato in un posto impensato dopo un certo periodo di tempo.
Infatti lo zio ha sognato il ragazzo (ma la moglie ha sempre sostenuto che non dormiva) che lo rimproverava di averlo lasciato morire mentre l'avrebbe potuto salvare.
Egli, infatti, era stato mandato dal padre ad avvertire i due pastori dell'ovile vicino che dovevano allontanarsi perché a rimanervi si correvano grossi rischi. Ma i due pastori erano già andati via, egli non era potuto ritornare dai suoi ed era rimasto bloccato dal crollo della struttura dell'ovile. La persona che aveva avuto questo sogno o visione, anziché continuare a cercare lungo la fiumara, decise di tentarne il riscontro. Scavando tra le macerie di quell'ovile, in una intercapedine, apparve il corpo senza vita di Domenico.
Molti dei presenti ricordarono che il giorno del primo sopralluogo avevano sentito dei lamenti, ma avendo saputo che i pastori che si trovavano in quell'ovile erano sani e salvi, hanno pensato si trattasse di qualche bovino.

Paolo Pipicella, di anni 13, era affetto da una leggera balbuzie, ma era loquacissimo ed aveva una memoria eccezionale; ripeteva quasi integralmente i panegirici e le prediche della settimana santa, salendo sugli alberi o dal balcone dell'arciprete Filippo Ietto, che lo ascoltava entusiasta.
Queste sue qualità lo rendevano particolarmente simpatico zio Sebastiano, il quale aveva pensato di fargli prendere il posto del figlio Antonio che sarebbe andato a fare il servizio militare.
Alla sua prima settimana di lavoro, la frana e la fiumara non hanno consentito ai genitori di reperire qualcosa che gli appartenesse. Nonostante le ricerche si fossero protratte per anni.

Sebastiano Pipicella, di anni 46, era una delle persone che godeva di grande prestigio in seno alla comunità natilese.
Perso il padre in tenera età, aveva assunto la guida della famiglia ed era riuscito a costruire, assieme al fratello, un discreto patrimonio di capi di bestiame, circa 300.
Era sempre pronto ad intervenire quando qualcuno subiva un torto, e i casi più frequenti erano gli abigeati.
Il carattere gioviale e il senso dell’umorismo non sminuivano ma accentuavano il carisma di uomo saggio che aveva il culto dell'amicizia, della famiglia e della parola data.
Le sue qualità le dimostrò anche come amministratore comunale: infatti era consigliere in carica.
Di lui rimase proverbiale l'espressione:
na cosa sula non pozzu supportari: a farsitutini" .

Testo del Prof. Pino Pipicella

Foto S. Carannante



martedì 19 ottobre 2021

Come quel giorno [di Mario Caserini -1916] - Un suffragio 70 anni dopo


Platì 18 ottobre 2021
L'Associazione Etno-Culturale SANTA PULINARA
ringrazia  Padre Santino & Domenico I. 
e  quanti hanno partecipato al Rito
per essersi presi cura delle vittime del
18 ottobre 1951

 

giovedì 14 ottobre 2021

La morte cammina nella pioggia [di Carlos Hugo Christensen - 1948]


Nel 70° Anniversario

Platì 18 Ottobre 1951


Na data tristi chi veni sempri ricordata
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
 
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
 
S’ apriru i catarratti e l’acqua du cielu calava
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
 
Ci fu nu pigghja pigghja chija notti
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
 
Quella notte, pure Acone nel campo entrava
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
 
A distanza di 70 anni
una Preghiera  
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.

Silvana Trimboli
Caraffa del Bianco, 2021

.:.:.:.

A tutt’oggi l’elenco definitivo delle vittime è nebuloso. Il NOTIZIARIO DI MESSINA(*) in data 8 novembre 1951 riportava  i 15 nominativi già citati nel video. La tradizione popolare ne ricorda18/19. Non vengono in soccorso né i registri comunali né quelli parrocchiali. In questi ultimi sono elencati solo:
Marando Giuseppe di Rosario anni 13
Marando Rosario di Domenico anni 47
Portolesi Caterina fu Pasquale anni 77
Sergi Michele di Pasquale anni 15.
A questi bisogna aggiungere:
Iermanò Serafina di Francesco di 5 mesi
Zappia Filippo di Domenico di 8 mesi
segnati nel registro dei morti della parrocchia in data 18 ottobre 1951
e Iermanò Saverio di Antonio di anni 90 registrato in data 20 ottobre 1951.
Antonio Schimizzi morto durante i lavori di sgombero delle macerie era nato il 29 giugno del 1900 da Francesco e Musitano Francesca. Il 10 febbraio del 1929 sposò Domenica Carbone di Antonio e Martino Anna Maria di 23 anni ed ebbero 6 figli.

