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giovedì 25 febbraio 2021

Palcoscenico [di Gregory La Cava -1937]



Fine serata di una festa lauretana degli anni novanta del secolo passato.
Riprese di S. G. Barbaro

 

martedì 23 febbraio 2021

Rullo di tamburi [di Delmer Daves -1954]

Michele Trimboli alias u Giamba
Platì, 1923 - 2006

Seminara, un personaggio indimenticato
Madonna dei Poveri
Quando “u tamburinaru”
Era l’uomo della festa
“Michele u Giamba” ogni primo agosto arrivava a piedi
dalla sua Platì, che ora vorrebbe intitolargli una strada

Antonio Ligato
SEMINARA
 
Quando venti anni fa, al corteo storico di Carlo V prese parte come figurante Michele Trimboli conosciuto da tutti come il “tamburinaro u Giamba” moltissimi si complimentarono con quest’uomo che pareva uscito dalla penna di Marino Moretti, il poeta crepuscolare della poesia “Il Burattinaio”. Ecco tornare alla memoria la figura di Michele u Giamba “tamburinaru”, nato l’8 ottobre 1923 a Platì.
Faceva la sua apparizione il primo di agosto, mese dedicato alla Madonna dei Poveri. E come un povero pellegrino, perché povero era davvero, il nostro personaggio giungeva nella cittadina della Piana, dopo aver camminato per tre giorni partendo da Platì. Attraversava la montagna che separa lo Jonio dal Tirreno, con sulle spalle il suo fedele tamburo. Uno strumento invecchiato assieme a lui. Passava le notti sotto il cielo stellato dove persino il rumore dei ruscelli gli suonava come la voce di un amico. Si nutriva di bacche selvatiche e si bagnava la bocca con la brina delle foglie degli alberi. Giorni di cammino. Affrontati da Michele, lasciandosi dietro il massiccio di Pietra Cappa. Scivolava giù attraverso lo Zomaro con vista sulla Pana di Gioia Tauro. Ancora chilometri e chilometri, per giungere, sfinito davanti alla Basilica della Madonna dei Poveri.
Il suo tamburo faceva sentire la voce già alle prime case, animandole di frotte di bambini che capivano dal suo arrivo di essere entrati nel clima della grande festa. Era salutato e attorniato, Michele u Giamba, e qualcuno provvedeva sempre a rinfocillarlo. Sorrideva, Michele, gli occhi si illuminavano su quel viso scarnito dalla fatica e dalla fame. Ringraziava, con semplicità. Tutti rispettavano quell’uomo minuto, asciutto, capelli brizzolati e spettinati, il fedele tamburo a tracolla.
Seminara diventava così per il periodo della festa, il paese di Michele. Giorno e notte per strada e nelle piazze. E quando si spegnevano le luci dei rosoni colorati, Michele trovava riposo distendendosi sui sacchi di farina del panificio Ciappina, a pochi passi dalla Basilica dei Poveri. Per riprendere di buon mattino, il consueto giro, protagonista di un piccolo mondo muto e irreale, che faceva felici tanti bambini. A chi gli chiedeva il nome e cognome, rispondeva semplicemente: Michele u Giamba. A lui, qualcuno a Platì sta pensando di dedicare una via.
( … )
Testo e foto: GAZZETTA DEL SUD, 1 agosto 2011

 

 

lunedì 22 febbraio 2021

Patto a tre [di Jack Donohue -1965]


Con la presente scrittura privata da valere per ogni effetto di legge, noi qui sottoscritti coniugi Zappia Filippo Antonio fu Pasquale e Gliozzi Serafina fu Francesco, nonché Mittiga Rosario fu Francesco adeveniamo al seguente contratto racchiuso nelle condizioni seguenti:
1° Noi coniugi Zappia Gliozzi daremo in fitto al Mittiga che vi accetta, per la durata di anni sei = 6 = a datar da oggi e finirà al quattro Settembre millenovecentotrentaquattro un fondo di nostra pertinenza denominato Rocca in contrada Panteforo in questo di Platì, di natura aratoria con ulivi, ghiande e fruttiferi, limitato per due lati Gliozzi Luigi, Oliva Cav. Michelino e strada Emulumenti =
2° La mercede locativa d’accordo pattuita per lire duemila £. 2000 per tutta la durata del fitto, somma pagabile all’atto del presente contratto come noi coniugi dichiariamo di averla già ricevuta dal Mittiga.
3° Noi coniugi riserbiamo soltanto su tal fondo la mettà dei frutti, cioè fichi, fichidindia, peri erbaggi quando vi sono, nonché ortaggi se vi sono, mentre ulivi e ghianda sono esclusivi del Mittiga.
4° Siccome gli ulivi per l’anno 1928-1929 sono già venduti a Riganò Antonio fu Giuseppe per quanto riguarda i soli frutti di ulivo la durata del fitto finirà Giugno millenovecentotrentacinque 1935 =
5° È a discrezione del Mittiga di coltivare il fondo, però se questi sarà coltivato la parte che spetta al colono va a carico di noi coniugi e Mittiga sui frutti ed ortaggi.
6° Entrambe noi coniugi e Mittiga ci obblighiamo di non arrecare danni alla proprietà ne con animali od altro.
Il presente contratto venne redatto in doppio esemplare una per ugnun di noi.
                                                                                                             Platì  3 – Settembre 1928 – VI =
Accetto come sopra Zappia Antonio fu Pasquale
Accetto come sopra Gliozzi Serafina Fu Francesco
Accetto come sopra Mittiga Rosario fu Francesco










