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domenica 14 febbraio 2016

Virilità (reg. Paolo Cavara - 1974)

Sono sicuro di mettere a dura prova la vostra attenzione, non mi sento di frammentare l'elegia che pervade questo testo dello zio Ernesto il vecchio. Leggendolo solo una volta gli darete nuova vita. Voglio portare alla vostra attenzione le pertinenti citazioni, esse mi fanno pensare, come già altre volte, che in paese la cultura era viva e diffusa.


In morte
Del Sig. Francesco Callipari
+  Natile 31/1/1921

Signori,
Laggiù, nel vostro camposanto, anni dietro, ho dovuto, in una giornata splendida di maggio, raccogliere fiori e fiori per abbellire una tomba.
Quella tomba, di per se stressa, era un altare.
Quei fiori erano sbocciati ne l’aiuola de l’anima mia, fecondata da l’ardenza de l’amore, fiori di sentimento dunque, di giovanile entusiasmo, di alta e nobile ammirazione.
Scopriamoci!
Rievoco allora la ieratica figura del Teologo Arciprete Giuseppe Ietto; la personalità più nobile, più alta, più pura che sia stata, forse, in Natile.
Ho sbagliato?
Oggi, un compito altrettanto nobile mi lusinga.  Mi si chiedono fiori per coprire la tomba di un Uomo – ahi! Troppo repentinamente scomparso.
Colgo l’occasione quindi di completare il mio lavoro ed asserisco, in massima, che come Peppino Ietto sacrificò la sua vita per il bene delle anime, il Sig. Francesco Callipari fu Antonio sacrificò se stesso per il bene del paese, della famiglia, dei poveri.
Ascoltatemi.

XX

Vi è un luogo, sotto un nembo di cielo sempre nitido e bello. Ivi la poesia dei ricordi, ivi, il sorriso de le persone care, ivi, il verde perenne delle speranze.
 E’ il paese che ci vide nascere!
Amare il proprio paese è di tutti; amarlo con passione è proprio delle nature vigorose e ardenti; amarlo sino al sacrificio è qualche cosa che supera la natura umana.
Signori, se io vi dicessi stamattina che il compianto Francesco Callipari amò il suo paese di quest’ultimo amore – voi pensando agli eroi del carso insidioso o del sacro Piave, simboli di gloria, voi, dico, non fareste altro che sorridere di compatimento per l’audace asserzione. Ebbene, faccio presto a spiegarmi.
Non è la patri grande, l’Italia, il paese di cui vi parlo.
Voi, d’altronde, o combattenti di questa sezione, state certi che se Francesco Callipari fosse stato di una classe giovane, l’avreste veduto accorrere alle trincee, con ardimento, primo fra i primi.  Non pertanto mandò il figlio giovinetto il valoroso tenente del 20° a nome Guglielmo, mandò il genero Prof. Ierrò ed entrambi assolsero tutto ed intiero il loro dovere. Basta!
Il paese, voglio dire, a cui consacrò le sue virili energie. È proprio questo, - in questo estremo lembo d’Italia, in questa Calabria calunniata e forte, -  qui, dove nacque, tra l’incanto del suolo verde e fecondo, presso lo sterminato azzurro del mare, a le falde de l’Aspromonte virile e potente,
-          A  Natile -

XXX

Se nonché, in questo paradiso signoreggiava l’inferno.
Alla generosità della natura, ammirabile, faceva di contrappeso l’indifferenza degli uomini, spietata. Non una via d’accesso, ma chiuso in una selvaggia solitudine, non un mezzo di comunicazione, non un ufficio postale e telegrafico e neppure – (debbo dirlo o taccio? )- neppure una rivendita di generi di privativa! …
La colpevole indolenza dei governanti era secondata da un ultimo residuo di feudalismo imperante che, di fuori, stringeva come un cerchio di ferro la vita di questo paese, impedendogli più che lo sviluppo, il respiro.
Aveva un bel gridare D’Annunzio quando diceva “ Espandersi è necessario, non è necessario vivere “.
Con che cuore il povero Francesco Callipari che aveva una cultura, che leggeva i giornali e vedeva più lontano, con che cuore, dico, andava ripetendo le parole di un grande: “ Popolo, la patria ed il mondo siete voi, e finché voi piangerete sopra la terra, ogni felicità degli altri sarà egoismo, ogni vostro vanto,
vergogna “. 1

XXXX

Per sollevare il paese dall’abiezione in cui era lasciato, da quello stato d’incoscienza remissiva, Francesco Callipari lottò con tutte le sue forze, visse tutti i dolori, sopportò tutte le ansie di questo popolo, si diede tutto a tutti. La sua casa era il ritrovo delle coscienze libere ed evolute; era là che i dubbiosi attingevano dei consigli, i deboli la fortezza, i bisognosi l’aiuto. Vi si trovava non la gonfia albagia,di forma spagnolesca, d’un cosi detto “ galantuomo “ , ma il sorriso franco e sincero de l’amico, la serena dedizione d’un anima fraterna, spoglia di ogni preconcetto o di maligni sottintesi. Ed è una fortuna, credetemi, quando s’incontrano di questi uomini!
Perché bisogna sapere,che “ le avversioni sociali non nascono tanto dalla disuguaglianza della fortuna, quanto dal sospetto reciproco dell’odio e del disprezzo “.2
Ma andiamo avanti
Si rese vindice il Callipari dei dritti di questo comune, alzò la voce potente nel cosiglio comunale dove l’avete mandato più volte come assessore, interpretò i vostri bisogni intercedendo presso le autorità superiori,e fu sua mercé se avete avuto, finalmente l’Ufficio Postale, la rivendita di generi di privativa, le scuole, l’illuminazione,  il telefono.

