mercoledì 10 marzo 2021
martedì 9 marzo 2021
Il cavaliere implacabile [di Allan Dawn- 1954]
In paese si respirava un clima diverso.
I primi reduci erano tornati dalla prigionia. Si formavano le camere del lavoro e monsignore, con l’eterno cappello a tre spicchi con pompon viola, organizzava l’azione cattolica. Quella sera al circolo, come d’incanto, c’erano tutti. Il vecchio conte declassato dai pignoramenti e dalla sifilide, Don Giacinto lo speziale che preparava purghe su ordinazione anzi su prescrizione del cavaliere Trifala. Una vecchia radio «Allocchio Bacchini», grande come un armadio gracidava bollettini di guerra mentre mastro Pasquale l’anarchico dall‘altra parte della piazza al numero degli aerei dell’Asse abbattuti ripeteva sul filo delle labbra; pochi, sempre pochi! Trifala teneva conversazione. Amico di un grosso gerarca era diventato il despota della zona. I rapporti aumentavano ogni giorno sui tavoli dei gerarchi ed i comandanti la stazione dei carabinieri duravano lo spazio di un mattino.
Di notte andava personalmente a controllare in una fetida baracca di ex terremotati del 1908 due operai antifascisti piombati dal nord per il soggiorno coatto. A Reventino fu destinato Massaro Peppe. Le lettere anonime infoltivano il tavolo. I carabinieri non avevano tregua.
Ma quella sera afosa d'agosto dal vicolo delle Monache sbucò un uomo mascherato che assestò con un nodoso bastone un preciso fendente sul capo di Trifala.
La testa si apri a melograno. Un fuggi fuggi generale. Il vecchio medico Zucco mentre iniziava a suturare le ferite fu interrotto dall'arrivo di Massaro Peppe che provvide a reggere il lume a petrolio tra i lamenti del cavaliere.
In paese la notizia si sparse come un baleno. II commento più benevolo era «finalmente hanno rotto la cornatura al cavaliere». I giovani avanguardisti con il fazzoletto azzurro ed il medaglione con la scritta «se avanzo seguitemi» tennero un raduno dopo aver riempito le
giberne di frutta rubata nell’orto del povero Ceo. Mastro Pasquale al suono della «Comparsita» da un vecchio grammofono, ingurgitava sulla soglia l'o1io di ricino. Tutto
d’un fiato e senza tapparsi il naso. Iniziarono le indagini.
Arrivarono i panciuti gerarchi e venne pure i1 procuratore dei re accompagnato da don Pietrino, il cancelliere. Ma non c’era nulla da verbalizzare. Con scrittura a svolazzi sul fascicolo si scrisse come un’epigrafe: ad opera d'ignoti.
Le lettere anonime finirono d'un colpo ed il podestà smise gradatamente di occuparsi di politica anche perché le sorti dell‘Impero volgevano al termine. I vecchi fascisti aspettavano i cambiamenti per tornare a comandare sotto l‘egida dei partiti.
Dalia camicia nera al saio intero.
Vent‘anni dopo, a Platì, arriva un generale dei carabinieri. Massaro Peppe è sindaco. L'alto ufficiale che da capitano si era interessato del «caso Trifala» disse all'ex brigadiere: “Nella tua carriera hai scoperto tutti i casi più difficili tranne l’attentato al podestà».
Ed il Massaro Peppe di rimando: «1a testa al podestà gliel’ho rotta io!».
«E l’unica volta — rispose il generale — che non ti posso proporre per un encomio».
lunedì 8 marzo 2021
Donna di rispetto [di Enzo Acri - 2018]
Sono- di E. Gliozzi ed hanno per titolo:
MARIA DI MAGDALO
(A l’amico D. Pasquale Lentini)
Quando, sereno - quale un Nume il biondo
Rabbi acclamato da la turba fu,
Corse la voce pel Giordan fecondo
Narrante la sua fama e la virtù.
