La «pax mafiosa»
di Platì
ILTEMPO
Anno XLIX / N. 333
Domenica
6 dicembre 1992
Dopo quattro consultazioni andate a vuoto, tre liste in lizza
Il
Msi e due formazioni civiche tenteranno di restituire un’amministrazione alla
«Capitale dei sequestri››. Ma occorrerà superare il quorum del 50 % dei
votanti. Ogni pronostico, però è un azzardo. L’ultima Giunta comunale è stata
travolta dagli scandali e dalla «rivolta delle donne››, infuriate per le
ingiunzioni esattoriali.
La
criminalità organizzata avrebbe preferito le urne vuote, ma intanto ha
rinsaldato tutte le possibili «alleanze››. E lo Stato? Ha molte colpe,
soprattutto di aver tollerato i localismi. Così, il paese resta la cenerentola dimenticata.
La storia di «Massaru Peppi››, il leggendario maresciallo dei Cc Giuseppe
Delfino.
dall`inviato
FRANCOBALDO CHIOCCI
PLATI’ -- Come andrà? «L'urna è femmena, la femmena qualche volta è
puttana››. Anche Michele Strangio - un
bel volto saracino, parola facile quando denuncia le latitanze dello Stato e
minimizza quelle dei mafiosi, mulinaio, candidato «del posto» nella lista
Solidarietà e Rinnovamento insieme con gli «stranieri›» Salvatore Zoccali, assessore regionale repubblicano che
è di Reggio Calabria, e all'ambientalista d'assalto Silvano Vicenti, che viene
da Reggio Emilia, guarda di traverso chi vuol sapere troppo, e schiva filosofeggiando maschilista.
A Platì si può cominciare a chiedere, ma non a capire. Non spiegano neppure
i coraggiosi che si sono decisi a tornare in campo per ricostruire una
municipalità dopo quattro elezioni comunali andate a vuoto o invalidate, come
l`ultima di settembre in cui si presentarono alla donchisciotte soltanto i
missini venuti da Reggio. I segreti sono gelosi e invalicabili. Non per niente
Platì è la capitale dei sequestri, dei latitanti, delle ombre. Diventa
pericoloso anche un pronostico.
Sul muro davanti al Comune, dove dal marzo scorso fa il convitato di
pietra Tommaso Mondello, giovane commissario prefettizio impaurito e taciturno,
una scritta chiede «Più lavoro, meno carabinieri» e un'altra grida «Abbasso il
sindaco!››. La vernice è sbiadita, perché è del 1985. Quell'anno ammazzarono a
lupara il sindaco Domenico De Maio. Aveva osato chiedere il ritorno al Comune
dei beni demaniali disseminati ai pledi dell'Aspromonte e che dagli anni 50
sono finiti e restati i in “mani diverse”. Dice un proverbio d'antico
revanchismo nato ai tempi in cui quassù arrivò il piombo dei piemontesi a
caccia del mitico brigante Mittica, ex sergente borbonico ribellatosi allo
Stato unitario: «Roba 'i guvernu cu nun futtî, vaij 'o 'nfernu››, se non rubi
cose del governo vai all'inferno”.
Quello di come continuare a «futtere›› il demanio, e quindi la comunità,
è uno del misteri dolorosi e intoccabili di Platì. Altri misteri sono contenuti
in quella svariata e malassortita moltitudine di articoli del codice penale che
accomunano a vario titolo rapitori ad amministratori nella stessa raffica di 73
avvisi di garanzia partita l'anno scorso dal Tribunale di Locri per fatti e
misfatti commessi nel comune di Platì nell'ultimo decennio. Accanto ai
responsabili dei sequestri Longo e Casella e ad altri mafiosi notori, figurano in
questo coacervo da «colonna infame» della Giustizia inconclusa anche un
sindaco, un vicesindaco, un ufficiale sanitario, sei segretari e quasi tutti
gli impiegati municipali, due interi consigli comunali. Delitti gravi accanto a
reati amministrativi non inconsueti, ma, nell'insieme, il groviglio di tutto un
clima, il clima di una repubblica d'Aspromonte.
Di questo clima ha molte colpe lo Stato, la sua inefficienza, la sua impotenza,
il suo tollerare soperchierie e localismi. Una colpa e più vistosa delle altre.
