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lunedì 10 gennaio 2022

La costa del sole [di John Sayles - 2002]

SI ESTENDEVA DAL FIUME HOLEX A CAULON
L'antica regione della Locride
Oggi costituisce una delle zone più depresse della Calabria, malgrado
che un tempo sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà
 
La regione della locride si estendeva dal fiume Holex (attuale Amendolea), che segnava il confine del territorio reggino da quello locrese, al territorio di Caulon, nei pressi dell'attuale Marina di Monasterace, occupando quasi tutta la fascia litoranea dell'attuale provincia di Reggio Calabria bagnata dal glauco Jonio.
Una leggenda vuole che le cicale sulla sponda sinistra dell'Holex, in territorio locrese, fossero canore, mentre sulla sponda destra, in territorio reggino, fossero mute. Si spiegava il curioso episodio col fatto che Ercole, giunto esausto sulla sponda destra del fiume e non potendo prender sonno perché disturbato dal canto delle cicale, pregò ed ottenne da Giove che divenissero mute. Un'altra versione attribuisce alla maledizione lanciata da S. Paolo l'afonia delle cicale del territorio reggino, perché disturbato dal loro canto mentre predicava.
In vicinanza dello stesso fiume era Peripoli, colonia locrese messa a guardia del confine, non lontana dall'attuale Melito Portosalvo, cara alla storia del Risorgimento per il leggendario sbarco di Garibaldi nel 1860 e per quello del 1862, che ebbe per doloroso epilogo lo scontro fratricida di Aspromonte. Vi è ancora sotto le acque della rada di Melito la carinea del piroscafo «Torino» affondato dalle cannonate delle navi borboniche «Aquila» e «Fulminante», le quali inutilmente tentarono di ostacolare lo sbarco del 1860 e il corso della nuova storia.
Nei pressi di Melito, l'attenzione è attratta dalla caratteristica roccia di Pentidattilo, fantasiosamente illustrata in copertina da Sìmbari, una roccia gigantesca che si staglia nel cielo, a 400 metri di altezza, come una colossale mano dalle dita aperte, alla base del quale sono abbarbicati i ruderi di un vecchio castello medioevale, che ricorda le tragiche lotte tra le famiglie Alberti ed Abenavoli.
Lungo la linea ferroviaria Reggio-Catanzaro, che corre parallela alla statale 106 e vicinissima al mare, si allineano numerosi i nuovi paesi, lindi e civettuoli, scesi dalla marina alle colline retrostanti, attratti dalle nuove esigenze e dai nuovi mezzi del progresso umano.
Il capo Bruzzano (Zephyrlum promontonum), che si prolunga nel mare descrivendo un ampio arco con l'altra estremità di punta Stilo, ci ricorda lo sbarco in questa località dei primi coloni e la loro primitiva sede, prima di prendere dimora definitiva sul monte Epopis e fondare, nel VII secolo a. C, la città di Locri.
In alto, a circa 20 Km. a nord del capo Bruzzano, quasi al centro dell'ampio golfo, si erge maestosa l'amba conchiglifera sulla quale è ubicata Gerace, dominatrice delle ampie vallate dei fiumi Novito e S. Paolo. Vero baluardo naturale, Gerace, difesa a monte dal munitissimo castello, i cui resti testimoniano le vicende bizantine e normanne della gloriosa città, deve il suo nome alla voce greca «ieròs», sacro (città santa) o, secondo altri, a «ièrax», sparviero. Infatti, uno sparviero, o meglio un'aquila ad ali spiegate, è lo stemma del Comune. Vuole la leggenda che i profughi locresi, guidati dal volo di uno sparviero, si rifugiassero sulla rupe inaccessibile per sfuggire alle continue invasioni e razzie dei Saraceni. Quantunque in posizione ritenuta inespugnabile, venne tuttavia saccheggiata più volte dai Saraceni che, nel 952, inflissero ai Bizantini una grave sconfitta. La città conserva tuttora la struttura di una munita fortezza bizantina dell'alto medioevo e vi si accede ancora attraverso le porte del Borghetto e delle Bambarde per le strade irte e selciate, ai cui lati sono allineati vecchi palazzi, alcuni con bifore. La Basilica-Cattedrale stessa, vista dalla parte esterna delle tre absidi, ha il severo aspetto di una fortezza e le strette e lunghe finestre gotiche somigliano a vere e proprie feritoie.