Osannando dicea la turba: Il figlio
Di Davide tra noi comparve già
Ha nobile lo sguardo, e non cipiglio,
Ha pieno il labbro di soavità
Ed il Rabbi marciava a la conquista
De’ cuori, predicando la virtù;
Una donna lo vide, a prima vista,
Lo conobbe da lungi: Ecco Gesù.
Su gli omeri la chioma in quel momento
La peccatrice donna abbandonò;
E l`occhio - pieno di faville - spento,
Umile, a terra_ - vindice - appuntò.
E allor che la casa di Simone
A la mensa s’assise il buon Gesù,
Quella donna comparve. Ed il suo nome
Era d’infamia, e la sua vita più....
Ma ciò non monta; ed ora il suo presente
E’ costrizione, massima, umiltà....
Il divino Maestro dolcemente
Le dice: Donna, ti perdono, va....
domenica 7 marzo 2021
Treni strettamente sorvegliati [di Jiří Menzel -1966]
Platì, 15 marzo
Com'è noto gli abitanti della civilissima riviera jonica, sono costretti a spostarsi con la velocità delle lumache sulle rotaie della linea che congiunge Reggio, Locri, Riace eccetera.
Spostarsi per i propri affari con la velocità delle lumache non sarebbe poi il peggio, il peggio sono le conseguenze della velocità predetta: i trabalzoni e gli scossoni poderosi che affliggono il malcapitato viaggiatore per tutta la durata delle corse; le lunghe fermate a tutte le stazioncine possibili e immaginabili, qua per incrociare con un altro lentissimo convoglio, che non arriva mai, là per rifornire di acqua le vecchie caffettiere che con molta fantasia sono state adibite a locomotive. Si impiegano tre ore, spesso quattro, non di rado cinque o sei, sdraiati e sballottati sugli scomodissimi sedili di prima o di seconda classe (forse le F. S. hanno creato i sedili delle loro vetture per delle indossatrici tanto hanno fatto gli schienali severamente perpendicolari ai rispetti “dessoux”!) per scoprire, dopo lo scioccante carosello, che si sono coperti ottanta o novanta chilometri.
Per i paesi della Calabria Tirrenica, sta già realizzandosi il sogno del doppio binario. Per noi ci sono soltanto le vecchie caffettiere che ci manda il Nord munito di elettrotreni.
Un vantaggio forse c'è a viaggiare con le locomotive a vapore: si gusta meglio il paesaggio; diremmo anzi che lo si gusta fino alla nausea. Altri vantaggi: ci si sente molto pittoreschi. Specie quando, scesi dal treno, ci si accorge che i vestiti hanno abbandonato il loro colore primitivo per assumere quello, molto più “chic” del nerofumo. - Poi ci sono gli imprevisti che spezzano la monotonia del viaggio: per esempio, quando uscite da una galleria, in nove casi su dieci c'è nella vostra vettura un novellino che grida: “al fuoco, al fuoco!”, credendo causate da un incendio le innocenti fumate che la locomotiva vi ha affettuosamente inviato attraverso la volta del tunnel!
Gli emozionanti tunnels della linea Jonica!!!
In quei brevi istanti di buio assoluto, succedono le più poetiche cose. Scappatelle “lampo” che si concludono il più delle volte con ceffoni che superano il fragore delle ferraglie.
E la luce non c’è? Si chiederà qualcuno. -
Evidentemente, o gli accumulatori sono mattacchioni, o sono esauriti, o bisogna conservarli integri, perché vadano a illuminare linee meno scalcinate della nostra. Comunque, bisogna riconoscere che così è molto più emozionante.
Avete mai visto un treno fermarsi perché qualcuno chiede un passaggio? Siamo convinti che se le cose procedono di questo passo, lo vedremo fra non molto, sulla linea Jonica.
Della elettrificazione della linea jonica si parlava già ai tempi di Matusalemme; non è improbabile che quest’ultimo si sia occupato personalmente del progetto, in questo caso, siamo portati a credere che Matusalemme sia stato un bel jettatore.