XXXXX

Fino a questo momento voi mi avete seguito ed io vi ho parlato dei meriti civili di Francesco Callipari fu Antonio. E’ forse questa la prerogativa più interessante per gli altri; è l’esteriore bellezza di un uomo; ma una natura perfetta deve risplendere di luce interna, in latri termini:  “ Non basta andare illustre nella città, col nome scritto sulle colonne; non bastano i meriti in faccia alla patria, quando in faccia ai domestici lari, si oblia la santità delle sue leggi ”. 3
Permettetemi, dunque, o desolata vedova, o giovinetti figli, o figlie, più splendide nelle vostre lacrime; permettetemi ch’io varchi la soglia onorata della vostra casa, perché possa tratteggiare meglio gli ultimi profili del mio quadro. E quando avrò terminato il lavoro, quando una luce blanda s’innalzerà dallo sfondo, come da l’anima,voi vedrete negli occhi suoi rifulgere come una pace arcana, come una bontà serena e mi direte: Oh è questo il genitore nostro che ci ha lasciato da un mese, che non abbiamo visto ritornare la sera … L’avete incontrato qualcuno? Siete stato, forse, suo amico?
-          Si.

XXXXXX

Ordinariamente si dice la casa “ il santuario della famiglia” ed a ragione, perché il padre ne è il sacerdote, la madre la divinità, i figli i fedeli.
Vi si predica la religione de l’amore.
Quando in questo tempio vi regna l’ordine, la pace, l’armonia, sale sino a Dio l’inno della felicità e discende copiosa sopra la casa la benedizione del cielo. La prole numerosa, anticamente, era una prova della divina grazia.
Oggi, ahimè!, come i santuari della Madonna bisogna ricercarli nelle montagne, così le famiglie patriarcali bisogna ricercale nei paesi vergini di corruzione, lontane dalle città.
Fortunatamente la Calabria è ancora ricca di questi santuari. Adoriamo.
Francesco Callipari amò la famiglia da cui era ricambiato con lo stesso amore. Amò la moglie, non come schiava o strumento di basse voglie, ma come una compagna con la quale divideva gioie e dolori. Fedele al giuramento, prestato ai piedi di un sacerdote, considerava ampiezza l’amore non elevato a dignità di sacramento, né venivano a turbarlo, da l’altro lato, i dubbi, le gelosie, i sospetti.
Il fuoco sacro di questo amore non si spegneva, né si copriva di cenere. Si amavano perché si amavano. Non si domanda mai perché si ama quando si è riamati.
Da questo amore nacquero i figli.

XXXXXXX

La casa si riempiva di festa. A mano a mano che venivano al mondo, si apriva il cuore per riceverli; si allargavano le braccia alla fatica.
La corona intorno al capo di Francesco Callipari era già ricca di stelle. Sette figli maschi e tre femmine si assidevano con lui a mensa, sette e tre anime vergini pregavano con lui, a sera, attorno al focolare domestico, sette speranze fremevano dentro il suo cuore!
Ma più di tutti pensava a te, o Guglielmo, amico mio, a te, avviato alla nobile carriera degli strudi, perché voleva dare un  medico a questo paese che ne ha bisogno.
Pensava a voi, Ernesto e Beniamino, emigrati nella lontana America, dove la fortuna vi ha baciati e vi siete creata una posizione invidiabile. Pensava a voi o tenere pianticelle, destinate a coprire coi rami la casa, all’ombra della quale egli si sarebbe assiso da vecchio per riposare.
Sognava!
Ma chi l’ha svegliato così bruscamente?
Chi l’ha fatto balzare nel buio senza potere, ad una ad una, accarezzare tutte le teste piegate attorno al suo letto di morte?
Chi l’ha rapito?
Non so.
“ Date al dolor la parola,
 il dolor che non parla va fremendo
nel cor finché la spezza “ 4

XXXXXXXX

Dinanzi a questo cuore spezzato, attorno a questa quercia abbattuta dal fulmine, si stringono i figli, come un mucchio di naufraghi. Chiamano!
Di la de la tomba, come bagliori di luce arcana vedono i credenti e pregano. Pace! Riposo! Luce!
Ma ditemi, ditemi voi, non rimane proprio nulla di Francesco Callipari, tranne de la spoglia mortale che riposa sotto la terra molle?
Rimane il ricordo ne le menti e nei cuori di questo popolo riconoscente e buono?
Ma che! Il tempo, con le sue fredd’ ali,  vi spazza tutti i ricordi. 5
Rimane ne lo strazio de la ferita aperta di cui grondano sangue i superstiti?
Tutte le ferite sana questo medico pietoso, il tempo!
Rimane nelle opere che ha fatto, ne la casa che ha costruita, ne la fortuna che si è creata?
No!
Dunque che cosa rimane di Francesco Callipari, se tutto è morto, o sta per morire?
Che cosa vive?
L’anima!

