martedì 26 ottobre 2021
Zona di guerra [di Tim Roth -1998] - Tramonto sul campo
“Cittadini e soldati
domenica 24 ottobre 2021
La Valle dell'Inferno [di Gustavo Serena -1918]
LA COLLINA “LACCATA”
della Valle dell'Inferno
La triste storia delle tre sorelle Agra, Darussa e Suia
Fino a qualche secolo fa, esisteva, in mezzo alla «Laccata» rossastra, il rudere del castello che la leggenda vuole sia appartenuto alle tre fatidiche sorelle di Alessandro XXXVII le quali si ritirarono in quel desolato paesaggio non resistendo al dolore per la tragica disfatta del fratello.
Ma non divaghiamo e torniamo alle sorelle di quell'ultimo, della cui triste storia ancora è impregnata la mortifera terra rossastra che non conosce erbe.
Quando le tre sorelle, la bionda Agra, con la rossa Darussa e la nera Suia, vennero ad abitare nel grande palazzo, i pastori di capre che osarono avventurarsi nella zona, ebbero una sgradita sorpresa: Le tre sorelle, infatti, dimostrarono di non avere nessuna intenzione di vedere adibite a pascoli le loro rossastre terre. Agra, che era la maggiore delle tre, si assunse l'incarico di «spulicare», come diceva lei, la piccola collina. Detto fatto, chiamò a raccolta i pastori avendo in precedenza affilato il più grosso dei coltelli di famiglia, quello che il fratello Alessandro
Nel suo linguaggio stregonesco, che i pastori però, capivano a meraviglia, Agra cominciò: — «Cosa fi? Tent! Nenti, chiurrin, Garicà!»
Dopo il sanguinoso avvenimento, nessun pastore, fino ai giorni nostri, portò a pascolare le capre nella laccata rossastra circostante il castello.
E le tre sorelle?
Gli anni passarono anche per loro, e un bel giorno Agra disse a Darussa con voce malinconica: «Oggi, per tirare il secchio dal pozzo, ho dovuto faticare quanto Briareo quando dové infilare i cesti da boxe per lottare contro Padre Giove!»
Questa è la storia di Agra, Darussa e Suia, che è una delle più strane e insieme delle più, belle leggende calabresi. Il pastore che me la raccontò, mi confidò terrorizzato che nelle notti in cui la luna è al suo primo quarto, dalle zolle rossastre della collina si sente la voce di Agra cantare al vento il suo motto abituale, che uccide chi lo sente.
GAZZETTA DEL SUD, 4 ottobre 1956
venerdì 22 ottobre 2021
mercoledì 20 ottobre 2021
Fango bollente [di Vittorio Salerno -1975] - Una rievocazione del prof. Pipicella
Dopo una breve pausa, riprese a piovere ininterrottamente sino alla notte del 17, quando verso le due, un boato assordante fece tremare la terra e il cielo svuotò improvvisamente tutte le nuvole che l'avevano coperto per una settimana.
Le povere case, che non avevano un solo angolo asciutto, furono completamente allagate. I cittadini tutti svegli e preoccupati non riuscivano a comunicare tra di loro, perché le strade erano trasformate in ruscelli impetuosi e i tizzoni accesi con i quali solitamente squarciavano le fitte tenebre non erano utilizzabili.
Abbandonati i letti inzuppati c'eravamo portati vicino al focolare fino a quando il tuono non spense completamente la brace.
A casa mia, i quattro figli eravamo avvolti in una coperta. Mia madre pregava e piangeva, mio padre si affacciava sull'uscio e rientrava gocciolante.
Le ore che precedettero l’alba durarono un’eternità e la luce del giorno ha aperto ai nostri occhi uno scenario spettrale: a valle un’immensa distesa di acqua e fango con piante e cose semoventi; a monte frane dovunque e dai fianchi squarciati delle montagne possenti gettiti d'acqua.
La pastorizia e l’agricoltura, uniche fonti dell’economia natilese, erano state spazzate via: il patrimonio ovino e bovino era stato completamente travolto e depositato lungo la fiumara dalla montagna al mare; i campi sconvolti e ridotti pietra su pietra!
Ma di tutto questo la popolazione non ebbe percezione, in quanto subito si cercarono gli assenti e si capì che cerano stati dei morti.
In un primo momento i dispersi erano molti, ma il giorno dopo il tragico elenco fu definitivo.
I morti furono dieci: due persone anziane e otto giovani.