 

sabato 20 febbraio 2021

giovedì 18 febbraio 2021

La rosa misteriosa [di Francis Ford -1914]


FRANCISCO XAVERIO MANGERUVA
EPISCOPO DESIDERATISSIOMO HJERACII
EXCIPE. QUI SUMMUM PASTOREM FORTITER ARDES,
VERSUS, QUOS ILLI CANDIDO AMORE SACRO


 
SAC. GIUSEPPE FERA-ITALIANI DA PALTI' (REGGIO CALABRIA)

 LEONE XIII
AD UNA ROSA PUDICA
RICORRENDO IL MESE DI OTTOBRE

Rosa pudìca, fra le spine nata,
Tu qui sul verde poggio sei ridente,
E come nell’aprile arrubinata!


Quando di autunno torbido e furente
Il vento spoglia agli alberi le fronde,
Euro sprezzi ridendo e Noto algente!


Dal semiaperto tuo sen si diffonde
Un odore bellissimo e fragrante,
Che siepi rende, o cara, e vie gioconde.


Non lascivo deturpi il tuo sembiante,
O con immonda mano e scelerata
Osi toccarti 'l fior tutto raggiante.


 Di rie sozzure giovana imbrattata,
 Del tuo Vermiglio fior non mai corona
 Sopra il suo biondo crin metta intrecciata!

 Nota Il sacerdote Giuseppe Fera, è stato il secondogenito di Francesco, speziale, e Giuseppa Italiani. Nipote di Michele, ferraro, e Candida Nirta, era nato a Platì il 5 marzo del 1845. Alla missione apostolica unì la passione per il bel poetare con il gusto neoclassico che andava in quei tempi. Di lui restano due Elegie in latino dedicate al vescovo Francesco Saverio Mangeruva ed un tempestivo poemetto intitolato Un sospiro su Casamicciola pubblicato nell’agosto 1883 a seguito del terremoto che colpì l’isola di Ischia e le zone circostanti nel luglio di quell’anno. A questa succinta biografia di don Giuseppe Fera possiamo solo aggiungere che fu nipote dell’arciprete rettore del Santuario di Polsi don Domenico Fera (1792-1856).

Il testo originale in apertura riportato lo devo a Francesco di Raimondo.




mercoledì 17 febbraio 2021

Ancora amore [di Luis Robertson -1967]

Primi commenti al libro.

ROCCO DE MARCO: Ciao Luigi! Sono contento di vedere come dedichi una buona parte delle tue energie alla ricerca delle nostre comuni radici. So anche che nel web sono nati tanti piccoli siti che cercano e pubblicano foto ed aneddoti su Platì e su tutti i personaggi illustri o umili che fanno parte della memoria collettiva. Ognuno di noi non può  che essere riconoscente verso di te e di chi come te fa questo lavoro oscuro e certosino. So anche che essendo figli della Magna Grecia, inconsapevolmente commettiamo gli stessi errori dei nostri antenati che crearono le polis, ma che furono sempre in guerra tra di loro, come lo furono poi gli italiani dei Comuni e delle cento città. Del resto ce lo ricorda il nostro Inno Nazionale “siam calpesti e derisi perché siam divisi”. Luigi, continua il tuo lavoro, come stai facendo, con l'obiettività dello storico, senza farti trascinare dalle ideologie o dalle invidie. Spero, e questo è  anche un augurio, che alla lunga si possano unire le tante belle energie di tutti i Platioti residenti e lontani. Se ritieni  utile puoi pubblicare sul tuo blog queste mie brevi considerazioni.