XXXXXXXXX

No scriveva Robespierre a Chaumette, no, la morte non è sonno eterno, la morte è principio de l’immortalità.
D’accordo! La santa religione di Cristo rappresenta la morte come una trasfigurazione gloriosa, per cui l’uomo, deposta la frale spoglia ne l’alveo de la tomba, risorge a splendida vita incorruttibile come spirito immortale ed entra ne lo sfolgorante oceano de l’eternità.
“ Io sono la resurrezione e la vita , diceva il Maestro, chi crede in Me, anche se morto, vive, chi crede in Me non morirà in eterno “.
Credi in ciò, anima di Francesco Callipari, assente, ma presente?
Ti seguirono le opere pietose, le pratiche sante, la fede ardente,l’amore?
Oh, non mi dite, no, che la nostra fede sarà coronata da l’ultima illusione, che tutto sprofonda nel nulla e che i nostri cari dormienti del camposanto non si risvegliano più!
 Per carità, tacete: io non vi credo.
Io ho fede, anzi sono certo, che l’anima di mia madre vive e mi ama, come attualmente vive l’anima di Francesco Callipari,venuta dalle interminabili regioni dell’aria, ad assistere al nostro mesto convegno, a ricevere tutti i nostri suffragi.
Ed è per questo che qui, in questa Chiesa, dove Francesco Callipari fu portato, sessant’anni fa, ad essere rigenerato con l’acque del battesimo, dove un giorno, a piedi di quell’altare celebrava le sue nozze; dove, ogni anno, l’avete visto fare la sua Pasqua accostandosi al Ciborio ed ogni domenica ascoltare – attento -  la voce del suo parroco, qui, dico, con la pompa di una funebre cerimonia, offriamo a Dio voti e sacrifizii, affinché, purificata l’anima di Francesco Callipari, con questa divina oblazione, di quel che rimane di lui delle terrene fragilità, possa più presto, cantare nel cielo le misericordie eterne.  No fini  “ Sicut ambulavit in cospectu tuo … custodi e, Domine, misericordiam magnam “.
Come camminò dinanzi a voi, o Signore, riservategli la vostra misericordia grande.
FINE
Sac. Ernesto Gliozzi, il vecchio

Note del curatore
1 Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, 1899
2 Edmondo De Amicis La carrozza di tutti 1899
3 Felice Cavallotti, La sposa di Menecle, 1882
4 Shakespeare
5 Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 1806


giovedì 11 febbraio 2016

L'ora del lupo (reg. Ingmar Bergman - 1968)


Sera

                                                        Era la notte e sul funereo letto
                                                    Agonizzante il gemito vid’io
                                                                                     Ugo Foscolo

Alla memoria di mio padre

Sonetto

Quando tramonta il sole, e lentamente
Nella penombra si nasconde il prato,
E laggiù nella valle dolcemente,
Canta l’usignoletto accovacciato;
Quando la mesta luna dall’oriente,
Sale tranquilla per il ciel stellato,
Sento scendere in core una potente
Melanconia, di cui sta il pianto a lato.
E piangendo ripenso il padre mio,
Che da quattro anni, in questa ora sinistra
Mi disse dal funereo letto: Addio.
E da  quel di che si partì la festa
Dal povero mio cor, ne la vid’io
Ritornare e allegrar quest’alma mesta.

                                                              Perri Antonio

I poeti a Platì c'erano e di Perri Antonio non ci sono più tracce. Questo scritto era tra le carte di Ernesto Gliozzi il vecchio, ben custodito. Leggendolo ognuno di noi farà rivivere per un momento il poeta ed il padre di cui non sapremo mai il nome.


mercoledì 10 febbraio 2016

Chi è l'altro? (reg. Robert Mulligan - 1972)