La Comunità Montana di Bovalino e Ardore, paesi marittimi, accorpa il 98% dei
finanziamenti per un territorio in cui Platì, il paese più montano, è la
cenerentola dimenticata. Ma è l'altro clima, l'indigeno, il clima Sciroccoso e
intimidatorio di Platì, dei suoi pericoli, delle sue paure, delle sue omertà,
dei suoi misteri, quello che ha tenuto lontano Platì dalle urne per quattro
volte consecutive, compresa l'ultima il cui esito fu nullo perché l'unica lista
era la missina che prese 307 voti di temerari su appena 422 votanti provenienti
de una popolazione di 2839 aventi diritto. Adesso le liste in lizza sono altre.
Alla «provocatoria›› del Msi, si sono aggiunte quella capeggiata dall'assessore
regionale repubblicano Zoccali in polemica col suo partito che non l`ha
candidato a Reggio e quella civica guidata dal dottor Francesco Mittica, amico del Vescovo di Locri, medico del paese ed
ex vice sindaco nella Giunta che fu spazzata via nel maggio '91 dalla rivolta
delle donne infuriate per le ingiustizie delle ingiunzioni esattoriali sulla
raccolta dei rifiuti e l`erogazione dell'acqua.
Sulla spontaneità di quella rivolta, nonostante tutto il folclore che
ha fornito a Samarcanda e alla letteratura sociologica, c'è qualche dubbio.
Fatto sta che, da allora, «qualcuno» impedì che avesse un seguito elettorale.
Se adesso lo stesso «qualcuno» consente che si torni a votare è perché, se non
si fosse presentata la terza lista, il paese sarebbe stato conteso e
conquistato dagli estranei, dai «colonialisti» saliti a Platì al seguito del Msi
e di Zoccali.
La pax mafiosa, che da Reggio è arrivata sull'Aspromonte più pericolosa
di una guerra perché ha rinsaldato tutte le possibili alleanze a delinquere,
avrebbe preferito le urne vuote, ma ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
Quando la 'ndrangheta era agropastorale e non aveva le scarpe lucide degli
affaristi gangster ma gli scarponi infangati dei contadini, quassù lo Stato era
rappresentato soltanto da un carabiniere avventuroso e solitario: il
leggendario maresciallo Giuseppe Delfino, il «massaru Peppi» dei racconti di
Corrado Alvaro. Per catturare i banditi, latitanti e renitenti si travestiva da
donna, da zingaro, da frate cercone. Lo accettavano e
lo rispettavano perché era leale come la guerra che in Aspromonte si combattevano i due ordini, quello istituzionale e quello supplente.
Andato in pensione, «massaru Peppi› fu nel '47 il primo sindaco democratico di
Platì. Il Vescovo di Locri, infuriato perché non si era presentato con la Dc,
per esorcizzarlo fece venire in paese la Madonna del Santuario di Polsi, cara
anche ai mafiosi. Non servì. Votarono per l'ex carabiniere pure i nemici che
aveva ammanettato. Fu un idillio fecondo, ma breve. Altri tempi, altri mafiosi.
Ora i mafiosi vorrebbero sparare anche sulle urne, oltre che sulle lucerne. Lo
faranno, visto che non sono più riusciti
a farle restare vuote? Pronostico impossibile. L'urna è femmena.
Testo e foto IL TEMPO, 6 dicembre 1992
-------------- CURIOSITÀ --------------
Nota. Il giornalista (devoto a Padre Pio) passa per una penna eccelsa ma è sempre stato un parolaio. Le sue sono mezze verità carpite a persone che ovviamente parlavano con la mente al paese e non al giornale. Ferdinando non fu mai sergente borbonico così come Giuseppe Delfino non fu mai un comunista e Mons. Chiappe fece arrivare la statua polsiana per paura dei comunisti. Platì e i platioti sono stati gabbati dallo Stato e non viceversa. Tutta la verità è ancora depositata in fondo al cuore dei platioti che, ancora, aspettano per darla alla luce. Quella che il giornalista dipinge è una apoclypse con tanto di elicottero come nel film citato.
Del resto l'autore dell'articolo si rivela un perfetto bugiardo quando afferma che il Commissario incaricato dott. Mondello avesse paura, adoperandosi come meglio poté affinché il paese anelasse ad un futuro diverso, e qualcosa è rimasto come le steli artistiche che ancora sono lì, come chiodi conficcati sulla terra.
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