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giovedì 6 agosto 2020

SULL'ONORE NOSTRO

IL PRIMO ROMANZO DI MICHELE PAPALIA


Progetto grafico a cura di Maurizio de Marco, Città del Sole edizioni

mercoledì 5 agosto 2020

La roccia incantata [di Giulio Morelli -1949]

I’m that mountain peak up high. Bonnie "Prince" Billy




SEMBRA UN GIGANTESCO MONUMENTO A GIUSEPPE GARIBALDI
IL MASSICCIO DI PIETRA-KAPPA
SULLA CRESTA D’ASPROMONTE
Intorno a questa strana suggestiva roccia si sono intessute in ogni epoca svariate leggende

Platì, 5 gennaio
Sull'estremo tratto della cresta selvosa d'Aspromonte si eleva contro il cielo il massiccio di Pietra - Kappa. La roccia erompendo gigantesca dalla selvaggia asimmetria dei nostri monti crea una nota caratteristica al paesaggio; sembra un gigantesco monumento scolpito dal tempo a Giuseppe Garibaldi. Infatti, vista da val-
le la roccia presenta stranamente e nitidamente il profilo dell'eroe dormente.
 Forse per la stranezza della posizione topografica intorno a questa roccia si intesserono in ogni epoca le più svariate leggende, alcune delle quali sono narrate dal Perri in Racconti d'Aspromonte>>. Immaginosa ed
arguta, schietta espressione del classico «Humour» della nostra gente - è quella che si riferisce alla sua origine:
Era il tempo in cui Gesù e i suoi discepoli vagavano per la Calabria; - sebbene la storia non lo dica, Gesù venne anche in Calabria - (vedi opera citata del Perri). Una sera, ai piedi di un colle, il Divino Maestro propose alla comitiva di fare la salita portando addosso una pietra ciascuno; i discepoli accettarono di buon grado; ma San Pietro bofonchiò alquanto obbedì a modo suo: mentre gli altri arrancavano per l'erta sotto il peso di grosse pietre, lui li seguì allegra-mente con in tasca un sassolino non più grande di una nocciola;
Quando furono in cima alla salita, il Signore benedisse le pietre tramutandole in pane fragrante: inutile dire che S. Pietro dovette accontentarsi di un panino microscopico. Ma la lezione gli giovò:
L’indomani a un tratto Gesù rivolse ai discepoli lo stesso invito del giorno prima: S. Pietro, senza farselo dire due volte, abbrancò un macigno pesantissimo, se lo mise sulle spalle e arrancò dietro i suoi compagni sudando e sbuffando. Quando furono arrivati a destinazione posò il masso a terra e aspettò pregustando enormi fette di pane.
Figurarsi come rimase quando Gesù non solo non benedisse le pietre, ma invitò i discepoli a sederci sopra!!
Rimase tanto male che espresse al Maestro un desiderio: che quella pietra non si muovesse più dal luogo dove lui l’aveva posta. E il Signore l'accontentò: a un suo cenno la pietra si mise a gonfiare e gonfiò tanto  da assumere le proporzioni che ha tuttora.
E- continua la leggenda narrata dal Perri - San Pietro, quando divenne custode del Paradiso utilizzo la pietra chiudendovi dentro Malco, (il soldato che aveva schiaffeggiato Gesù nel Sinedrio) e condannandolo a schiaffeggiare in eterno le pareti della roccia;
A qualcuno sembrerà strana questa leggenda, non foss'altro che per lo strano ruolo assegnato a S. Pietro; ma per noi calabresi e normale guardar S. Pietro sotto questo suo aspetto. E può ben saperlo chi ha letto l’opera citata del Perri.
Secondo un'altra leggenda la roccia fu messa lì dal Padreterno per otturar il buco attraverso il quale, il «Faccibestia» (Lucifero in Calabria ha questo efficacissimo nome) fu spedito nell’inferno. Rimase però una fessura: a cui corrisponde nella roccia una grotta: La cosiddetta «Calara del Faccibestia». Questa era in origine un antro pauroso che nessuno mai s'era rischiato esplorare; ora però l’interno è in parte franato e nel vasto ingresso si rifugiano volentieri nelle tempeste i pastori unici abitatori della montagna.
Secondo altra leggenda ancora l’origine della grotta fu un’altra: Una volta ai piedi di Pietra Kappa il «Faccibestia» custodiva un tesoro: chiunque avesse voluto impadronirsene doveva prendere l'oro rimanendo all’impiedi: nel caso che si fosse piegato perdeva il viaggio e la vita;
Molti fecero questa fine; finché un giorno, un certo Leone Fera (che si dice sia stato il fondatore di Platì) non decise di tentare l’impresa: procuratosi un paio di scarpe larghissime s’incamminò alla volta di Pietra Kappa; arrivato a destinazione le infilò e guardando in faccia il Diavolo allungo prima un piede poi un altro dentro il mucchio dell’oro. Le monete scivolarono dentro le scarpe e le riempirono; Leone Fera se ne tornò fischiettando a casa e Lucifero per la rabbia d’essere stato fregato se ne tornò nell'inferno dimenticando la porta aperta.
Molte altre leggende si raccontano, che prendono lo spunto da queste; a scriverle tutte ci sarebbe da farne un libro. E gli antichi vi credettero ciecamente: la drammatica solitudine di Platì nei secoli passati era necessariamente popolata di fantasmi.
Oggi invece qualche moderno preferisce arrampicarsi ogni anno sulla sommità della roccia che è coperta da uno strato di terra e seminarvi il grano; ma chissà che a volte nella paurosa solitudine della montagna non tenda l’orecchio terrorizzato e non oda, soffocati dall'urlo del vento, gli schiaffi che il povero Malco somministra instancabile alla Roccia.
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD 6 gennaio 1955