Luigi e Palma Mittiga
al centro Timpani Annamaria

Fino ai primi anni novanta del secolo passato ho sempre pensato di essere l’unico Mittiga Luigi nato in Platì. Poi, quando ho cominciato a curiosare nel p. c. dello zio Ernesto e nel suo lavoro di trascrizione dei registri della chiesa che riguardavano i battezzati, i morti e i matrimoni scoprii che prima di me c’era stato un mio omonimo, per altro uno della famiglia. Ad essere cavillosi vi dico che prima c’era stato un altro Mittiga Luigi nato nel 1819 e morto nel 1883.
Il Luigi di cui vi voglio parlare era figlio di Antonio Mittiga sposato con  Creazzo Francesca. Antonio era il fratello maggiore del nonno Rosario. Luigi era fratello di Cicciu u carrarmatu, Ninu chi portava i panini ca lapa e Rosi du bar, tutti cugini in prima di papà. Sposò Palma Mittiga figlia di Francesco  e Timpani Anna Maria. Palma era sorella di Serafina che ho ricordato in un post precedente.
Ora, per merito di Mimmo Perre figlio di Serafina conosco pure i volti di Luigi  e Palma e sono lieto di inserirli nel lavoro che porto avanti.
Per contro, tra il popolo di feisbuc  esiste un Mittiga Luigi napoletano a cui vanno tutte le richieste di amicizia ( si dice così? ) indirizzate a me.
Ora consentitemi una polemica. C’entrano sempre i Mittiga di cui prima.
Il nonno e Antonio, papà di Luigi, avevano una sorella chiamata Rosa  sposata con un altro Timpani, Domenico. Erano i genitori di Stefano Fiorentino alias mastru ihuri. Lo dico perché di loro non c’è traccia in un relativo articolo celebrativo sul mastro, pubblicato da don Ciccillo Violi nel suo santapulinara. wordpress.

Ormai tutte queste persone e le altre che cito spesso fanno parte di un Olimpo personale che non scambierei con nessun’altra  Venere, Diana o Brigitte Bardot.

lunedì 8 febbraio 2016

La città dolente

Vagando in questo mondo di fantasmi, passai da-vanti al ristorante dove avevo gustato il pesce-spada, ora ridotto a un cumulo di pietre e di calcinacci, e giunsi alla cattedrale. Di essa non rimangono che le figure gigantesche che sovrastano l’altare, futilmente benedicenti il caos: insensate, terrificanti. Questa è dunque la casa della feudale Signora del fortiter in re, che inviò un terremoto e lo chiamò Amore. Amava l'oro e le pietre preziose come tutte le donne, e il suo favoloso tesoro fu ricuperato insieme a una copia di una lettera latina da lei inviata ai cattolici di Messina per mano di San Paolo.
E poco dopo, non so davvero come in quella confusione, i miei passi volsero in direzione di una strada assai stretta con le rovine di un palazzo recante, sull'ampio portale d'ingresso smozzicato, un' iscrizione che mi fece sobbalzare. Era un titolo storico che mi era familiare; e subito rivissi un susseguirsi di ricordi sonnecchianti nel profondo della mia mente. Sì, non c’era alcun dubbio: il vecchio «proprietario ›› e i suoi nipoti, quelli del giardino pubblico. . .
Mi chiesi quale fosse stato il loro destino in quella fredda alba invernale. È assai improbabile che, in quello spazio così ristretto, qualcuno sia riuscito a salvarsi: le macerie, ancora intatte, coprivano i loro resti.
Fu ricordando il vecchio e la sua pacata conversazione di quella sera, sotto gli alberi, che il vero significato della catastrofe cominciò ad affiorare in me dai suoi aspetti accidentali e superficiali. Devo confessare che il massacro di una miriade di cinesi mi lascia freddo: fra noi e quelle creature c'è poco più del fragile legame di comune discendenza dalla scimmia; sono troppo lontani in tutti i sensi per la nostra comprensione ristretta. Ma questi italiani sono nostri cugini spirituali: abbiamo radici profonde in questa calda terra d'Italia, che ci ha dato una buona parte di ciò che costituisce il meglio della nostra vita, della nostra arte, delle nostre aspirazioni.
Pensai ai due nipoti, alle loro giovani membra maciullate e distorte sotto un cumulo di vile spazzatura, in attesa di un brutale dissotterramento e di una tomba senza nome. Questa omicida violazione della vita non può considerarsi legittima morte. Immaginare un bel corpo giovane, divino strumento di gioia, ridotto a un informe mucchio di carne; un tempo amato, ora aborrito da tutti, e infine gettato con disgusto in una fossa comune brulicante di vermi. . .
Un tipo nordico - ecco di nuovo un valido legame, un legame di sangue, questa volta, fra la nostra razza e quei sovrani del sud, le cui imprese in questa terra di aranci e di mirto superarono ogni fantasia romanzesca.
Senza l’effimera amicizia stretta quella sera, la Messina di oggi sarebbe forse stata per me poco più di un semplice spettacolo e l'ecatombe dei suoi abitanti non mi avrebbe strappato che un convenzionale sospiro di compassione. Siamo fatti così. Il cuore umano è stato costruito su basi che mancano di generosità. I moralisti (se pure ne esistono ancora) potranno generalizzare con eloquenza, riferendosi alle masse; ma i nostri poeti si sono da tempo arresi al pathos dell'individuo singolo. Si dice che persino gli angeli del Cielo si rallegrino maggiormente per un solo peccatore pentito che per cento giusti; il che, se giustamente inteso, non è che un'applicazione dello stesso principio illiberale.
Una corda di lenzuola annodate era legata a una delle finestre superiori, con l'estremità penzolante a mezz'aria, all’altezza del secondo piano. Sono precauzioni che si prendono spesso a Messina - disperatimezzi di salvezza. Alcuni vasi di gerani e di cacti, tristemente in fiore, adornavano le altre finestre dai vetri intatti. Se non fosse stato per la sinistra luce del sole che le attraversava «dall' interno ››, la facciata sarebbe parsa quasi illesa. Ma l”imponente ingresso attraverso il quale avevo sperato di entrare era ostruito da macerie e fui quindi costretto a compiere una piccola scalata per portarmi nel cortile.
Se una lama gigantesca avesse tagliato il palazzo per il senso della lunghezza, l”operazione non sarebbe potuta riuscire con maggior precisione. Tutto l'interno era crollato, ad eccezione di una parte delle stanze che davano sulla strada, tranciate in due così da rivelare una sezione ideale di economia domestica. La casa, coi suoi inquilini e tutto quello che conteneva, giaceva  fra le alte macerie sotto ai miei piedi - grandi frammenti di muro cosparsi di calcinacci e inframmezzati da sbarre di ferro che si contorcevano in superficie o si tuffavano tetre nel profondo. Nelle macerie si aprivano fetidi squarci dai cui fianchi affioravano vasi rotti, candelabri, cappelli, bottiglie, gabbie per uccelli, quaderni, tubi, divani, cornici, tovaglie e tutto il banale armamentario della vita di ogni giorno. Nessuna stratificazione: né orizzontale, né verticale, né obliqua. Sembrava che gli oggetti fossero stati gettati in aria da un vulcano in vena di scherzi e lasciati depositare a caso. Due immensi blocchi di marmo intagliato (il primo disteso sul fondo di un burrone in miniatura, il secondo fieramente ritto come un monumento druidico) mi ricordarono l”esistenza delle scale, delle diaboliche scale.
Alzai lo sguardo nel tentativo di ricostruire le abitudini degl' inquilini, ma dovetti rinunciarvi quasi subito, l'unica sezione rimasta non essendo sufficientemente profonda. Il loro colore preferito doveva essere l'azzurro cielo. La cucina era chiaramente individuabile col suo focolare, la cassetta del carbone, i tegami di rame appesi in fila ordinata e la credenza aperta, piena di utensili. La stanza adiacente (le porte di comunicazione erano scomparse), con tendine di pizzo alle finestre, possedeva ancora un tavolo, una lampada e un libro, mentre la spalliera di un letto stava in precario equilibrio sull’abisso. Una terza stanza, ricca di tappeti e di quadri, rivelava un grande specchio sbiadito sotto al quale correva una fila di scaffali, gementi sotto il peso di una nutrita collezione di flaconi e di fiale.
I linimenti del vecchio . . .
FINE