Di seguito i nomi in ordine alfabetico e il loro tragico destino:
Il persistere delle piogge aveva reso impraticabile il suo pagliaio, per cui il i7 aveva cercato rifugio in una struttura più solida. Si era portato infatti presso un mulino, esattamente in quello centrale rispetto ai tre esistenti. Qui ha incontrato altre persone che avevano tentato inutilmente di attraversare la fiumara per rientrare in paese quando si accorsero che la portata diventava sempre più minacciosa, tutti insieme abbandonarono il mulino per recarsi verso la montagna con la speranza di trovare qualche soluzione.
Sarà trovato raggomitolato ai piedi di un albero in contrada Lacco di torno. Si è detto che sarebbe caduto dall'albero sul quale aveva cercato scampo, come avevano fatto altri, o che sarebbe stato colpito da un macigno staccatosi dalla frana.
Riportarlo a casa su una scala di legno improvvisata è stata un'impresa difficile e straziante.
Domenico Marvelli, quasi novantenne, viveva assieme ai familiari in una casa di campagna in contrada Acone. Quando è stato invitato a cercare verso l'alto un rifugio più sicuro, ha incoraggiato gli altri a farlo, ma lui volle rimanere a casa sua. Aveva una grande fede e trascorreva parecchie ore a pregare.
Testo del Prof. Pino Pipicella
Foto S. Carannante
martedì 19 ottobre 2021
Come quel giorno [di Mario Caserini -1916] - Un suffragio 70 anni dopo
giovedì 14 ottobre 2021
La morte cammina nella pioggia [di Carlos Hugo Christensen - 1948]
Nel 70° Anniversario
Platì 18 Ottobre 1951
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
una Preghiera
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.
Silvana Trimboli
Caraffa del Bianco, 2021
.:.:.:.
A tutt’oggi l’elenco
definitivo delle vittime è nebuloso. Il NOTIZIARIO DI MESSINA(*) in data 8
novembre 1951 riportava i 15 nominativi già citati nel video. La tradizione popolare ne
ricorda18/19. Non vengono in soccorso né i registri comunali né quelli
parrocchiali. In questi ultimi sono elencati solo:
Marando Giuseppe
di Rosario anni 13
Marando Rosario
di Domenico anni 47
Portolesi
Caterina fu Pasquale anni 77
Sergi Michele di
Pasquale anni 15.
A questi bisogna
aggiungere:
Iermanò Serafina
di Francesco di 5 mesi
Zappia Filippo di
Domenico di 8 mesi
segnati nel
registro dei morti della parrocchia in data 18 ottobre 1951
e Iermanò Saverio
di Antonio di anni 90 registrato in data 20 ottobre 1951.
Antonio
Schimizzi morto durante i lavori di sgombero delle macerie era nato il 29
giugno del 1900 da Francesco e Musitano Francesca. Il 10 febbraio del 1929 sposò
Domenica Carbone di Antonio e Martino Anna Maria di 23 anni ed ebbero 6 figli.
(*) https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/acque-del-sud-reg-howard-hawks-1944.html
In apertura:Particolare del
monumento alle
vittime dell’alluvione del 1951 di Platì realizzato dal pittore e scultore
messinese Antonello Bonanno Conti.
Nel video: Antonio Vivaldi, Concerto per Violino op. 7 No. 12 in re maggiore RV 214, Grave Assai, Claudio Scimone dir. - To be played at maximum volume.
martedì 12 ottobre 2021
Notte di terrore [di Andrew L. Stone - 1955]
DUE
PAESI DELLA CALABRIA CANCELLATI DALLA TERRAPazzi ad Africo e Casalinovo
per il terrore dell’alluvioneIl
drammatico esodo di 2.300 persone per un sentiero esposto ai pericoli delle
frane – Centinaia di malati nella scuola di Bova
REGGIO CALABRIA
27 – Le montagne che circondano che circondano Africo cominciarono a franare
nel pomeriggio di martedì 16 ottobre e investite in pieno dai macigni le prime
case, quattro persone rimasero seppellite sotto le macerie. Pioveva
ininterrottamente già da due giorni e che da un momento all’altro la montagna
potesse franare era stato l’incubo della popolazione. Ma durante il temporale
da quanti anni aveva vissuto sotto quell’incubo? Ora il rombo pauroso delle
rocce che precipitavano e la visione del terreno che lentamente slittava a
valle davano consistenza reale al timore di intere generazioni.