Scherzi a parte, sarebbe ora che le Ferrovie dello Stato si mettessero finalmente di fronte a quello che costituisce un loro preciso dovere. Siamo contribuenti come tutti gli altri italiani e abbiamo il diritto di vedere funzionare i servizi pubblici
Oltreché alla "convenienza” di elettrificare la linea jonica si dovrebbe guardare, anche e soprattutto alla comodità. della tutt'altro che ristretta cerchia di viaggiatori.
Certo che se i servizi della linea jonica funzionassero bene, su un binario doppio, e con la corrente elettrica, i cittadini preferirebbero i treni alle automobili pubbliche.
La nostra, più che una protesta, vuole essere un’istanza perché sia posto fine alla inconcepibile situazione che si protrae ormai da troppo tempo, e che da troppo tempo ostacola il progresso economico dei civilissimi paesi dell'Jonio. Tale istanza è sottoscritta da tutti i calabresi e senza dubbio da tutti i buoni italiani.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 16 Marzo 1957
Nota. La vaporiera in apertura è ferma a Bova Sup.
giovedì 4 marzo 2021
Wedding Party - pecorai e bracciali
01.04.1824 = Cutrì
Giuseppe di Domenico - Barbaro Elisabetta di Carmelo
Quando
Giuseppe Cutrì, pecoraio, si presentò davanti all’altare aveva diciannove anni
e per quei tempi era ancora un minorenne. Figlio di Domenico, anche lui
pecoraio, e Francesca Alleva abitava al vico Vallone. Giuseppe era nato il 20
febbraio del 1805. Elisabetta Barbaro di un anno più grande di Giuseppe era
invece una maggiorenne ed era nata il 13 giugno del 1804 da Carmine, pecoraro,
e Rosa Campiti, abitanti “ia Cresiola”. Mentre Giuseppe per il matrimonio il
consenso di entrambi i genitori Rosa aveva solo quello della madre essendo premorto il padre. La notifica del
matrimonio era stata affissa sulla porta del Casa Comunale nei primi giorni di
febbraio dello stesso anno. Davanti al sindaco Domenico Oliva erano presenti
anche: Rosario Papalia di anni quarantotto, proprietario; Michele Oliva di anni
ventidue, civile; Pasquale Romeo di anni trenta tre, bracciale e … il ben noto
a queste pagine Filippo Tripepi. In chiesa con il lauretano parroco apposero la
firma Michele Paplia e Domenico Morabito.
14.07.1824 = La
Zoppa Pietro - Marcellino Elisabetta
Pietro La Zoppa era di Messignadi e Elisabetta Marcellino di Careri. Figlio del bracciale Francesco ed Elisabetta Staleri il primo; di Giuseppe e Anna Callipari la seconda. Pietro ventunenne domiciliato nel paese d’origine, Elisabetta diciassettenne orfana di padre era domiciliata con la sola madre nel corso San Nicola. Le notifiche de matrimonio apparvero agli ingressi delle Case Comunali di Platì e Careri nel maggio precedente. In chiesa erano accanto agli sposi Antonio Zappia e Giuseppe Catanzariti; in Comune: Rocco Mittica bottigaio di anni cinquanta; i falegnami Antonio Calabria di anni quarantacinque e Giuseppe Antonio Caruso di trentacinque anni; il bracciale Pasquale Romeo trentaseienne. A parte il sindaco erano tutti senza alfabeto.
26.07.1824 = Taliano
Francesco di Bruno - Treccasi Elisabetta di Domenico
Francesco
Taliano di Bruno ed Elisabetta Carbone era nato il 2 ottobre del 1803 e faceva
il pecorajo. Elisabetta Treccasi di
Domenico e Francesca Mavrelli era nata il 3 gennaio del 1802. Al momento del
matrimonio la sposa mancava di entrambi i genitori e lo sposo del padre. La
notifica del matrimonio apparve sulla porta della Casa Comunale appena venti
giorni prima. In Comune con loro c’erano gli immancabili Filippo Tripepi e
Pasquale Perri affiancati dal forese di anni trentaquattro Domenico Di Marco e
da bracciale Pasquale Romeo di anni trentasei. In chiesa le firme le apposero
il Sig. Giuseppe Mittiga e Don Francesco Zappia.