Norman Douglas, Old Calabria

domenica 7 febbraio 2016

La cerimonia continua


Circa il post precedente.
Giustamente ho paragonato lo zio Ciccillo ad uno stregone, perché la cerimonia in atto, vista la presenza del fuoco e delle verginelle fuori la chiesa del Rosario, rispondeva ad un culto del tipo delle Rogazioni che si svolgevano subito dopo la Pasqua. Rito propiziatore per la fertilità dei campi e l'abbondanza del raccolto.Le Rogazioni, e l'ho già raccontato in un vecchio post, avevano svolgimento all'alba , un po come accade tuttora con l'accensione dei fuochi durante la novena di Natale. Una contrapposizione di quanto avviene nelle marine dello Scilla e Cariddi la notte della vigilia di San Giovanni Battista. Ora in ambedue i rituali si è perso la funzione originale di culto al dio Sole. E chissà?, forse, le foto potrebbero rimandare a quella notte di solstizio.
Cerimoniali abbandonati dalla chiesa cattolica perché non c'è più niente da chiedere a Dio, al massimo ancora il Paradiso, più realisticamente,  una connessione molto veloce al dio Web.

venerdì 5 febbraio 2016

La cerimonia (reg. Nagisa Oshima - 1971)















 Della cerimonia celebrata nelle immagini si è persa l'usanza, le tracce e la memoria. Lo zio Ciccillo era un officiante magico, mi piace pensarlo quasi come uno stregone alle prese con la magia. Le verginelle ora sono nonne se non bisnonne. Molti i volti conosciuti , moltissimi quelli nell'oblio. Com'è caduta nell'oblio la bellissima chiesa del Rosario, finirà come quella di San Pasquale.