Gli scatti d'apertura sono di Salvatore Carannante

domenica 26 luglio 2020

Ondata di calore [di Nelo Risi -1970]



I TERMOMETRI SCOPPIANO
Ondata di caldo a Platì dopo “le grandi piogge”
Sull’Aspromonte si è verificata un’eccezionale fioritura di funghi 
Esodo vero Bovalino
Platì, 16 luglio
 Dopo quattro giorni di temporali continui con acque torrenziali e fulmini, si è abbattuta sulla nostra zona, un'ondata di caldo. I termometri sono saliti vertiginosamente e nel cielo azzurrissimo, imperversa un sole splendente e implacabile.
E' cominciato già da qualche tempo l'esodo verso Bovalino e gli altri centri balneari della costa ionica. La strada verso la montagna invece rimane deserta perché l’interruzione già da noi segnalata è situata qualche chilometro prima dei Piani.
Così ei è costretti a restar in paese sorbendosi il caldo dato che la montagna è tabù a causa della strada.
In seguito alle piogge torrenziali si è verificata sull'Aspromonte una eccezionale fioritura dl funghi. Eccezionale non tanto per la quantità, quanto perché fuori tempo.
Testo e foto: GAZZETTA DEL SUD, 17 luglio 1959
Articolo senza firma sebbene, dato il tono, attribuibile a Michele Fera





sabato 25 luglio 2020

Anime allo specchio [di Richard Wallace -1941]

Dignum laude, virum Musa vetat mori. (Orazio)
[All'uomo degno la Musa evita la morte (e l'innalza al cielo).]

Canonico Giuseppe Panetta
 1867 - 1917

VOLI D’ANIME

 A Te l' anime nostre, quando la notte incombe,
stanche dalle diuturne battaglie combattute
vengon peregrinanti per le innumeri tombe
tra cui svolazza l’ùpupa in rapide volute,
e al Tuo sepolcro sòstano - mestissima coorte -
pare che lento mormori la nenia sua morte
lieve stormendo a l'aura di maggio il mesto salcio.
Lì ne la terra umida, li nella terra nera
nei la zolla il Tuo cuore sempre più si dissolve
ma intorno a Te fioriscono - eterna primavera
i fior della memoria nel tempo che si evolve
Maestro, che Ti narrano nel silenzio profondo
le anime vaganti ne la notte di maggio?
del bel maggio odoroso del bel maggio giocondo
Maestrso, che Ti narrano nel mistico linguaggio?
Forse a Te, come un giorno- o ricordanze care
di tempi che già furono! ¬ di Bellezza assetato
a Te pur ora aocorron come ruscelli al mare
e ne' muti colloquii ne godono beate …