ROCCO LACAVASono contento per quanto hai saputo produrre e per il nobile intento che ti sei prefisso: l'amore per il tuo paese e la mai dimenticata tua terra. Saluti, Rocco.

NOVELLAHai fatto un grande regalo alla famiglia e a tutto il paese!

MARILISA GLIOZZIE‘ arrivato. Accarezzo la carta e sento la carezza che ritorna... Aria di casa. sogni e vecchie foto che mi hanno accompagnata sempre. nella mia casa di Platì, con Pietra Cappa davanti agli occhi occhi ogni volta che si apriva la porta. e in quelle dei nonni, dove ho raccolto. senza saperlo, tutto ciò che mi porto dentro quel pezzetto di cuore che ancora mi é rimasto. Grazie a Ginocugino, che raccoglie, custodisce, rielabora e ci racconta, in una nuova veste, tutti i nostri "segreti".


 

domenica 14 febbraio 2021

Luv vuol dire amore [di Clive Donner -1967]

... non un'opera che fermi il tempo, invece un segno nel tempo che trascende il canone.

Disponibile qui:

http://www.editrice-leonida.com/Ultime_pubblicazioni/pubblicazioni2021/410-Mittiga.htm

giovedì 11 febbraio 2021

Famiglia allargata [di Emmanuel Gillibert -2018]

HANNO DIRITTO ALL'IMPERO
I POPOLI FECONDI QUELLI
CHE HANNO L'OGOGLIO E LA
VOLONTA' DI PROPAGARE LA RAZZA M



UNIONE FASCISTA PER LE FAMIGLIE NUMEROSE

Nucleo di Platì

PLATI’ 27 Luglio 1939 =XVII=  Gliozzi Luigi fu Fsco via Fratelli Sergio 6 Platì

Per comunicazioni che Vi interessano, Vi invito a presentarvi domenica prossima 30 Luglio, alle ore 9, nella Sede di questo Nucleo in Piazzo Mercato.

IL FIDUCIARIO
               F Perone

 

mercoledì 10 febbraio 2021

Wedding Party - Gente comune

05.03.1824 = Flòccari Saverio - Violi Elisabetta di Giuseppe

Saverio nacque l’11 marzo 1797, il 5 marzo del 1824 – giusto 197 anni addietro, cosa potevano pensare i novelli sposi in quel dì felice che non sarebbero stati dimenticati – era un giovane bovaro di ventisette anni, figlio di Rocco che invece era un grado più alto, massaro di bovi, e di Caterina Taliano, la quale non poté conoscere quella felicità essendo venuta a mancare prima. L’abitazione di Saverio e Rocco si trovava nel Vico Vallone. Elisabetta era figlia di Giuseppe, vaticale, e di Teresa Molluso e di casa stavano in Vico San Nicola. Elisabetta, o meglio Bettina era una ragazzina di appena quattordici anni – era nata il 30 luglio del 1810. Al momento della sua venuta in questo universo il paese, più giusto l’Università di Mottaplatì, era sotto lo scettro napoleonico. Al Comune era stata registrata come Agata Carmela mentre al fonte battesimale fu chiamata Maria Elisabetta. Nel 1810 sindaco era Domenico Zappia mentre il giorno del matrimonio era Domenico Oliva e la notifica fu affissa sulla porta della casa comunale il primo di quel mese che, come usanza, era domenica, non ricevendo opposizioni di sorta. A firmare col sindaco furono i due già citati Filippo Tripepi e Pasquale Perri, con loro Francesco e Paolo Iermanò rispettivamente di anni cinquanta il primo e trenta il secondo. In chiesa il matrimonio fu celebrato alla presenza di Domenico Morabito e Don Vincenzo Oliva.

A questo punto, curioso come i gatti, ho dovuto sapere di più su Filippo Tripepi vista la persistenza a volerlo come testimone di nozze.

Filippo nacque l’1 ottobre del 1792 da Francesco e Giulia Pugliese. Come detto di professione era vaticale ed abitava nella Strada San Pasquale con i genitori ed un fratello minore, Giuseppe (15.10.1798). In quel tempo il clan Tripepi era uno sparuto gruppo - e tale restò – proveniente probabilmente da Cirella come attesta una nota di Ernesto Gliozzi il giovane. Il 13 maggio dell’anno 1825 egli sposò Francesca Trimboli, anch’essa una ragazzina di quindici anni, era nata il 31 gennaio del 1807, figlia di Nicola ed Anna Sergi. La famiglia Trimboli era domiciliata nella Strada Pietra d’Angela. Ad unirli in matrimonio fu il dotto Arciprete Francesco Oliva con accanto Francesco Caruso e Antonio Zappia. In Comune con loro c’erano Tommaso Morabito cinquantenne pecoraio, Francesco Zappia bracciale di trentadue anni, Domenico Dimarco di anni tretatre e … come in un canone di Johann Pachelbel, Pasquale Perri.