Francesco, Michele, Pasquale diamoci una smossa ...

giovedì 4 febbraio 2016

Amore a prima vista ( reg. Franco Rossi - 1957 )



PARROCCHIA N. S.ra DEL SS. SACRAMENTO
E  SS. MARTIRI CANADESI
PADRI SACRAMENTINI
00161Roma 3 settembre 1990
Via G. B. De Rossi, 46 - Tel.  862.115
Rev.mo Sig. Parroco,
vengo a pregarLa di un grande favore. Una nostra giovane parrocchiana D. C., ha fatto conoscenza con un militare della Sua Parrocchia attualmente di stanza a Roma Si chiama P. C. orfano di padre,il cui fratello si è sposato recentemente.
Come succede, siamo agli inizi di una simpatia mutua,che potrebbe avere sviluppi anche buoni. Ma i genitori si preoccupano di avere notizie,per quanto è possibile,sia sul giovane sia sulla famiglia di lui,per non trovarsi di  fronte ad incognite ed a sorprese,mentre siamo a tempo ed agli inizi.
Oso per questo rivolgermi a Lei,scusandomi del disturbo che Le dò. E' una grande carità che userà. E La ringrazio fin d'ora. Non è raro che capiti che giovani militari già impegnati con qualche ragazza del paese, durante il servizio militare diano qualche illusione a qualcuna di qui. Con grande riservatezza abbia quindi la bontà di darci le opportune informazioni.
Il Signore La ricompensi.
Grato fin dora ossequio PAOLO SIRIO


Platì (RC), 13 settembre 1990
Caro Confratello,
 rispondendo alla lettera da Lei inviatami in data 03 u.s., Le posso dare buone referenze circa la persona di cui mi parla e circa la sua famiglia; è un giovane serio e amante del lavoro. Tanto a me personalmente risulta.
 Naturalmente spetta alla ragazza rendersi conto se si tratta di cosa seria o,di un semplice entusiasmo giovanile che nel termine del servizio di leva svanisce.
Con la speranza di averLa servita, Le porgo distinti saluti.
 Dev.m in Xsto
(sac. Ernesto-Gliozzi - Vic.parr.)
M.R. P. PAOLO SIRIO
Parr. N . S. del SS. Sacramento e SS. martiri Canedesi
vie G.B. De Rossi, 46 - 00161 ROMA,


mercoledì 3 febbraio 2016

Il delitto del nonno (reg. Abel gance 1919)

Il vino, il compare e i pregiudizi
di Michele Papalia

   Ogni domenica il nonno li attendeva. Dopo la rasatura, la visita quotidiana al quadretto di orto, che insisteva accanto alla casa seguita da un quarto di vino. Li aspettava seduto su una cigolante sedia a sdraio che mal sopportava il peso di un uomo tozzo, arcigno e dalle ossa dure come pietre. Era domenica 29 settembre, e per i fedeli a Platì alla liturgia dell’Eucarestia si accompagnava la festa in onore dei tre arcangeli.
   Alla spicciolata arrivarono, una dozzina in tutto, per una visita imposta a loro da bambini come doverosa ma col passare degli anni divenuta piacevole rituale.
   Quei nipoti erano avidi di storie e aneddoti, attratti dalla voce narrante del nonno, maestro nell’uso delle brevi pause cadenzate e bastevoli per far perdere gli occhi dei più piccoli nel mare oceano della fantasia. Narrava il nonno di storie dimenticate, di streghe e folletti, di bombe piovute dal cielo e di tesori nascosti negli anfratti d’Aspromonte.
   ‘Ntoni, il più grande di essi e però il più impaziente, chiedeva al nonno la questione del “traffico”, senza risultati giacché il vecchio sembrava non sentire. E attaccava con gli stessi discorsi; quanta merce aveva trasportato dalla Jonica alla Piana, talvolta fino alle Serre o in direzione della Valle Grecanica tanto da conoscere ogni sentiero di montagna e aver stretto tre comparati per ogni paese, tutti dello stesso mestiere “Che se non ci guardavamo tra noi altri mulattieri …”. Questi infatti, alla stregua di una società di mutuo soccorso, non dimenticavano mai i bisogni dei compagni di ventura e sventura e a distanza di anni, abbandonati muli e sentieri, coglievano ogni loro incontro per trasformarlo in una gara di brindisi dove il passaggio dal sobrio all’avvinazzato era intervallato giusto dai primi bicchieri, svuotati quelli gli alticci compari non distinguevano più la corposità né il colore rosso del vino.