Viene
il sentore che Filippo Tripepi e Pasquale Perri stazionassero volentieri
nella Casa Comunale ricavando per le loro testimonianze se non qualche ducato almeno un bicchiere di vino.
In apertura un ritaglio dello sposalizio Maria e Giuseppe del Giotto. Agli sposi è dedicata questa canzone di un gruppo molto seguito sul finire del secolo passato.
mercoledì 3 marzo 2021
Come quel giorno [di Mario Caserini -1916]
L'associazione Etno Culturale SANTA PULINARA di Platì è lieta di annunciare l'evento dell'anno
Siederanno al tavolo dei lavori noti studiosi, scrittori, giornalisti e autorità. Parteciperanno vari Enti Promotori locali e nazionali.
L'evento sarà trasmesso in diretta e in streaming da una nota emittente radio-televisiva.
L'organizzazione si riserva di comunicare per tempo data e luogo dell'evento.
lunedì 1 marzo 2021
La lunga sfida [di Nino Zanchin -1967]
IL
SEMINARIO DI GERACE
RISPOSTA A FRANCESCO PERRI
A
proposito di una lettera dell'autore di "Emigranti" e de "Il discepolo
ignoto", Francesco Perri, pubb1icata di recente su " La voce di Calabria"
(9-10 febbr. 1954), c'è da fare qualche rilievo sia circa l'ispiratore della
lettera (il ben identificabile C puntato) sia circa lo stesso autore.
Circa l'ispiratore
o gli ispiratori della lettera, si rileva come dopo una petizione indirizzata
alla S. Sede, tutta infarcita di buaggini e di argomenti puerili e fatta
firmare o con inganno o con minacce da una buona parte del Clero della Diocesi;
dopo una vile campagna di menzogne e di calunnie condotta da tutto un popolo
contro il suo benefattore, viene ora la lettera dello scrittore, quella che
dovrebbe essere "il suggello ch'ogni uomo sganni", “Roma locuta est" per darla vinta a quei
di lassù. Si ingannano: perché come a nulla son valse quel po' di sciocchezze scritte
maliziosamente e sottoscritte ingenuamente, come non son valse e
non
varranno le calunnie e le minacce degne di tempi ormai tramontati, cosi neanche
la lettera di uno scrittore, per quanto illustre, può dar per vinta una causa
che è molto seria.
Circa l'autore
della lettera è il caso di fermarsi un po' più a lungo.
E ci
vorrà questi consentire, democraticamente, di esporre il nostro pensiero, anche
se Egli siede sull'Olimpo della letteratura e noi ci troviamo le mille miglia
lontani da quello. Perché mentre noi leggiamo con ammirazione e - perché no? - con
orgoglio le bellissime pagine di "Emigranti" o degli altri suoi volumi,
leggendo questa lettera non proviamo altro che una vampata di sdegno per quelle
argomentazioni che egli vuole artificiosamente imbastire.
Ci
parla di dolore e di stupore, il tutto imperniato su sterili sentimentalismi, come
egli stesso ammette. Ci ricorda i suoi studi coronati da successo alla maturità
classica; ma non ci spiega se siano state proprio quelle mura minaccianti
rovina ad ogni soffiar di vento od ondeggiar di terra, o quelle attrezzature
antigieniche a stillargli nella mente il sapere che gli fece onore; se aia
stato il freddo intenso di quei rigidi inverni che faceva scoppiare le mani pei
geloni, se sia stato il trasbordo da una camerata all'altra per ripararsi dalla
pioggia, se quell'acqua allora piovana e che pur si beveva, o se piuttosto le
scorpacciate, fatte alla chetichella, di roba che i buoni papà portavano nelle
capaci bisacce per supplire alla scarsezza di nutrimento, ad aguzzargli l'ingegno.