Il celebre Canone contenuto nella pellicola di riferimento è dedicato a tutto il cast completo di oggi e agli sposi in foto, coniugi Ciampa, che aprono la pubblicazione, soprattutto alla Signora Anna Cusenza, che mi ha sempre accolto in casa come un figlio, da poco venuta meno.

martedì 9 febbraio 2021

Lo sguardo di Ulisse - Se questa non ha mai sorriso

Se questa non ha mai sorriso
l'ha fatto apposta perché sa
di meritarsi il paradiso
Chico Buarque De Hollanda

 

lunedì 8 febbraio 2021

Una gallina nel vento [di Yasujiro Ozu -1948]


BOZZETTO CALABRESE
Le galline selvagge dell’Aspromonte
Uno strano cacciatore in una strana terra – Un carniere pieno e una contadina in pensiero


Sulle balze dell’Aspromonte, forse, c'erano cacciatori anche nell'età del bronzo. Non cacciatori con l'arco e le frecce, ma col fucile, più o meno perfetto, più o meno automatico.
E' tale e tanta la nostra abitudine di vederne sempre in giro su quelle rocce, in mezzo a quelle boscaglie, che nessuno ci leverà dalla testa questa convinzione. In ogni ora del giorno e della notte, qualcuno di essi cammina, col freddo o col solleone, col vento o con la neve, il naso in aria a spiare tra i rami degli olivi o delle querce il volo dei tordi o delle quaglie, o nei momenti di magra, anche degli scriccioli. Hanno, d'inverno, il viso arrossato dal freddo, le mani gonfie per i geloni, e i piedi doloranti; ma camminano imperterriti, e passano sulle creste dei burroni, sempre col naso in aria; sulle spallette dei ponti, sempre col naso in aria; sul ciglio di stradette insidiosissime, sempre col naso in aria; si direbbero i... «pedoni dell’apocalisse»!
Uno di costoro è il mio amico Gianni. Egli ha trovato sull'Aspromonte la sua palestra, e il suo Eden. Ci viene almeno sette volte la settimana, dopo aver coperto col suo macinino il centinaio di chilometri, che
separa il suo paese dal nostro. Cento chilometri all'andata e cento al ritorno, sempre in macchina; e duecento, trecento... quanti?... sempre a piedi, col suo pesante «Browning» in ispalla e almeno tre chili di piombo disseminato sul suo corpo in lunghe- cartuccere.
Egli di solito spara tutte le sue cartucce; ma non torna mai a mani vuote. Se non trova le pernici trova le quaglie; se non trova le quaglie trova i tordi; e infine se non trova i tordi trova... le gallinelle selvagge!!!
Sicuro, le gallinelle selvagge.
Sono bestie che assomigliano stranamente alle galline domestiche, ma vivono nei boschi, in libertà.
Mi trovavo un giorno in giro escursionistico su per l'Aspromonte, quando incontrai Gianni che tornava da una battuta di caccia. Aveva il carniere stranamente rigonfio.
Lo abbordai elogiandolo per il successo evidente. dalla giornata:
- Buona caccia, eh? Gli gridai da lontano.
- Già - mugugnò sottovoce - mica male…
E così dicendo fece un gesto di commiato.
Mi insospettì il suo strano comportamento, e cercai di trattenerlo un poco. Pretesi di vedere la preda; ma Gianni si rifiutò energicamente di aprirmi il carniere.
- Cosa vuoi vedere ... C'è qualche tordo e una ...  una … cosa.
- Una che cosa? - mi incaponii.
- Una ... gallinella selvatica ...
Ora però debbo andare, ché sono sulle tracce di una beccaccia.
- E così dicendo, si allontanò, piantandomi in asso.
Non ci feci caso. Ma dopo circa un'ora, mentre scendevo, mi spiegai il mistero della «gallinella selvatica» del mio amico Gianni.
A un centinaio di metri di distanza da una cascina, una contadina si sgolava: «Cici, Cici, Cici ...»: «Cici» è il verso con cui le contadine calabresi chiamano le galline; ma in questo caso, la contadina urlava al vento, perché nessuna gallina rispondeva al suo verso.
E la verità mi passò in un lampo nella mente. Mi avvicinai. La donna mi chiese subito se avessi visto la sua gallina: «Era bianca, col collo nero; si dev'essere allontanata dalla cascina ...».
- Mi spiace, non ho visto niente - risposi. E proseguii il cammino.
Incontrai Gianni verso sera, in paese. Era in procinto di salire sul macinino per tornarsene a casa. Aveva l'aria soddisfatta.
Mi avvicinai: - Gianni, per favore, mi fai vedere la tua «gallinella selvatica»? – gli chiesi a bruciapelo.
E altrettanto a bruciapelo mi rispose: No!
Ma dal suo carniere. Che si appoggiava semi aperto sul sedile della macchina, s'affacciava la povera preda, dal collo nerissimo, e dal corpo bianco come l'avorio!! ...
 MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 5 Febbraio 1957