    Dietro la continua insistenza di ‘Ntoni, quando i due nipoti più piccoli mossero verso la cucina attratti dal profumo delle melanzane, il nonno stavolta senza ritrosie andò alla questione del “traffico” esordendo con la solita esclamazione: “A ottant’anni chi se lo sognava, manco se me lo avesse detto la zingara!”.Infatti, quando si parlava di carcerati e galera, di cose storte e di ingiustizie, la veneranda età e l’illibata fedina penale del nonno, altero, lo inorgoglivano, sentendosi innocente e fortunato perché salvatosi da certe giri e macchinazioni.
Non sapeva leggere e scrivere, e pur sapendo far di conto inquadrando uomini e cose, aveva con negligenza sottovalutato i nuovi tempi, credendo smaliziata la sua condotta nel ritrovarsi sotto il pergolato di Mico Racina, compare al nonno per avergli battezzato l’ultimogenito.
   Era accaduto due lustri addietro eppure ancora a pensarci il nonno ricordava profumi e sensazioni di quelle giornate, ricordava pure la voce rauca di suo compare che non avrebbe più rivisto. E cominciarono a riaffiorare dettagli e parole.
   “Vi aspetto per sabato mattina. Che così ci facciamo un quarto di vino, di quello nuovo”, fatta l’ultima chiamata di invito che suonava più come imperativo, Mico Racina aveva riposto cornetta e rubrica telefonica, risolvendosi che tutti erano stati invitati sotto la pergola.
   Ma un nuovo sole non fece in tempo a spuntare per i vecchi mulattieri.
   In piena notte dopo il canto del cuculo e prima che il gallo svegliasse il vicinato, divelta la porta di casa i militari se lo portarono a forza per condurlo al penitenziario.Tra imprecazioni e bestemmie a denti stretti, il nonno era e rimaneva ignaro di ogni accusa fino a quando non si trovò di fronte al giudice istruttore: “Voi venite accusato di traffico di stupefacente del tipo cocaina commesso unitamente a vostro compare Mico Racina”. Continuò il giudice a leggere l’ordinanza di custodia cautelare non certo perché sapesse dell’analfabetismo dell’anziano mulattiere, il quale impaurito dagli occhi di diavolo che vedeva in quelli dell’inquisitore, non riusciva a raccapezzarsi.
   Ridestatosi da funesti visioni e fattosi coraggio, adoperando la lingua dei padri come succedeva quasi d’istinto quando il discorso si faceva terribilmente serio, in un dialetto stretto che l’avvocato compaesano si premurò di tradurre, il carcerato fece sentire le sue ragioni: “La signoria vostra deve sapere che i miei traffici li chiusi venti anni fa quando, morto il mio asino, decisi di abbandonare i sentieri”.Un attimo di pausa per guardare l’avvocato a mo’ di conferma e il nonno riprese: ”I miei compari mi chiamano a bere vino, rosso della qualità di Cirò, e l’unico traffico di cui mi potete accusare è per l’appunto questo”.
   Le porte del carcere si schiusero dopo un mese; tanto ci era voluto affinché un altro giudice, vagliati gli incartamenti, decifrasse l’arcano spegnendo l’abbaglio che irradiava gli occhi del collega, giudice incarcerato dal pregiudizio.
Nei dialoghi tra gli indagati, la giara non corrispondeva al carico di cocaina, né il rosso e il bianco ad altre sostanze stupefacenti; e le mangiate e le bevute sotto il pergolato, che il giudice sosteneva celassero l’occasione per spartire illeciti proventi, altro non erano se non un ritrovarsi che compare Mico Racina organizzava periodicamente per riabbracciare i vecchi amici.
   Il nonno tornato a casa emaciato e sbattuta la porta che la nonna aveva fatto riparare, chiesto il solito quarto di vino sentenziò: “Non conosco più a nessuno. Né compari né amici, solo Padre, Figlio e Spirito Santo”.Risoluto si autoassegnò il domicilio coatto, imponendosi di non banchettare più se non con la nonna e i figli.
   Aveva di meglio da fare: un quadretto di orto da curare e dodici nipoti che non mancava bonariamente di ammonire: “Statevi attenti! Che oggi giorno avere amici è delitto”. Non sia mai che a qualche scellerato uomo di legge e figlio del pregiudizio venissero in mente altre diavolerie.