O che forse Ti chiedono quell'Éstasi, o Maestro,
in cui rapito furono su l'ale del Tuo ingegno
in alto in alto, in alto, laddove Tu, o Maestro,
tra Verità e Bellezza Tu inchiudesti il Tuo Regno?
No... non questo Ti chiedono le animo errabonde
che su la tomba gelida versan l'angoscia estrema,
mentre meste sussurrano del salcio tra le fronde
di ricordi e di amore un eterno poema!
Ma chiedono la vita che le tombe ridesta
e il desio che vivifica parla un inno immenso
che di azzurro dipinge e circonda di festa 
l'avello glorioso profumato di incenso.
Chiedono a l’aura sacra ispirazione e canto
norma e coraggio, tempra ne l’ ansie della vita
e se vacilla il core o cede il piede affranto
il freddo marmo parla ed il sentier ci addita..... 
TASSONI GIACOMO OLIVA
 nel maggio del 917.

In MEMORIAM  numero unico pubblicato in occasione della morte del Can. Francesco Panetta di Gerace


domenica 19 luglio 2020

Così freddo così dolce [di Roberto Bianchi Montero 1972]



U Gelataiu
Don Danti Demaiu u gelataiu,
nu mezzu i trasportu s’inventau.

Na bricicchetta cu tri roti fici
e nu puzzettu po gelatu misi.

Mu teni duru e non mu prestu si squagghjia
cumbogghjiatu stava di ghjacciu e pagghjia.

Era friscu e duci ju gelatu
si sanava u cori du malatu.

Quandu si fermava accossì gridava:
“Ciangiti figghjioli ca i mammi vu ccattunu
deci liri ammia mi bastanu”.

Girava nto paisi tanti voti
u si rifrisca a vucca di pratioti.

Testo e voce: SILVANA TRIMBOLI


Music: Apollo 100, JoyJesus bleibet meine Freude BWV 147, J. S. Bach, arr. Tom Parker

venerdì 17 luglio 2020

LA MESSA E' FINITA - 2020 reup


Per Te, carissimo zio Ciccillo, fin dall'infanzia, ho provato passione per la musica: quando chiamavi i pratioti a messa con le note della Marcia alla Turca di Mozart o con La Gazza Ladra di Rossini.
In quei 78 giri della Voce del Padrone, neri come la tua veste, pesanti e duri come lastre di lavagne, i baratri nei solchi del disco ormai facevano parte aggiunta della composizione originale, e chissà quante malanovak hanno ricevuto da parte delle puntine del giradischi Geloso, che poi erano chiodini dorati come quelli che usava lo zio Peppino quando inchiodava le scarpe.
Le tue messe, anche quelle solenni o cantate, alla chiesa del Rosario erano per niente noiose e per niente infinite, tant'è che il fedele adulto ne usciva in pace con il Padreterno per aver adempiuto ad un comando che poteva essere aggiunto agli altri peccati in confessionale o i piccoli scappare a giocare nei casalini aspettando che la mamma preparasse il ragù di carne, e noi nipoti di nonna Lisa o nonna Maria correvamo in cucina per avere i jancareii i pani ammorbiditi e impregnati nel soffritto prima che la mamma versasse il pomodoro.
Quei pomeriggi nella sacrestia, quando impastavi e cuocevi le ostie, come passerotti noi pargoletti eravamo là ad attendere i ritagli per mangiarli golosamente. Oppure i primi lunedì o venerdì di ogni mese quando il ricavato delle offerte della messa lo davi tutto ai chierichetti.
Tutti hanno dimenticato le "Rogazioni", processioni mattutine per la buona riuscita delle seminagioni. Io ti vedevo passare dal balcone di casa con i fedeli e non capivo cosa accadeva, pensavo impaurito ad un accompagnamento, ma non vedevo la bara. Quando ho capito sono saltato anch'io, come Lord Jim, dalla barca, la messa era definitivamente finita.
Zio Ciccillo, da molto non ci sei più e tutto questo è ritornato in queste pagine.

giovedì 9 luglio 2020

Mai morire [di Enrique Rivero, 2012]

Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile
'Til your singing eyes and fingers
Drew me loving to your isle
And you sang
Tim Buckley



(...) Io vengo dalla Locride, dalla Magna Grecia, da un paese in cui il “pianto greco” non è un fatto folkloristico: abbiamo imparato già a scuola che tutti gli eroi dell’antichità piangono, gridano e si disperano, ma non c’è memoria di prefiche, nel mio paese. Il dolore con cui si piangevano i morti era autentico, partecipato, vissuto da tutta la comunità, soprattutto quando a morire erano persone giovani, oppure, come capitava di frequente, quando ero bambina, quando si trattava di morti ammazzati. Io però ero tenuta lontana da certi eventi e dai riti collegati alla morte, anche se vedevo spesso donne ammantate di nero che non toglievano il velo dalla testa per anni. La mia relazione con la morte era limitata al 2 novembre, il giorno preposto all’esposizione pubblica del dolore, quando il cimitero si riempiva di donne che urlavano e si strappavano i capelli anche, ricurve sulle tombe dei loro cari, oppure alla processione del venerdì santo, con la statua del cristo morto portata a spalla su un lettino bianco che, durante tutto il resto dell’anno, mi faceva paura dall’angolo della sacrestia della chiesa dove lo zio diceva messa. Il mio primo contatto con la morte l’ho vissuto senza rendermene conto a sette anni: la nonna era molto anziana e costretta a letto da tempo e quando andavo a trovarla, a volte anche malvolentieri, mi sedevo accanto al letto con la zia, con la mamma, con le vicine di casa che aiutavano la zia nell’accudire la nonna come gesto spontaneo, ma non ricordo che lei mi parlasse. Non mi sorpresi, perciò il giorno in cui la zia, sulla porta della stanza, mi disse di entrare a salutarla. “Dai un bacio alla nonna” mi disse, ed io la baciai, senza rendermi conto che era morta, né in quel momento, né per molti anni a venire. Quando morì lo zio, anni dopo, ero un po’ più grande e non volli nemmeno vederlo e per anni continuai a conservare gelosamente la sensazione di vederlo spuntare da dietro l’angolo… 
BETTINA GLIOZZI
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Qui il non presentito addio al MAESTRO che ha segnato, e segnerà, le mie tappe:
mentre mi autografa una copia di NCP.
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Le foto: in apertura il piccolo Ciccillo Gliozzi con la mamma Bettina Mittiga (20 luglio 1893 - 10 luglio 1970) e la zia Iolanda Mittiga. A seguire, tutti Gliozzi: da sinistra: Fina (al cielo Maria Gemma) l'infante Bettina, per il mondo Marilisa, Bettina Mittiga e Amalia.
La cover di Song To The Siren di Tim Buckley, cantata da Bettina Frazer, fece epoca nei primi anni ottanta del passato secolo e il doppio lp è ancora oggi fresco come l'acqua di cromatì.

domenica 5 luglio 2020

Il postino suona sempre due volte [di Tay Garnett, 1946]





BOZZETTO CALABRESE
Il portalettere rurale
E’ una simpatica figura: anche se non indossa – come i colleghi di città – una divisa è riconosciuto da tutti