giovedì 4 febbraio 2021

L'impiegato [di Gianni Puccini -1959]


COMUNE DI PLATI’
=======
Il Sindaco
Vista la Prefettizia N.3/U del 4.6.1945 circa la nomina del Segretario del Comitato di assistenza alimentare ai bambini gestanti nutrici.
ORDINA 
L’incarico di Segretario del Comitato Comunale di Assistenza all’Impiegato Sig. Mittiga Michele fu Rocco il quale avrà la competenza che determinerà la Prefettura per lavoro straordinario e dovrà attenersi alla osservanza delle disposizioni prefettizie e del comitato. 
Dato a Platì lì 16 gennaio 1946
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
(G. Delfino)

In apertura un ritratto artistico dello zio Michele (1893-1962) da giovane attribuibile al fratello Giuseppino.  Il documento riportato è di interesse per la rara coabitazione di SINDACO e COMMISSARIO PREFETTIZIO in un'unica  figura e se poi la figura risponde al meglio conosciuto massaru Peppi l'interesse triplica. In effetti, e lo sapete, il Massaro resse il Comune per un breve periodo all'indomani della fine del Secondo Conflitto Mondiale. 

mercoledì 3 febbraio 2021

10 [di Blake Edwards -1979]

Ridiventare se stesso in un tempo nuovo
A.Baricco via Bettina

In apertura l'immagine - nessuna immagine, se non quella - con cui debuttavano in sordina queste pagine, il 4 febbraio del 2011. Il lavoro era tutto da impostare, il blogger quasi tutto da sperimentare: foto, citazioni di autori in lettura, la decisione di avere il cinema come punto di riferimento per svolgere in dramma storie e documenti che riguardavano la prima parte della testata, quel Platì, assurto a luogo mitico. La seconda parte, Ciurrame, era solo un pre testo, per definire l’altra metà in cui mi dibattevo allora. Quella metà col tempo è andata dissolvendosi per l’lasciare il campo libero di Platì. La benevolenza di quanti hanno cominciato a seguirmi non è mancata e le visualizzazioni sempre in crescita. Il lavoro ha portato riscoperte e nuove amicizie - last but not least il sen. Giuseppe Beniamino Fimognari - forse anche qualche inimicizia. A poco a poco le entrate quasi tutte italiane lasciavano il posto a quelli che stavano in quell’altrove, in particolare di lingua inglese, in cui si erano trasferiti i platiesi. Grazie a quelle pubblicazioni, il luogo d’origine è stato rivissuto. Se c’è un merito quello è stato il vizio di famiglia a conservare tutto, tutto è stato spolverato e rimesso alla luce del sole, o se preferite, del monitor. Negli ultimi tempi, per finirla con questa autocelebrazione, la collaborazione con Rosalba Perri ha dato un nuovo corso, dove il confronto è diventato un maggior impulso alla ragione del lavoro.
Data l'occasione annuncio in anteprima l'imminente pubblicazione di un volume antologico che raccoglie alcuni tra i più significativi momenti della vita di questo blog per i tipi della reggina Leonida Edizioni.
P.S.: La foto è di Luigi Gliozzi

lunedì 1 febbraio 2021

La prova del fuoco [di John Huston - 1951]