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Questo racconto di Michele è già apparso altrove. Appena letto ho avuto invidia dei miei predecessori che, lasciatelo dire, non hanno riconosciute le novità che lo scritto nasconde,  accanto alla deliziosa scrittura che cela in sé i toni e i colori del quadro di Cézanne che illustrava (lì decolorato) una delle precedenti pubblicazioni. E la novità per me è nel reinventare e trasporre le vicende paesane affinché altri, altrove, possano uscire dai pregiudizi che stampa e media arcaici e moderni hanno riversato traendo spunto dalle cronache e non solo da quelle.
Il cumulo dei miei anni mi hanno disilluso per l’avvenire spettantemi, per chi spera la via è tracciata da Michele che ha il compito, nonché l’invito, di continuare a scrivere.

Affinché non mi si accusi di furto con plag(g)io vi informo che il lavoro di Michele è apparso su:
In Aspromonte- giornale di cultura, ambiente, risorse, eventi del massiccio montano- novembre 2015
e su Platìonline.net il blog di don Ciccillo Violi



martedì 2 febbraio 2016

La terra trema (reg. Luchino Visconti - 1948)




Platì.

Borgata di 3600 abitanti, posta su pendio ripidissimo, in un burrone ove scorre l'acqua che dà origine al torrente di Platì; trovasi sull'eocene, al suo contatto col granito dell'Aspromonte, che ivi è tagliato a picco; il suolo è di argilla scagliosa, nella parte inferiore del paese, coperta da un sottile strato di alluvione del fiume.
La costruzione delle case in generale è vecchia e pessima, fatta con ciottoli rotondi, non passati di mazza, con calce lasciata sventare, e sabbia per lo più terrosa, non lavata: non si fanno scavi per le fondamenta. Però da 10 anni, dopo che si è cominciata la costruzione della via carrozzabile Platì- Santa Cristina e dei relativi manufatti,si è imparato in paese a fabbricare meglio. I pavimenti delle case sono sostenuti da legname, e nelle costruzioni moderne da volte : il numero dei piani è di 1 e 2,talora 3.
I danni prodotti dal terremoto sono stati grandissimi: un sesto delle case del comune sono state demolite, ed erano quelle in peggiori condizioni; un settimo delle case sono puntellate, moltissime sono lesionate, tutte almeno leggermente.
Ad ogni passo nel paese si incontrano case rovinate, o demolite, o ricostruite, specialmente al piano superiore. Certamente ha avuto gran parte a produrre sì gravi effetti la cattiva costruzione, la mancanza di fondamenta, la natura e giacitura* infelice del suolo, ma è altresì sicuro che lo scuotimento dev'essere stato fortissimo, probabilmente per il movimento discordante delle rocce diverse che s'incontrano pressoché verticalmente.
Chiesa parrocchiale. E’ posta in basso presso la riva e nell’alluvione del fiume: fu restaurata prima del terremoto: si erano messe due catene nuove nell'incavallatura del tetto, si era fatto un pavimento con travi di ferro per il coro sospeso; non ha avuto altro danno che la caduta di tre delle pigne poste alla base del pinnacolo: rimase in parte la quarta rivolta ad Est.
Palazzo del Sindaco signor Oliva. Di antica ma buona costruzione: ha lesioni interne gravi, ma poche all'esterno: fra queste il distacco della facciata rivolta a SW.
Casa Mittiga. Di recente e buona costruzione, situata in basso; ha pianta isolata, quadrata; tre piani: vi sono grandi fratture verticali nella facciata di retta N-S: grandi fratture, anche orizzontali, nella faccia diretta E-W, ove sono pure rotti in chiave gli archi delle finestre: indicherebbe oscillazione in entrambe le direzioni.
Alle ore 6. 15 del 16 novembre vi fu una scossa, generalmente avvertita per il tremolìo che produsse dei grandi è piccoli oggetti, ma che non produsse alcun danno. La grande scossa delle ore 18.50 fu fortissima, prima sussultoria e poi ondulatoria nella direzione N-S, secondo il Sindaco; invece il messo municipale, che si era attaccato alle sbarre dell'inferriata di una finestra, dice di avere avvertita la direzione E-W. Fu accompagnata da rombo. Nella casa del Sindaco fece cadere giù e lontano dalla tavola un lume ad olio a becchi, di antica costruzione: il nipote del Sindaco raccolse il lume, scese le scale di 23 gradini e giunto in fondo, il terremoto durava ancora: egli dice di non aver inteso rombo, ma che durante il terremoto avvertì un rumore come di treno. Alle ore 23 altra scossa che produsse nuovi danni: continuarono le scosse nella notte.
Gli animali nelle mandrie (recinti) si agitarono molto, anche durante la giornata del terremoto. 

ANNALI DEL R. UFFICIO CENTRALE METEOROLOGICO E GEODINAMICO Serie Seconda — Vol. XIX — Parte 1 — 1897 

TERREMOTO DEL 16 NOVEMBRE 1894 IN CALABRIA E SICILIA
RELAZIONE SCIENTIFICA DELLA COMMISSIONE INCARICATA DEGLI STUDI DAL GOVERNO

Rapporti di A. Ricco, E. Cabrana, M. Baratta, Di Stefano

Bella, mia foto

lunedì 1 febbraio 2016

I visitatori (reg. Jean-Marie Poiré - 1993)

Leopoldo Franchetti                   Ernesto Nathan



                                        

 Franchetti e Nathan a Platì
                                      Platì 26'
 (Ettore) Ieri, verso le 11, sono arrivati gli onorevoli  Barone Leopoldo Franchetti ed Ernesto Nathan, del Comitato Centrale di Soccorso, accompagnati dall’instancabile cav. Antonino Spagnuolo, nostro cons. Provinciale.
Sono stati ricevuti dal Sindaco cav. Francesco Oliva e dal tenente Ricciardi, insieme col quale e col sig. Spagnuolo hanno girato tutto il paese, soffermandosi dinanzi alle case maggiormente devastate dal terremoto, o chiedendo informazioni intorno alle condizioni morali ad economiche della popolazione.
L' impressione che no hanno riportata è stata assai penosa, non immaginandosi essi di trovare tante rovine.  Sono ripartiti alle ore 14 e 30, senza aver voluto accettare il  pranzo che gentilmente avea offerto loro il cav. Oliva, dovendo trovarsi in Reggio la sera stessa.
Platì spera che la visita onde l’hanno onorata i signori Franchetti e Nathan non rimanga senza risultato, e che pari all’importanza del disastro che l’ha colpito sia il sussidio che gli verrà destinato dal Comitato Centrale di Soccorso. – Le scosse di terremoto continuano incessanti e, mantenendo gli animi in orgasmo, impediscono agli operai di attendere tranquillamente al lavoro; donde l’aumento della miseria che richiede soccorsi solleciti e copiosi.
IL PUNGOLO PARLAMENTARE – GIORNALE DELLA SERA
Napoli, Martedì-Mercoledì 29-30 Gennaio 1895