Così come la vedete voi ora è come la vidi l’ultima volta. Aveva cento anni passati, poi... non ci fu più!
Una storia unica è la sua.
E’ stata la casa dei miei bisnonni Gliozzi, Francesco e Rosa Fera, dei nonni Gliozzi, Luigi ed Elisabetta Mittiga, dei nonni Mittiga, Rosario e Mariuzza Trimboli, degli zii Gliozzi e Mittiga; infine unendoli tutti fu la casa di papà e mamma.
Lo zio Ciccillo, la zia Rosina, la mamma, zio Ernesto, zia Gemma e lo zio Pepé nacquero qui. Qui vennero al mondo Maria, Lisa, Gianni ed io. Fu la casa anche della zia Serafina, sorella di nonno Luigi, quando ancora viveva il marito di lei, Antonio Zappia. Da qui uscirono spose la zia Rachelina, la zia Rosina e la zia Pina.
E’ stata una dimora vissuta fino alla sua decadenza. Le uniche persone che vi morirono furono dapprima la mia sorellina Lisa, di pochi giorni, e il nonno Rosario nel 1967, forse vi morì il marito della zia Serafina, ma di questo non sono sicuro.
Una cosa strana mi succede quando vado a Platì e passo per la via dove essa sorgeva: non vedo la sua sostituta bensì essa ancora com’era, grande, dai bassi bui che emanavano paura e mistero, ai solai dove venivano riposti i frutti come in un frigorifero; alle stanze dello zio Peppino e di Saro e quella parte dove c’erano il focolare ed il forno a legna. Prima di arrivare in questa parte, in un mezzanino sorgeva una loggetta che dava nel giardino degli Zappia, e da dove si poteva alzare lo sguardo verso il campanile della chiesa “du ritu”, vi esisteva anche, incassato nella parete, un gabinetto d’emergenza.
Ancora al piano basso esisteva la mescita del vino appartenuta al nonno Luigi e la dispensa dell’olio; al livello stradale sorgevano la calzoleria dello zio Peppino e la “bottega di generi alimentari e diversi” come recitava il timbro delle attività li svolte. Alle spalle di quest’ultima c’era una parte bassa con attaccata una che portava al livello stradale, nella prima vi scorreva la mastra e nell’altra c’era il gallinaio; fuori, nei limiti con gli Zappia, vi era pure una pergola di uva fragolina.
Come in una panoramica in technicolor e techniscope alla sua sinistra c'era attaccata la casa di zia Annina, con a piano terra l'ufficio del dazio, successivamente la casa Zappia-Galatti e oltrepassando corso Umberto il bar di papà. Di fronte ad esso, sulla via XXIV maggio, c'era l'ufficio postale e risuperando il corso la casa della signora Fera, quindi un casalino, luogo di invenzioni ludiche; dopo la scalinata che portava al municipio c'era la casa di Raimondo con affiancata quella di don Umberto Romeo e più avanti quella di mastru Cicciu u cruciatu, al secolo Schimizzi, di fronte, oltrepassando la via XXIV maggio, la casa du bumbiu e tornado verso casa mia la falegnameria di lignuduru, più oltre una discesa con il panificio carrarmatu, il bar di Dante De Maio, quindi la Casa. Questo che vi ho circoscritto era il perimetro dei giochi che non bisognava oltrepassare e incorrere nelle sanzioni paterne.
Davanti la casa vi passavano le greggi portate al pascolo, le processioni ed obbligatoriamente i morti che venivano portati al cimitero. Ero nella bottega chiusa, che giocavo per terra, con il nonno Rosario che rispondeva alle mie domande su quel mistero come la morte, mentre fuori passava il carro funebre trainato dai cavalli, un rumore assordante e sinistro di zoccoli e ruote, come nei western leoniani, e, dentro la bara, lo zio Michele, fratello di nonna Lisa.
E’ destino delle case essere sostituite da altre nuove, un destino che arriverà per l’altra casa, adesso silenziosa, dove neanche lo squillo del telefono, alle mie chiamate dei primi tempi del suo abbandono per alimentarvi ancora qualche tremito di vita, potrà scuoterla, anch'esso rimosso.
Scusatemi, ma tutte queste foto e parole la casa se le meritava.