Quando passa trionfante il carro falcato della MORTE, i nostri cuori tremano, le nostre fronti s'incurvano.
Lacrime e gemiti accompagnano il rombo del carro funesto che s'invola dietro la soglia misteriosa d’un camposanto dove l’Angelo della Fede conforta i superstiti con la dolce musica della speranza. Perché si piange, perché si geme quando una creatura chiude gli occhi al sole per riaprirli alla luce eterna di DIO?
Si piange e si geme perché la nostre debole natura è così fatta: sgorga irresistibile il sangue da una ferita corporale, sgorgano irrefrenabili le lacrime da una ferita ideale.
Ma, l'anima nostra deve rimanere ferma e serena nella sublime certezza che il trapasso non rappresenti la fine ma solo il principio dell'immortalità.
Signori,
noi siamo qui per onorare un uomo prematuramente scomparso che condusse la sua non lunga esistenza nel sacro tempio della famiglia, lavorando tenacemente amando fedelmente soffrendo crudelmente ma confortato da quella pacata rassegnazione che sorregge i credenti e che deriva dalla profonda convinzione che la vita terrena altro non sia che un periodo di prova per meritarsi una vita migliore e imperitura.
E questa prova, che per tutti è dura, per Francesco Miceli fu durissima.
Due stelle accompagnarono sempre senza mai velarsi i 64 anni del suo terrestre pellegrinaggio: la stella del dolore, la stella del dovere!
Dolore
Quando ancora è bambino, scoppia sul suo capo la folgore della sventura, perché gli occhi di sua madre si chiudono, perché il cuore di sua madre si spegne e il piccolo resta nel buio nel freddo - solo - all' inizio di une strada che sarà un calvario!
Le necessità dell'esistenza costringono il padre e sposare un'altra donna, la carezza della matrigna acuisce nel cuore dell’orfano il tormento della mamma perduta. Perché se ogni altro vuoto può colmarsi, il vuoto che lascia una madre è un abisso che nessuno immensità potrebbe riempire.
Quando e appena adolescente, in una notte di terrore, sopra uno sfondo di tenebre impenetrabili, tra gli urli di una moltitudine impotente, la sua casa arde come una fornace.
Un essere umano è sottratto a quel rogo crepitante.
II povero corpo affumicato e nero vien deposto all'aperto sulla piazza ...
Ma l'aria fresca, ma l’aria pura della notte non trovano più la via …

Nota di Rosalba
Francesco Miceli nacque il 4 giugno 1873 da Giuseppantonio Miceli (classe 1827) e Rosa (Mariangela) Zappia (classe 1847).
Era il terzo dei 4 figli della coppia ed unico a sopravvivere. La madre morì a trent'anni ed il padre si risposò con Marianna Pangallo da cui ebbe 3 figlie: Rosa, Anna (deceduta a 1 mese) e Francesca. Rosa sarebbe diventata monaca di casa e "santona", Francesca sposò un Trimboli (perlinu).
Giuseppantonio, che nei documenti ufficiali risulta come sartore, morì tragicamente cercando di spegnere l'incendio (doloso?) che stava distruggendo il suo allevamento di bachi da seta.
Francesco si sposò una prima volta nel 1895 con Maria Treccasi da cui ebbe un figlio, Giuseppe, detto "u Tonga". Rimasto vedovo, sposò in seconde nozze Giuseppa Caruso (vedi https://iloveplati.blogspot.com/2020/12/the-grandmother-di-david-lynch-1970.html) da cui ebbe 9 figli. 
Di mestiere era macellaio e abitava in via San Pasquale sopra il proprio negozio. Lo chiamavano "u sordateju".
Sviluppò una malattia, la gotta, che gli impediva di camminare e di fare le scale. Era la moglie a portarlo sulle spalle giù fino alla bottega di cui si occupavano i figli Antonino e Domenico. Morì nel 1937.

Il testo pubblicato in apertura è stato concesso gentilmente da Pina Miceli figlia di Nino e Maria Strangio. Di padre in figlia è attribuito a don Giacomo Tassoni Oliva, ma ad un’attenta lettura - sebbene dattiloscritto e tronco - equiparandolo ad altri dello stesso genere e tenore, il testo potrebbe essere legittimamente ricondotto ad Ernesto Gliozzi il vecchio.
Conviene ricordare ancora una volta, al di là delle attribuzioni autoriali, la vivacità intellettuale che attraversava il paese in quel periodo storico che va dai primi del secolo all’inizio del secondo conflitto mondiale.


Francesco Miceli di recente è apparso qui:
https://iloveplati.blogspot.com/2020/12/the-grandmother-di-david-lynch-1970.html

Nella foto: alla vostra sinistra sul davanti Cata, Francesco Miceli, Cristina e Pasqualino; alle loro spalle Peppina Caruso e Maria.