S. Cristina d'A. 28 giugno
L'arrivo della posta costituisce, per un piccolo centro, qualcosa di veramente importante nel grigiore della quotidiana monotonia
Una piccola folla di disoccupati, di pensionati, e di altre persone cha rimangono in paese vinne a trovarsi puntualmente, all’ora solita, dinanzi all’ufficio postale, in attesa che il portalettere esca per iniziare il suo giro di distribuzione.
E’ il portalettere, a un certo momento, appare sulla soglia dell’ufficio; da un’occhiata al di di sopra degli occhiali che sono scivolati molto giù sul suo naso aquilino e poi, dopo aver notato i presenti, comincia a rovistare, non senza una certa aria d’importanza, tra lettere e cartoline.
Il portalettere rurale non indossa, come i colleghi di città la divisa della categoria; al massimo, come segno distintivo, porta un berretto, ma il forestiero non saprebbe dire, col solo aiuto di quel distintivo, di trovarsi difronte a un portalettere e non piuttosto davanti a una guardia campestre o altro impiegato delle pubbliche amministrazioni.
I paesani, tuttavia, riconoscono la voce di quell’uomo tra mille; quand’egli passa per una via, trova le porte delle case già aperte e qualcuno che attende sulla soglia per averlo sentito da lontano, magari quand’egli ha scambiato, dall’altra parte della strada, un semplice saluto.
Quella del portalettere è indubbiamente una figura simpatica.
La borgata che dista molto dai grandi centri, si tiene in comunicazione col resto del mondo attraverso il servizio postale; è naturale, quindi, che una certa simpatia si riversi du quell’uomo che quotidianamente distribuisce la piccola manna delle notizie tanto attese, anche se tra le altre arrivano pure quelle che per uno od altro verso sono punto gravi (…)
Egli, senza levar gli occhi dalla cartella, dove rovista senza fine le missive che ha già, ordinatamente disposto secondo i rioni, risponde a tutti con garbo ed ha per tutti una parola buona.
Egli è a conoscenza, talvolta, che quella tale famiglia non riceve ormai da tanto tempo notizie del figlio lontano; che la tale sposa non riceve da molto la lettera con la busta variopinta della corrispondenza d'oltremare: e in tal caso, quando ancora una volta deve dare risposta negativa alla rituale domanda, egli assume un'aria sinceramente desolata, quasi sentendosi in colpa di non poter portare la gioia dove ora è la preoccupazione. E quando la sospirata lettera arriva, egli la mostra da lontano, rivolgendo all’accorrente mamma o sposa qualche frase da cui traspare la sua contentezza.
Né a questa figura può negarsi l’aureola dell’eroismo spicciolo. Durante l’inverno, infatti, certe gelide mattine che ci si sente rabbrividire solo a guardare fuori dai vetri delle imposte, egli passa per le vie come tutti gli altri giorni, reggendo la cartella con mani tremanti, imbacuccato alla meglio nell’annoso pastrano. E lo stesso può ripetersi per l’estate, quando la canicola brucia la terra.
E' questa la figura del portalettere rurale: assai diversa. Come ben si vede, da quella dei colleghi di citta; ma la differenza si spiega ove si pensi che in paese ci si conosce meglio, come in una grande affettuosa famiglia.
Forse fra non molto non si potrà più scrivere così del portalettere; da quando, infatti, gli è toccato i dover distribuire, oltre alle innocenti lettere anche la meno innocente letteratura in carta collata, come atti giudiziari e cambiali, tratte, il bravo portalettere è diventato leggermente ... impopolare.  
FRANCESCO ANDOLFINI
GAZZETTA DEL SUD 29 giugno 1957

Nel paese di Platì accanto ai Fera avvocati, Zappia medici, Gliozzi preti, Mittiga calzolai, Violi ferrarioli, mulattieri o vaticali, Romeo falegnami ... c'erano i Iermanò postini. Prima di loro in qualche ricordo c'è stato Iginio Pirelli (nonno di Flora), ma veniva da fuori. Savu Iermanò u postinu generò Rosi (Rosario) e Brunuzzeiu. Essi sono gli storici postini; a seguire c'è stato Antonio Calabria (nella foto) che sebbene iniziò la carriera in paese esercitò altrove il suo incarico. Per il resto ci si è dovuti accontentare di portalettere che se non erano di Careri sono di Natile.
Nei miei infantili ricordi c'è Rosi: al suo apparire mi terrorizzava per l' aspetto rossiccio, il tremore delle mani e forse anche l'alito vinoso. 

mercoledì 1 luglio 2020

Cronache di poveri amanti [di Carlo Lizzani, 1954]