Ma se il merito è stato non dell'edificio, ma degli uomini che vi abitavano, non
ci spiega neppure se gli ingegni come Francesco Sofia Alessio che tanto decoro
diedero al Seminario in tempi remoti, siano piante esotiche proprietà riservata
di Gerace, e per di più Superiore. Se vuole, il nostro Perri, i ricordi della
sua infanzia li consacri in un libro, ma li tenga esclusivamente per sé, come sopramobili
o anticaglie. Noi abbiamo altri ricordi e non tutti lieti. Ricordiamo le
tragiche Odissee dei nostri genitori quando venivano a trovarci, percorrendo
strade impervie a dorso di mulo e, sorpresi dalla tempesta, a stento
rientravano a casa.
Ci
parla di stupore, quando se mai lo stupore dovrebbe esser nostro per il suo scritto.
Gli potremmo chiedere di lasciare che i fatti nostri ce li vediamo noi; ma non
lo facciamo appunto perché dice di essere e rimanere “notoriamente un uomo di sinistra",
di quella parte, cioè, che decanta di andare contro i ricchi e a favore dei
poveri, salvo poi a scriver lettere con cui si difendono interessi di ... caccia
riservata. Di quella parte, cioè, che accusa la Chiesa di spirito conservatore,
di attaccamento alle tradizioni, salvo poi a consigliare questa Chiesa a
restare attaccata a quattro mura o a diciotto colonne, siano pure pregevolissime,
siano pure del tempio di Persefone; a restare attaccata lì, perché Gerace “possa
vivere del suo Duomo e del suo Episcopio". Di quella parte, cioè, che dice
di andare incontro ai miseri, salvo poi a tentare di farceli dimenticare tanti indigenti,
tanti derelitti, tanti ignoranti che solo la paterna sollecitudine di un
Vescovo in una Diocesi può scoprire per porger loro aiuto; salvo poi a consigliarci
di educare i giovani al sacerdozio in un regno di beatitudine ... solitaria, dove
nulla si ode, nulla si vede di quello che è il gemito di una umanità
sofferente.
Ma
sarebbe troppo ingenuo non pensare che lui, uomo di sinistra, forse questi
consigli vuol dare per tentare di staccare il Clero e i fedeli dal loro Vescovo,
per quella famosa legge romana, che torna di moda in qualche regime: divide et impera;
per far sì che il Vescovo si limiti "ad officiare nella stupenda solennità
dell'antica Cattedrale normanna", pronto a dargli addosso se insieme con il
fasto liturgico egli voglia accoppiare una provvida operosità civica.
Fa
male il Perri a non conoscere il nuovo Vescovo; venga a conoscerlo, magari quando
nella torrida estate egli vorrà deliziarsi della frescura del suo mare Jonio; e
vedrà qual nuovo soffio di rinascita spirituale e materiale aleggia in questa
ancora, purtroppo, infelice Diocesi. Venga con tutti i suoi compagni a vederlo
questo Vescovo, seduto all'altare, che chiama ad una ad una le Parrocchie della
Diocesi, impazienti di offrire il loro obolo, a volte modesto, a volte grandioso
nel sacrificio, per la ricostruzione materiale e morale del Seminario e soprattutto
degli alunni del Seminario. E si persuaderà che non è vero quello che scriveva l'Unità
su pretesi contrasti tra Clero, Azione Cattolica e Vescovo nella Diocesi.
E
sorvolando gli insulti lanciati dal nostro scrittore contro il Clero, tacciato
di inerte, di immorale e di poco spirito evangelico (forse tale perché si formò
in quel seminario che egli decanta e sedette a fianco a fianco con lui), vorremmo
pregarlo di portarci altri solidi argomenti, se ne ha, a favore di Gerace; perché,
come ben dice egli stesso, "con i soli argomenti sentimentali non si
difende una causa".