Sotto la pioggia
torrenziale, annaspando nel fango, la gente si precipita fuori delle povere
case che potevano trasformarsi in tombe da un momento all’altro. La montagna
continuò a franare. Pensarono in principio di trovare salvezza andando a
Casalinovo, ma già da quella vicina frazione cominciavano ad arrivare ad Africo
i primi fuggiaschi i quali avevano anch’essi abbandonato le case minacciate
dalle frane, raccontarono che durante il tragitto sei di loro avevano trovato
la morte.
E ora dove
fuggire? Africo e Casalinovo sono due fra i tanti paesi di Calabria non legati
da strade con il resto del mondo. C’è solo una mulattiera che porta a Bova
Superiore. Su questa mulattiera cominciò l’esodo della popolazione: 2.300
persone. Quanto terrificante sia stato il viaggio a piedi, sotto la tempesta,
per percorrere quei 2 chilometri in mezzo a burroni e precipizi, nessuno potrà
mai raccontare perché quelli che erano gli abitanti di Africo e di Casalinovo
erano soli con la loro disgrazia e con il loro terrone.
Quando finalmente
arrivarono a Bova, che è un paese privo d’acqua, di luce, di fognature,
credettero di essere giunti in paradiso. Ma fu solo una fugace illusione perché
subito cominciò l’inferno di Bova.
Ci siamo recati
ieri a Bova. Nella nostra vita di giornalisti, che pure ci ha fatto assistere a
tanta spettacolare desolazione e miseria, nulla avevamo visto fino ad oggi di
così terrificante sofferenza umana.
Siamo stati
alloggiati in un edificio scolastico, i profughi di Africo e Casalinovo,
avevano assicurato le autorità. Ma noi avevamo saputo già a Reggio Calabria che
tra essi si erano verificati, nei giorni scorsi, veri casi di pazzia. Però solo
quando siamo penetrati nell’oscuro corridoio della scuola di Bova abbiamo
potuto capire come un essere umano possa, per sofferenze fisiche, perdere la
ragione.
200
persone in un’alula.
Centinaia di
persone coperte di stracci, inzuppate, scalze, tremanti dal freddo, affamati,
stavano immobili, sedute per terra o in piedi, appoggiate alle pareti. Dovunque
volti scavati e sguardi pieni di terrore. Fuori pioveva, faceva freddo e le
finestre dovevano essere tenute chiuse. C’era un’aria irrespirabile ma non
riuscivamo a restare più di due minuti nell’inferno di quell’aula. In una di
esse ampia meno di dieci metri quadrati, vivono da martedì 16 ottobre 200
persone. E sono le più fortunate. Altre centinaia vivono in ambienti ancora più
piccoli o sono per i corridoi dove non penetra la luce ma il vento e la
pioggia.
Da dodici giorni
vivono così i profughi di Africo e Casalinovo. Non hanno materassi, non hanno
coperte, non hanno sedie, nella scuola non ci sono gabinetti, non c’è acqua
corrente, non c’è luce elettrica. 2.300 persone, in gran parte donne e bambini,
vivono da dodici giorni in questo inferno. Sulla strada non possono uscire
perché piove continuamente e fa anche più freddo. Altri sono stati ricoverati
nella sala municipale e vivono nelle stesse condizioni. Pochi sono quelli
rimasti nelle campagne intorno ad Africo sperando di poter salvare qualche capo
di bestiame che rappresenta tutta la ricchezza del paese.
Hanno
perduto tutto
Molte donne
sedute sul pavimento tenevano attaccati alle mammelle aride i figli,
nell’inutile speranza di poterli nutrire. I vecchi supini, con lo sguardo fisso
in alto, già sembravano cadaveri. In un angolo del corridoio. Presso una porta
della cui fessura penetrava furtoso il vento freddo dei monti, c’erano tredici
bambini seduti intorno alla madre, distesi su un mucchio di stracci. La donna
si lamentava sordamente, tremava, ansava e gettava intorno sguardi come per
chiedere soccorso. Stava per partorire. Ma chi poteva soccorrerla. Che cosa
potevano fare per lei le altre donne?
Un uomo ci venne
incontro con le mani tese in avanti, inciampava continuamente: ci accorgemmo
poi che era cieco. Ma quanti vecchi rasi dal tracoma non incontrammo in quel
triste edificio scolastico di Bova Superiore? L’immobilità di alcuni bambini ci
fu spiegata quando tornammo sulla strada fangosa, era paralisi infantile,
permanente.