(*) https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/acque-del-sud-reg-howard-hawks-1944.html

In apertura:
Particolare del monumento alle vittime dell’alluvione del 1951 di Platì realizzato dal pittore e scultore messinese Antonello Bonanno Conti.

Nel video: Antonio Vivaldi, Concerto per Violino op. 7 No. 12 in re maggiore RV 214, Grave Assai, Claudio Scimone dir. - To be played at maximum volume.


martedì 12 ottobre 2021

Notte di terrore [di Andrew L. Stone - 1955]


DUE PAESI DELLA CALABRIA CANCELLATI DALLA TERRA
Pazzi ad Africo e Casalinovo per il terrore dell’alluvione
Il drammatico esodo di 2.300 persone per un sentiero esposto ai pericoli
delle frane – Centinaia di malati nella scuola di Bova
 
REGGIO CALABRIA 27 – Le montagne che circondano che circondano Africo cominciarono a franare nel pomeriggio di martedì 16 ottobre e investite in pieno dai macigni le prime case, quattro persone rimasero seppellite sotto le macerie. Pioveva ininterrottamente già da due giorni e che da un momento all’altro la montagna potesse franare era stato l’incubo della popolazione. Ma durante il temporale da quanti anni aveva vissuto sotto quell’incubo? Ora il rombo pauroso delle rocce che precipitavano e la visione del terreno che lentamente slittava a valle davano consistenza reale al timore di intere generazioni.
Sotto la pioggia torrenziale, annaspando nel fango, la gente si precipita fuori delle povere case che potevano trasformarsi in tombe da un momento all’altro. La montagna continuò a franare. Pensarono in principio di trovare salvezza andando a Casalinovo, ma già da quella vicina frazione cominciavano ad arrivare ad Africo i primi fuggiaschi i quali avevano anch’essi abbandonato le case minacciate dalle frane, raccontarono che durante il tragitto sei di loro avevano trovato la morte.
E ora dove fuggire? Africo e Casalinovo sono due fra i tanti paesi di Calabria non legati da strade con il resto del mondo. C’è solo una mulattiera che porta a Bova Superiore. Su questa mulattiera cominciò l’esodo della popolazione: 2.300 persone. Quanto terrificante sia stato il viaggio a piedi, sotto la tempesta, per percorrere quei 2 chilometri in mezzo a burroni e precipizi, nessuno potrà mai raccontare perché quelli che erano gli abitanti di Africo e di Casalinovo erano soli con la loro disgrazia e con il loro terrone.
Quando finalmente arrivarono a Bova, che è un paese privo d’acqua, di luce, di fognature, credettero di essere giunti in paradiso. Ma fu solo una fugace illusione perché subito cominciò l’inferno di Bova.
Ci siamo recati ieri a Bova. Nella nostra vita di giornalisti, che pure ci ha fatto assistere a tanta spettacolare desolazione e miseria, nulla avevamo visto fino ad oggi di così terrificante sofferenza umana.