(In terra calabra) - Costumi popolari

La vampa sul focolare scoppiettava con allegra fiammata e i due contadini si riscaldavano le callose mani, fumando la corta pipa di creta. Si - diceva il vecchio Cola scrollando la testa - proprio sul ponte, mentre la portavano al camposanto, due colombelle bianche bianche come la neve andavano a poggiarsi sulla bara. Oh la mia Angiola del paradiso! A queste parole la vecchia Anna, che accoccolata diceva le sue preghiere, si scosse, guardò il marito asciugandosi col grembiule le lacrime: Hai fatto dire a D. Saverio la messa che gli aveva pagato col denaro della filatura? - Si, rispose Cola, quella l’ha detta, dimani dirà un’altra che gli pagherò con una giornata di lavoro nell’orto.
Qui tacquero: si udiva soltanto lo schioppettar della fiamma e il biascichio delle avemarie della donna; di sotto veniva il ruminar dei buoi attaccati alla mangiatoia della stalla.
 - Senti Cola - interruppe Mico - e di Pascaluzzo che notizie mi dai?
- Di Pascaluzzo? Di quel brigante della Sila? Di quello ... as. ....
- Si, ma non era egli lo zito di Angiola? ...
- Che?! Per la Mado. ...!? era egli lupo da rubarmi quell’agnella di Angiola?! Quel figlio di malafemmina!
-  Ma perché l’hai lasciato quella sera cantare sotto le finestre di Angiola
“ Affacciati a la finestra mu ti viju
Ccu ssocchi belli mi perci lu cori “?
-  Senti Mico, io questa sera non avrei tanta voglia di parlare ... ma giacché tu m’hai fatto aprir la bocca, ecco come vanno le cose:
-  Pascaluzzo era figlio ... di chi era figlio ... suo padre era morto in carcere ... suo nonno ucciso con una palla in fronte ... suo fratello fuggito in America per aver ucciso d’un colpo di scure l’innamorata; egli manesco ...senza arte nè parte ... voleva involarmi la mia agnella. Ché io non lo sapeva che sarebbe finito in galera? Eppure quando lo vidi innamorato serio non seppi oppormi. Suo zio gli avrebbe fatto donazione della casa e dell’orto ... io davo duecento ducati a Angiola, e già le cose erano fatte. Avevamo stipulato il contratto di nozze, si era fissato di andare in chiesa dopo la trebbiatura .... insomma tutto era pronto. Ma fa l’anno, il giorno di S. Rocco, Pascaluzzo ha voluto incantare la bara; tu sai che chi più l’incanta avrà l’onore di portare lo stendardo della confraternita. Peppino il figlio del fattore la mise cinque tomoli, Pascaluzzo dieci, quello l’innalza a quindici, questo non potendo di più giurò di vendicarsi dell’offesa, getta gli abiti di confratello, e fugge di chiesa. Ho detto che Pascaluzzo era manesco, era pure geloso; Peppino anche aveva gettato l’occhio su Angiola, tu mi capisci! ... Certo avrei preferito Peppino ... Era una sera come questa nel mese di Marzo io e Anna eravamo a letto (tutto questo me lo raccontò Angiola in fine di vita) Angiola filava al lume della lumiera nella sua stanza, quando ad un tratto sente un legiero picchio alla finestra. Va tutta tremante a vedere chi fosse e indovina chi vede? Vede Pascaluzzo che volgendo uno sguardo d’intorno spicca d’un salto nella stanza.
-  Che pensi che cercava quel tizzone d’inferno?
-  Cercava persuaderlo a volerlo seguire sulla montagna perché nella notte aveva ucciso a colpi di bastone Peppino il figlio del fattore!
-  Assassino, assassino, gridò mia figlia, esci di qua o grido da svegliare tata e mamma!
-  Gridi che (per la M...) ti taglio la gola!
-   E’ questa l’accoglienza che mi fai dopo tante promesse? - Assassino, assassino, replicava Angiola, spingendolo per la finestra.
Svegliato da quel grido mi alzo ed accorro, scassino la porta di Angiola e la trovo svenuta a terra, mi affaccio alla finestra e trovo una scala di corda ... nella via s’udiva n passo concitato ... Nulla più seppi quella sera
La mattina trovarono Peppino in un letto di sangue e l’uccisore si seppe essere stato Pascaluzzo. Egli è latitante, chi dice che sia fuggito in America, chi lo vuole morto perché due erano le colonne che si poggiarono sulla bara di Angiola: Pascaluzzo e Peppino.
ERNESTO GLIOZZI il vecchio

Chi ha confidenza con le opere di Vincenzo Padula o di Nicola Misasi è facile che trovi le dovute influenze e omaggi,