Quando ero ragazzo per giocare ci riunivamo nel grande
atrio del portone degli Oliva. Ovviamente la combriccola variava ma i più
presenti erano i fratelli padroni di casa: Ciccillo era il figlio più grande e
il capo della squadra. Poi c'erano Pippo, Pasqualino, Aurelio e Mario. I
fratelli Pino e Lillo Barbaro figlio di Rocco. La loro casa era dall'altra
parte della piazza mercato, dove c'era una fontana di ghisa, tipica del posto e
del tempo. Poi c'era Savo fratello di don Geso, che al tempo era già sacerdote
a San Luca. Alle nostre marachelle raramente c'erano i due Oliva più piccoli
Aurelio e Mario e, a volte si aggregavano occasionali a seconda del tempo e di
ciò che facevamo, Mimmo Addabbo e don Ciccio Marando, più grande di noi,
personaggio unico, grande mangiatore, grande stazza e spiccato senso della
battuta, spesso, ironica. Quando stava con noi ci deliziava con le sue battute.
Ricordo che aveva grande paura del mare e quando gli chiedemmo perché, lui
rispose in dialetto: ca sa nneghi non
ndai crizzi u ti acchiappi. Trai negozi della piazza mercato c’erano: il
salone di barbiere di Peppe il Carrino,
mio cugino figlio della zia Cata
Romeo, sorella di mamma, e a fianco la macelleria di mastro Geso Virgara, di
fronte, all'angolo, c'era la farmacia degli Spadaro. Ma i
giochi che occupavano il nostro tempo erano altri. Quando pioveva nel centro
della via si formavano corsi d'acqua (jimmiri),
che si formavano all'Ariella e scendevano
verso la chiesa del Rosario. Qui Ciccillo Oliva ci "coordinava" per
andare a trovare tutto il ferro vecchio che restava per la strada, a pioggia
finita. Il ferro vecchi veniva venduto ad un tale che veniva da un paese vicino
con un furgoncino ape e lo pagava 5-10 lire al chilo. I soldi li mettevamo in
un "caruseiu" (salvadanaio) e quando si raggiungevano le cento lire
compravamo i "formaggini" di cioccolata Ferrero. Ma la cosa che più
ci divertiva era la raccolta del grano che, alla mietitura restava ai margini
dei campi falciati. Questo grano poi lo portavamo al negozio del Negus alias mastro Peppino Marando e lo
permutavamo in "calia" ceci e fave brustolini. Si misuravano con i
recipienti che allora usavano i pastori per mungere le capre, porta a porta, e
vendere il latte. Misurini da mezzo a da un litro. Un misurino di grano
raccolto e ceduto, stesso misurino di calia ricevuto. Lo stesso facevamo a fine
autunno quando c'era la raccolta delle olive. Al sabato o la domenica andavamo
a recuperare le olive abbandonate ai margini dell'uliveto e, con lo stesso
sistema barattavamo le olive con i ceci e fave brustoliti. La calia veniva
consumata i pomeriggi che organizzavamo il teatro nell'atrio del portone di
palazzo Oliva. Qui c'erano i magazzini con le derrate alimentari delle
proprietà terriere dei padroni di casa. In uno di questi magazzini vuoto
tentavamo di organizzare le recite di pezzi di canzoni che sentivamo cantare
dei cantastorie che dai paesi vicini venivano per girare il paese e vendere dei
biglietti della fortuna, estratti dal becco del pappagallo che portavano in una
gabbia e, all'occorrenza attraverso un pertugio il volatile tirava i biglietti
disposti in un contenitore attaccato alla gabbia. Le storie cantate si
riferivano a fatti di cronaca del tempo. Ricordo quella del bandito Musolino,
del bandito Giuliano e simili. Quindi preparavamo un palco e il sipario con
indumenti e simili smessi dalle nostre famiglie. Questo nostro hobby ci
divertiva tanto anche perché cercavamo di attrarre qualche nostra compagna di
scuola che, all'insaputa sua, era la nostra fidanzata. Comunque tutte le
preparazioni finivano con grandi insuccessi ma noi per mesi insistevamo
nell'organizzare palchi, sipari e insuccessi. Giochi semplici e ingenui ma che
creavano aggregazione, allegria, amicizie che ancora adesso ravvivano i nostri
ricordi e tengono il forte legame che abbiamo con la nostra terra. Donde, terroni
con vanto.
Attilio Caruso
Attilio Caruso