Doppio
torto arreca al Geracesi che egli vuol difendere perché non adduce validi
argomenti; e perché sapendo di non averne, crede di poter avallare con la sua
rispettabile firma i vani sforzi di un'ignobile
cricca
di sfruttatori.
E. G.
Questa lunga lavata di capo di Ernesto Gliozzi il giovane allo lo scrittore di Careri ebbe un
seguito molti anni dopo, nell’anno della contestazione, quando lo zio, all’epoca
parroco della cittadina che diede i natali al romanziere, ritornò sui suoi
passi:
“Ebbi la sorte di entrare in polemica con Lei in occasione del
trasferimento della sede Vescovile da Gerace a Locri, verso il 1952, con
un articolo pubblicato su un giornale di Reggio, che voleva rispondere ai Suoi
ben apprezzati argomenti in pro di Gerace; Lei scriveva per nostalgia del luogo
in cui aveva trascorso buona parte della Sua giovinezza io rispondevo guardando
alla realtà dei fatti che imponevano la soluzione di quel problema per cui si
batterono Mons. Giuseppe Piccolo da Mammola ed altri, fin dal primi lustri del
nostro secolo. Lei credette allora di polemizzare con il Suo ex compagno di
scuola e non con il nipote, per cui chiuse la replica con un generoso atto di
comprensione”.
Lo
stesso scrittore ridimensionò i fatti ricordando anche il suo compagno di
Seminario, Ernesto Gliozzi il vecchio.
Reverendo e Caro Arciprete, la Sua lettera, che ha fatto rivivere in me il ricordo di suo zio e della mia adolescenza nella camerata dei mezzanini (che strane denominazioni allora nei nostri seminari!) e la figura minuscola, arguta, vivacissima di Ernesto Gliozzi che aveva sempre pronta la battuta spiritosa ed anche tagliente, quando occorreva, mi ha sinceramente commosso. Mi ha anche fatto ricordare la nostra polemichetta, nella quale Ella portava la opinione del clero e magari anche delle autorità ecclesiastiche, mentre io parlavo avendo nel cuor la nostalgia della grande cattedrale normanna, e lo stato d'animo degli antichi uomini di chiesa, che amavano la solitudine e la elevata meditazione. I poeti non sono mai stati uomini politici!
In apertura un'immagine d'epoca del Duomo geracese.
Il motivo della reprimenda è qui:
https://iloveplati.blogspot.com/2016/12/lultima-sfida-reg-edwin-l-marin-1951.html
la
corrispondenza Perri – Gliozzi qui:
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza_10.html
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza.html
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza-reg-giuseppe.html
giovedì 25 febbraio 2021
martedì 23 febbraio 2021
Rullo di tamburi [di Delmer Daves -1954]
Seminara,
un personaggio indimenticatoMadonna dei PoveriQuando “u tamburinaru”Era l’uomo della festa“Michele u Giamba” ogni primo agosto
arrivava a piedidalla sua Platì, che ora vorrebbe
intitolargli una strada
Antonio LigatoSEMINARA
Quando venti anni fa, al corteo storico di Carlo V prese parte come
figurante Michele Trimboli conosciuto da tutti come il “tamburinaro u Giamba”
moltissimi si complimentarono con quest’uomo che pareva uscito dalla penna di
Marino Moretti, il poeta crepuscolare della poesia “Il Burattinaio”. Ecco tornare
alla memoria la figura di Michele u Giamba “tamburinaru”, nato l’8 ottobre 1923
a Platì.
Faceva la sua apparizione il primo di agosto, mese dedicato alla
Madonna dei Poveri. E come un povero pellegrino, perché povero era davvero, il
nostro personaggio giungeva nella cittadina della Piana, dopo aver camminato
per tre giorni partendo da Platì. Attraversava la montagna che separa lo Jonio
dal Tirreno, con sulle spalle il suo fedele tamburo. Uno strumento invecchiato
assieme a lui. Passava le notti sotto il cielo stellato dove persino il rumore
dei ruscelli gli suonava come la voce di un amico. Si nutriva di bacche
selvatiche e si bagnava la bocca con la brina delle foglie degli alberi. Giorni
di cammino. Affrontati da Michele, lasciandosi dietro il massiccio di Pietra
Cappa. Scivolava giù attraverso lo Zomaro con vista sulla Pana di Gioia Tauro.