Siamo stati alloggiati in un edificio scolastico, i profughi di Africo e Casalinovo, avevano assicurato le autorità. Ma noi avevamo saputo già a Reggio Calabria che tra essi si erano verificati, nei giorni scorsi, veri casi di pazzia. Però solo quando siamo penetrati nell’oscuro corridoio della scuola di Bova abbiamo potuto capire come un essere umano possa, per sofferenze fisiche, perdere la ragione.
 200 persone in un’alula.
Centinaia di persone coperte di stracci, inzuppate, scalze, tremanti dal freddo, affamati, stavano immobili, sedute per terra o in piedi, appoggiate alle pareti. Dovunque volti scavati e sguardi pieni di terrore. Fuori pioveva, faceva freddo e le finestre dovevano essere tenute chiuse. C’era un’aria irrespirabile ma non riuscivamo a restare più di due minuti nell’inferno di quell’aula. In una di esse ampia meno di dieci metri quadrati, vivono da martedì 16 ottobre 200 persone. E sono le più fortunate. Altre centinaia vivono in ambienti ancora più piccoli o sono per i corridoi dove non penetra la luce ma il vento e la pioggia.
Da dodici giorni vivono così i profughi di Africo e Casalinovo. Non hanno materassi, non hanno coperte, non hanno sedie, nella scuola non ci sono gabinetti, non c’è acqua corrente, non c’è luce elettrica. 2.300 persone, in gran parte donne e bambini, vivono da dodici giorni in questo inferno. Sulla strada non possono uscire perché piove continuamente e fa anche più freddo. Altri sono stati ricoverati nella sala municipale e vivono nelle stesse condizioni. Pochi sono quelli rimasti nelle campagne intorno ad Africo sperando di poter salvare qualche capo di bestiame che rappresenta tutta la ricchezza del paese.
 Hanno perduto tutto
Molte donne sedute sul pavimento tenevano attaccati alle mammelle aride i figli, nell’inutile speranza di poterli nutrire. I vecchi supini, con lo sguardo fisso in alto, già sembravano cadaveri. In un angolo del corridoio. Presso una porta della cui fessura penetrava furtoso il vento freddo dei monti, c’erano tredici bambini seduti intorno alla madre, distesi su un mucchio di stracci. La donna si lamentava sordamente, tremava, ansava e gettava intorno sguardi come per chiedere soccorso. Stava per partorire. Ma chi poteva soccorrerla. Che cosa potevano fare per lei le altre donne?
Un uomo ci venne incontro con le mani tese in avanti, inciampava continuamente: ci accorgemmo poi che era cieco. Ma quanti vecchi rasi dal tracoma non incontrammo in quel triste edificio scolastico di Bova Superiore? L’immobilità di alcuni bambini ci fu spiegata quando tornammo sulla strada fangosa, era paralisi infantile, permanente.
Fuori continuava a piovere e una nebbia densa veniva giù dai monti. Sulla strada ci fu più facile rivolgere la parola a qualcuno. Quali soccorsi avete ricevuto? Un po' di pastasciutta. Dove andrete? Non lo sanno, hanno perduto tutto, ad Africo non possono più tornare. Il nome del paese può già essere cancellato dalla carta geografica della Calabria.
RICCARDO LONGONE
Testo e foto: L’UNITA’, Domenica 28 ottobre 1951
 

