Lo so... Una foto,
qualsiasi foto, forse poco c'entra con la storia del Seicento calabrese ma non
resisto al bisogno di parlarne dal lato dell'umanità, di quello che una foto da
e che, forse, addirittura riceve.
Un paio di giorni fa mi invitano a Platì a vedere una mostra sull'emigrazione dei platiesi. Un diluvio di foto, una quantità incalcolabile di occhi, cravatte, case, aratri, giardini, scarpe e calandrelle, benessere e malessere, vissuto qui e altrove... Calabria, Merica e Austraglia. Calau a hiumara, questo ho pensato. E' una fiumara in piena che porta a valle ricordi a migliaia sciolti nella lava della nostalgia, del rimpianto, dell'estraneità, dell'oblio, della trascuranza e del pianto. Poi mi fermo davanti a una foto. Una foto trattata per essere esposta con il tracciato di una associazione culturale che la attraversa e poi colle, cartoncino. Quella foto mi guarda, mi impressiona come fossi un vecchio rullino, mi acchiappa lo stomaco e non mi molla. Quella foto mi trasferisce come un modem emotivo dolori, speranze, illusioni, desideri, volontà. Non hanno un nome ma io le sento. E' una fiumara che cala. Cala verso di me. Nove persone e un bambino. Un'infante che si agita inconsapevole forse della rotazione planetaria che ha attorno. Sua madre mi guarda. E' lei la mediatrice, l'ambasciatore emozionale. Il suo sguardo rappresenta quello di tutti gli altri, li raccoglie li racconta. Io sento di sapere tutto di lei. Di nulla vi saprei parlare ma io tutto so. Quello sguardo non perdona un allontanamento, non tollera l'abbandono, non accetta lontananze, vuole portarmi dentro un mondo che è vivo ma è là dentro.
"Ettore... Veni... Mbivimu 'acchi cosa..." E' Mimmo che mi sveglia. Mi chiama fuori. Platì è il suo paese. Il mio è in quella foto
Un paio di giorni fa mi invitano a Platì a vedere una mostra sull'emigrazione dei platiesi. Un diluvio di foto, una quantità incalcolabile di occhi, cravatte, case, aratri, giardini, scarpe e calandrelle, benessere e malessere, vissuto qui e altrove... Calabria, Merica e Austraglia. Calau a hiumara, questo ho pensato. E' una fiumara in piena che porta a valle ricordi a migliaia sciolti nella lava della nostalgia, del rimpianto, dell'estraneità, dell'oblio, della trascuranza e del pianto. Poi mi fermo davanti a una foto. Una foto trattata per essere esposta con il tracciato di una associazione culturale che la attraversa e poi colle, cartoncino. Quella foto mi guarda, mi impressiona come fossi un vecchio rullino, mi acchiappa lo stomaco e non mi molla. Quella foto mi trasferisce come un modem emotivo dolori, speranze, illusioni, desideri, volontà. Non hanno un nome ma io le sento. E' una fiumara che cala. Cala verso di me. Nove persone e un bambino. Un'infante che si agita inconsapevole forse della rotazione planetaria che ha attorno. Sua madre mi guarda. E' lei la mediatrice, l'ambasciatore emozionale. Il suo sguardo rappresenta quello di tutti gli altri, li raccoglie li racconta. Io sento di sapere tutto di lei. Di nulla vi saprei parlare ma io tutto so. Quello sguardo non perdona un allontanamento, non tollera l'abbandono, non accetta lontananze, vuole portarmi dentro un mondo che è vivo ma è là dentro.
"Ettore... Veni... Mbivimu 'acchi cosa..." E' Mimmo che mi sveglia. Mi chiama fuori. Platì è il suo paese. Il mio è in quella foto
Il testo, mediato da Francesco di Raimondo, è
di Ettore Castagna, gioviale antropologo culturale e pubblicato su Facebook il 23 agosto con il titolo Il deogramma note per un romanzo.
Tutto è accaduto il 20
agosto scorso nella sala che fu Cinema Loreto di Platì. Per parte mia restai meravigliato
a scoprirlo rifotografare la foto in oggetto - quello sguardo non perdona un allontanamento, non tollera l'abbandono,
non accetta lontananze - che per me è il simbolo del mio DNA. A Ettore
Castagna quella sera ho voluto regalare, sotto una fioca luce, la visione del
teatro di posa, e quel che rimane, dove la foto venne scattata.
Nell’alba di questi lavori
la foto, con altre era stata pubblicata qui:
Certo che mi tocca, Gino...
RispondiEliminaSento mio quello sguardo. Tutti quegli occhi sono io.
Con una differenza sottile, penetrante, tagliente, profonda e compiuta: lei sapeva, con assoluta certezza e con l’altrettanto assoluta fierezza di un’appartenenza incondizionata, che quello sguardo era letto, compreso e corrisposto, nonostante ogni “tutto” che potesse succedere, vicino o dall’altra parte del mondo.
Io no.
Torno indietro, sull’immagine, per cercare altre parole…. e la vedo. Mi vedo.
E adesso so che i miei occhi, ora, hanno lo sguardo segnato e più triste di quella donna che le sta alle spalle e alla quale appartengono tutte le altre vite attorno, così come la mia.
Adesso so che, oltre al suo nome, porto anche i suoi occhi.
E’ in quella piega che li sottolinea che io tengo, esattamente come lei, tutto ciò che ancora persiste e persevera.
Certo che scrivete bene e fate commuovere entrambi ma, nella foto riconosco la mia famiglia materna, sarei contenta di sapere chi è l'anonimo
RispondiEliminaMaria... chi è che porta il suo nome? ❤
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