Ancora chilometri e chilometri, per giungere, sfinito davanti alla Basilica della
Madonna dei Poveri.
Il suo tamburo faceva sentire la voce già alle prime case, animandole
di frotte di bambini che capivano dal suo arrivo di essere entrati nel clima
della grande festa. Era salutato e attorniato, Michele u Giamba, e qualcuno
provvedeva sempre a rinfocillarlo. Sorrideva, Michele, gli occhi si
illuminavano su quel viso scarnito dalla fatica e dalla fame. Ringraziava, con
semplicità. Tutti rispettavano quell’uomo minuto, asciutto, capelli brizzolati
e spettinati, il fedele tamburo a tracolla.
Seminara diventava così per il periodo della festa, il paese di
Michele. Giorno e notte per strada e nelle piazze. E quando si spegnevano le
luci dei rosoni colorati, Michele trovava riposo distendendosi sui sacchi di
farina del panificio Ciappina, a pochi passi dalla Basilica dei Poveri. Per
riprendere di buon mattino, il consueto giro, protagonista di un piccolo mondo muto
e irreale, che faceva felici tanti bambini. A chi gli chiedeva il nome e
cognome, rispondeva semplicemente: Michele u Giamba. A lui, qualcuno a Platì
sta pensando di dedicare una via.
( … )
Testo e foto: GAZZETTA DEL SUD, 1 agosto 2011
lunedì 22 febbraio 2021
Patto a tre [di Jack Donohue -1965]
Con la presente scrittura privata da valere per ogni effetto di legge,
noi qui sottoscritti coniugi Zappia Filippo Antonio fu Pasquale e Gliozzi Serafina
fu Francesco, nonché Mittiga Rosario fu Francesco adeveniamo al seguente
contratto racchiuso nelle condizioni seguenti:
1° Noi coniugi Zappia Gliozzi daremo in fitto al Mittiga che vi
accetta, per la durata di anni sei = 6 = a datar da oggi e finirà al quattro
Settembre millenovecentotrentaquattro un fondo di nostra pertinenza denominato
Rocca in contrada Panteforo in questo di Platì, di natura aratoria con ulivi,
ghiande e fruttiferi, limitato per due lati Gliozzi Luigi, Oliva Cav. Michelino
e strada Emulumenti =
2° La mercede locativa d’accordo pattuita per lire duemila £. 2000 per
tutta la durata del fitto, somma pagabile all’atto del presente contratto come
noi coniugi dichiariamo di averla già ricevuta dal Mittiga.
3° Noi coniugi riserbiamo soltanto su tal fondo la mettà dei frutti,
cioè fichi, fichidindia, peri erbaggi quando vi sono, nonché ortaggi se vi
sono, mentre ulivi e ghianda sono esclusivi del Mittiga.
4° Siccome gli ulivi per l’anno 1928-1929 sono già venduti a Riganò
Antonio fu Giuseppe per quanto riguarda i soli frutti di ulivo la durata del
fitto finirà Giugno millenovecentotrentacinque 1935 =
5° È a discrezione del Mittiga di coltivare il fondo, però se questi
sarà coltivato la parte che spetta al colono va a carico di noi coniugi e Mittiga
sui frutti ed ortaggi.
6° Entrambe noi coniugi e Mittiga ci obblighiamo di non arrecare danni
alla proprietà ne con animali od altro.
Il presente contratto venne redatto in doppio esemplare una per ugnun
di noi.
Platì 3 – Settembre 1928 – VI =
Accetto come sopra Zappia Antonio fu Pasquale
Accetto come sopra Gliozzi Serafina Fu Francesco
Accetto come sopra Mittiga Rosario fu Francesco