domenica 10 ottobre 2021

Un medico, un uomo [di Randa Haines - 1991]

Giuseppe Mittiga
Platì 03/01/1897 -  Palmi 18/01/1982

E intanto la pioggia fitta e continua pesta sul tetto ... sui vetri ... sul suolo”. Ernesto Gliozzi il vecchio

A settanta anni da quella tragica notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1951 non c’è stato chi raccontasse integralmente quel dramma in un’opera letteraria, solo singole vicende, singoli episodi legati a chi ne trattiene ancora il ricordo. A questi ultimi si aggiunge il ricordo di quei giorni per tramite di Lisa Mittiga figlia del dottor Giuseppino, per me, che riporto quei ricordi, zio. Il dottor Giuseppe Epifanio Mittiga aveva 64 anni quando visse sulla sua persona il dramma di un intero paese. Egli si laureò in Medicina e Chirurgia a Napoli nel 1912 a 25 anni. Figlio di Rocco e Caterina Fera dopo la scuola elementare a Platì fu mandato nella città partenopea per la scuola media, successivamente si trasferì a Gerace per compiere gli studi ginnasiali. Ritornò di nuovo a Napoli dove da tempo risiedeva lo zio Saverio Mittiga, sacerdote e docente presso la locale Università Teologica, autore di racconti e poesie editi nella stessa città. Presso la Regia Università di Napoli studiò con profitto con l’illustre prof. Antonio Cardarelli (1831 – 1927) ormai in procinto di lasciare quell’ Accademia per raggiunti limiti d’età. Era Ufficiale Sanitario presso il Comune di Platì quando l’alluvione si infranse sul paese. Non bisogna però pensare che quel disastro fu un fenomeno casuale. Già da diversi giorni una fitta pioggerella cadeva incessantemente senza che il sole apparisse, anche per pochi minuti. Alle volte si rafforzava, alle volte diminuiva. La terra, le campagne, gli orti diventavano di giorno in giorno impraticabili, non solo per le zappe ma anche per le scarpe e gli stivali. Molti di quelli che abitavano in campagna cercarono rifugio presso i parenti in paese; molti, fiduciosi rimasero nelle proprie abitazioni coloniche. La notte tra il 17 e il 18 dalla montagna verso Santa Cristina, da Arcopio e a monte di Sanello si precipitò un torrente impetuoso che andò a colpire maggiormente la contrada Due Valloni, il cimitero e la zona tra la fiumara Ciancio, il corso Umberto e la via San Pasquale. Per diciannove vite la mattina del diciotto ottobre 1951 non si schiarì, centinaia erano i bisognosi di pronto soccorso. La casa del medico Mittiga era posta all’entrata del paese. Essa con altre vicine diventò un ospedale da campo dove il dottore ebbe modo di prestare il soccorso a chi riportò le ferite più gravi non potendo sperare in aiuti esterni. I feriti arrivavano adagiati sulle carriole, sulle scale fatte barelle, su lenzuola o coperte imbrattate di sangue. Bisognò amputare o ricostruire le parti lacerate, molte teste, molte braccia, molte gambe, molti piedi. C’era anche da soccorrere i feriti meno gravi nelle proprie abitazioni e le partorienti, e qui il medico era assistito dalla signora "mammina" Francesca Portolesi, moglie di don Umberto. A distanza di tempo la figura e l’opera del dottor Giuseppino Mittiga è ricordata dai più anziani, ma specialmente per chi lo ebbe come padre amoroso o zio affettuoso.

 

Hanno partecipato Lisa Mittiga di Giuseppe e Saro Mittiga di don Agostino.


giovedì 7 ottobre 2021

Come quel giorno [di Mario Caserini -1916]


L'evento è reso possibile grazie alla partecipazione di Padre Santino e Padre Peppe.

 

mercoledì 6 ottobre 2021

Vivere ancora - Gino Paoli

"Vivere ancora
Soltanto per un ora"
Gino Paoli


VIVERE


Vivere
per non morire
sconfitto
dalle illusioni


PRIGIONIERO
 
Prigioniero
in una stanza
con le porte aperte
e senza guardie.
prigioniero del dolore
lontano dalla mamma


A Mimmo "la malinconia e il dolore dell'assenza, in un crescendo di archi morriconiani esplosivo e straordinario".

giovedì 30 settembre 2021

Un apprezzato professionista di sicuro avvenire [di Giuseppe De Santis - 1972]




 Stimato ed elogiato professionista, Saro Zappia non rinnegò mai le sue origini platiesi. Quando egli si affacciò alla vita, in quel lontano 3 settembre del 1939, i genitori, al nome già mariano, vollero aggiungere Maria di Polsi, Vergine Calabrese per eccellenza, festeggiata il giorno prima. E dire che il padre, il mitico Su Rrosariu, in quella data aveva già compiuto i settanta anni e la madre Cristina Mercurio molti di meno, ventisette. E in quel matrimonio, oggi impensabile, tra un settantenne ed una donzella, chi scrive non può fare a meno di notare lo zampino e la scaltrezza dell’avvocato Alberto Mercurio, ma questo è un altro film che varrà la pena raccontare in altre occasioni. Saro Zappia più che ragazzo partì per Napoli ed in un collegio dei Padri Gesuiti compì i suoi studi, dalle elementari a quelli ginnasiali. Dopo la laurea in giurisprudenza e prima di stabilirsi a Vicenza vinse il concorso alle Poste come ispettore. Successivamente, nei primi anni sessanta, nella città veneta contrasse matrimonio ed avviò uno studio legale in cui più tardi si assocerà la figlia Cristina. Il legame con Platì l’avvocato Zappia l’ha voluto sugellare disponendo che le sue ceneri fossero tumulate assieme alla famiglia d’origine nel cimitero platiese.