Paolo di Tarso
Un ferale corteo percorreva un giorno – schiamazzante – le popolate vie
di Gerusalemme: S’andava a lapidare un bestemmiatore fanatico. Era un giovine
pallido, di nome Stefano, buono come il pane, solo reo confesso di appartenere
a l’odiata setta dei cristiani – dicevano.
Non per questo, un’olimpica serenità gli risplendeva sul volto;
camminava, o meglio veniva trascinato da cento braccia fuori le mura, ma egli –
mite come il suo Maestro – non metteva fuori un lamento, una lacrima, una
maledizione, tutt’altro.
Un giovine vigoroso – da l’ampia fronte pensosa – veniva anch’esso al
luogo de la condanna, una vasta pianura di là del Cedron, arida e
biancheggiante d’ossame. Ivi giunti, il Martire piegò in un istante sotto la
tempesta di sassi, sanguinolento e pallido. Pareva un fior primaverile colpito
da la grandine fitta.
Il giovine vigoroso che lo seguiva rispondeva al nome di Saulo.
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Da lontano s’udiva la pesta d’un cavallo rampante sulla via di Damasco.
Un cavaliere in fretta marciava, con pieni poteri, a la cattura dei cristiani,
e questo cavaliere era Saulo.
Il Libano vicino, intanto, ammantato di sole, rispondeva a quei passi
ed i cedri eterni, da le verdi chiome incurvate, stavano immoti aspettando –
quasi che lo sapessero –un’istantanea mutazione di scena. Ed ecco, d’un tratto,
cavallo e cavaliere precipitati per terra mentre che un’onda di luce
soprannaturale l’investe. (Il sole, in quel momento, pareva avesse
riconcentrato i suoi raggi tutti sul capo del caduto). Si volta, si poggia sul
fianco il cavaliere ed una voce soave lo scuote, l’affascina, l’attrae: Saulo –
gli dice – Saulo, perché mi perseguiti? Un momento dopo un cieco brancolava su
la via di Damasco …
Dal Libano vicino, intanto, i cedri eterni – da le verdi chiome
incurvate – mandavano confusi mormori ed i ruscelli limpidi dicevano: “Sorgi, o
campione de la Croce, sorgi ad illuminare la terra”. Paolo di Tarso si scosse,
si strinse al petto i panni insanguinati e disse: Sul Campidoglio i vecchi numi
tremano vi pianteremo la Croce.
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E s’incamminò per conquistare la terra col valore sicuro d’un paladino,
passando su le rovine d’un mondo defunto ed aprendo le porte de la nuova Idea
per cui il Biondo Nazareno era morto. I popoli d’Asia Minore e de la Magna
Grecia lo videro passare, quell’ de l’Arcipelago e de la Palestina si voltarono
per benedirlo, mentre Egli –l’Apostolo – continuava sereno la marcia trionfale
verso il Campidoglio, sul domicilio inaccessibile di Giove Statuo.
Noi lo vediamo, infatti ne la grande metropoli della corruzione
sconvolgere con la sua parola dinamica tutto un mondo invecchiato dal sozzo
epicureismo regnante ed impiantarvi un nuovo ordine d’affetti ed Idee,
intieramente diverse da le vecchie teorie – cancrena de l’Urbe e de l’intiero universo.
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Ne cimiteri, ne l’arenaie, ne le grotte; ovunque un sentimento di pace
e di raccoglimento raduna i trepidi adoratori del Nazareno, un uomo comparisce
ed ha la fronte solcata dal dolore, con le vesti lacere e da la barba incolta.
Esso parla. Un silenzio occupa le moltitudini, le sue parole cadono come lingue
di fuoco sui devoti ascoltanti, un gemito rompe ora il silenzio, un grido
poscia s’eleva, seguito tosto da un coro di voci dicente “Vogliamo presto
vederlo – Cristo. Noi vogliamo vederlo”.
E l’Apostolo, commosso, esortò tutti al martirio, al sacrificio cruento
d’ognuno de la propria esistenza, a la sublime testimonianza ultima di fede
dinanzi al tiranno. La commozione si rende generale. Molti neofiti vengono battezzati,
si distribuisce il pane dei forti e l’Apostolo esce.
Una sera invano fu atteso. Si seppe il giorno dopo che Paolo di Tarso
era stato calato nel Tulliano e molti piansero.
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Reduce Nerone dai ripetuti e splendidi trionfi di Grecia intese come ne
l’orrida prigione di Catilina un vecchio ed ostinato cristiano oprava ancora de
le conversioni ed in persona da gli stessi suoi pretoriani. - Oh vada a morir
decapitato costui fuori de le mura – aveva urlato la Belva – e non sia l’ultimo
… Quel giorno, infatti, un vecchietto da la lunga barba ed incolta, curvo sotto
il peso de la fatica e de gli anni, veniva condotto da gli sgherri, fuori di
Roma, in un campo presso una palude, detto le Acque salvie, in quei luoghi la
testa del vecchietto fu spiccata dal busto e rotolò su l’erba umida che furon
bagnate di sangue. Quel sangue fu lavato da tre fontane, miracolosamente
spuntate.
Oggi il pellegrino ci sa dire benissimo come sul Campidoglio abbia
veduto una Croce, ed accanto a quella Croce due venerande figure. L’una
slanciata, calva appoggiata ad un ferrato bastone di pellegrino; e l’altra
corta e robusta, con una spada nel pugno: Sono le formidabili figure de gli
Apostoli Pietro di Galilea e Paolo di Tarso, veglianti per la salute de la
Sposa di Cristo.
Ernesto Gliozzi Fera
Nota. E' un piacere, per me, incollare sul testo di Ernesto Gliozzi il vecchio - allora Gliozzi Fera, siamo nella prima-seconda decade del novecento, niente di che lo ammetto,un panegirico superato - il film di Gianni Toti del 1974. Film, mai più rivisto, difficile da accettare e digerire per via dello sperimentalismo estremo sebbene affascinante, che gli autori, tanto premiati oggi nei festiva, neanche ragguagliano. Paolo è oggi un nome quasi dimenticato all'anagrafe platiota, un tempo veniva esso-spesso incollato sui nuovi arrivati al mondo e l'icona che ancora si venera nel duomo di Platì faceva sognare, per via della spada, ai piccoli mirabolanti avventure da vedere nell'annesso cinema.
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