Fuori continuava
a piovere e una nebbia densa veniva giù dai monti. Sulla strada ci fu più
facile rivolgere la parola a qualcuno. Quali soccorsi avete ricevuto? Un po' di
pastasciutta. Dove andrete? Non lo sanno, hanno perduto tutto, ad Africo non
possono più tornare. Il nome del paese può già essere cancellato dalla carta
geografica della Calabria.
RICCARDO
LONGONE
Testo e foto: L’UNITA’,
Domenica 28 ottobre 1951
domenica 10 ottobre 2021
Un medico, un uomo [di Randa Haines - 1991]
“E intanto la pioggia fitta e continua pesta sul tetto ... sui vetri ... sul suolo”. Ernesto Gliozzi il vecchio
A settanta anni
da quella tragica notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1951 non c’è stato chi
raccontasse integralmente quel dramma in un’opera letteraria, solo singole
vicende, singoli episodi legati a chi ne trattiene ancora il ricordo. A questi
ultimi si aggiunge il ricordo di quei giorni per tramite di Lisa Mittiga figlia
del dottor Giuseppino, per me, che riporto quei ricordi, zio. Il dottor Giuseppe
Epifanio Mittiga aveva 64 anni quando visse sulla sua persona il dramma di un
intero paese. Egli si laureò in Medicina e Chirurgia a Napoli nel 1912 a 25
anni. Figlio di Rocco e Caterina Fera dopo la scuola elementare a Platì fu
mandato nella città partenopea per la scuola media, successivamente si trasferì
a Gerace per compiere gli studi ginnasiali. Ritornò di nuovo a Napoli dove da
tempo risiedeva lo zio Saverio Mittiga, sacerdote e docente presso la locale Università
Teologica, autore di racconti e poesie editi nella stessa città. Presso la
Regia Università di Napoli studiò con profitto con l’illustre prof. Antonio
Cardarelli (1831 – 1927) ormai in procinto di lasciare quell’ Accademia per
raggiunti limiti d’età. Era Ufficiale Sanitario presso il Comune di Platì quando
l’alluvione si infranse sul paese. Non bisogna però pensare che quel disastro fu un fenomeno
casuale. Già da diversi giorni una fitta pioggerella cadeva incessantemente
senza che il sole apparisse, anche per pochi minuti. Alle volte si rafforzava,
alle volte diminuiva. La terra, le campagne, gli orti diventavano di giorno in
giorno impraticabili, non solo per le zappe ma anche per le scarpe e gli stivali. Molti di
quelli che abitavano in campagna cercarono rifugio presso i parenti in paese;
molti, fiduciosi rimasero nelle proprie abitazioni coloniche. La notte tra il
17 e il 18 dalla montagna verso Santa Cristina, da Arcopio e a monte di Sanello
si precipitò un torrente impetuoso che andò a colpire maggiormente la contrada
Due Valloni, il cimitero e la zona tra la fiumara Ciancio, il corso Umberto e
la via San Pasquale. Per diciannove vite la mattina del diciotto ottobre 1951
non si schiarì, centinaia erano i bisognosi di pronto soccorso. La casa del medico
Mittiga era posta all’entrata del paese. Essa con altre vicine diventò un
ospedale da campo dove il dottore ebbe modo di prestare il soccorso a chi riportò
le ferite più gravi non potendo sperare in aiuti esterni. I feriti arrivavano
adagiati sulle carriole, sulle scale fatte barelle, su lenzuola o coperte imbrattate
di sangue. Bisognò amputare o ricostruire le parti lacerate, molte teste, molte
braccia, molte gambe, molti piedi. C’era anche da soccorrere i feriti meno gravi
nelle proprie abitazioni e le partorienti, e qui il medico era assistito dalla
signora "mammina" Francesca Portolesi, moglie di don Umberto. A distanza di tempo la
figura e l’opera del dottor Giuseppino Mittiga è ricordata dai più anziani, ma specialmente per chi
lo ebbe come padre amoroso o zio affettuoso.
Hanno partecipato
Lisa Mittiga di Giuseppe e Saro Mittiga di don Agostino.
giovedì 7 ottobre 2021
mercoledì 6 ottobre 2021
Vivere ancora - Gino Paoli
VIVERE
Vivere
per non morire
sconfitto
dalle illusioni
PRIGIONIERO
Prigioniero
in una stanza
con le porte
aperte
e senza guardie.
prigioniero del
dolore
lontano dalla mamma
A Mimmo "la malinconia e il dolore
dell'assenza, in un crescendo di archi morriconiani esplosivo e straordinario".