Questa costruzione chiesastica - la più grande della regione - ha la forma di un vasto rettangolo di circa metri 26x75, con l'altezza alla cupola di circa m. 25 e con un dislivello esterno a est di circa m. 6, dove è situata l'ampia cripta. L'inizio della costruzione si fa risalire ai primi decenni del secolo, mentre è sicura la data della sua consacrazione, 1045, come si rileva da una targa in piombo incastrata nella terza colonna in «corno Evangeli», esistente al tempo del vescovo Pasqua. Tra le costruzioni coeve occupa un posto importantissimo l'icnografia della basilica latina a tre navate, divisa da venti colonne greche di marmo scanalate o lisce, sormontati da capitelli di vario stile e da archi falcati in tufo; la presenza del transetto sporgente triabsidato e della cupola; la cripta suddivisa da 24 colonne di granito, provenienti, come quelle delle navate, dai templi della vicina Locri, sono elementi efficaci a dimostrare l'ardita e vasta concezione architettonica dell'opera, ideata e portata a termine da esperti architetti.
L'insigne archeologo Paolo Orsi, al quale tanto deve la nostra terra per le sue importanti scoperte archeologiche, la definì «la più importante e grandiosa costruzione della Calabria, il più sontuoso monumento della regione».
Nei recenti restauri e scavi nella cripta (1955), si è rinvenuta, tra l'altro, una primitiva sacra mensa e si è riscontrato che la costruzione dell'XI sec. è sorta con un preesistente complesso edilizio dei secoli VII e VIII.
Nei pressi della Basilica-Cattedrale sorge, più in alto, il castello (m. 480), costruito sulla viva roccia, tagliato particolarmente tutt'intorno per renderlo inaccessibile da tutti i lati. Un profondo fossato verso il lato est lo divideva dalla città alla quale era unito solo attraverso il ponte levatoio. Dalla sommità del castello, l'occhio spazia sul mare da capo Bruzzano a punta Stilo, dalle ampie vallate circostanti ai pianori della Milea, alle giogaie dell'Aspromonte.
In questo castello, ormai in gran parte distrutto, sotto la dominazione normanna, nella sala di Mileto, pare sia avvenuta la pacificazione tra il conte Ruggero e suo fratello Roberto.
Altri tesori d'arte contiene la vetusta città: la chiesa di San Francesco, in completo abbandono e quasi distrutta, in stile romanico - gotico, del 1252 dal bel portale ogivale a costoloni, con decorazioni di carattere arabo-normanno, e la piccola chiesa di S. Giovannello, dalle caratteristiche forme (abside semicircolare).
Gerace ebbe, nel passato, grande importanza politica, militare e religiosa, e durante la dominazione borbonica fu capoluogo del distretto e sede di tutti gli uffici. Nel 1847 ebbe luogo nel suo distretto l’insurrezione liberale, coordinata con i moti di Reggio e Messina; ma, fallito il moto, dopo sommario processo, nella sottostante piana della città, il 2 ottobre 1847, vennero fucilati: Michele Bello, Pietro Mazzoni, Domenico Salvatori, Gaetano Ruffo e Rocco Verduci, antesignani del Risorgimento della patria.
Ai piedi della rocca geracese appare, adagiata come in un sonno di secoli, la pianura, verdeggiante di ulivi e di pampini di vite, e le colline della Mannella, Abbadessa, Janchini e Patarriti, sulle quali sono vivi e parlanti gli avanzi di una città dalle tradizioni gloriose e millenarie, che dette al mondo occidentale il primo codice di leggi scritte: Locri.
Da Locri si scorge il caratteristico castello di Roccella con torre di vedetta, armato con artiglierie e caposaldo di resistenza nell'ultima guerra mondiale; sia la torre, però, che il castello sono in pessime condizioni di staticità e quasi distrutti. Il castello subì vari assedi da parte dei Saraceni, il cui capo, Dragut, invano lo assali, rinunziando all'impresa quando ebbe colpite diverse navi dalle colubrine del castello.
Chiude l'ampio golfo l'estremità di Punta Stilo (il Concyntum promontorium degli antichi), sotto il cui faro sono visibili i resti di tempio dorico.
In alto, alle spalle del Faro, sulla vasta e brulla montagna del Consolino, sorge abbarbicata alla roccia la storica cittadina di Stilo, della quale l’insigne archeologo Paolo Orsi scrisse: «Stilo, annidata sulle rocciose pendici del monte Consolino, sbarrando la pittoresca e storica vallata sottostante, che poi si serra e sale erta e rapida alla regione centrale e appenninica, selvaggia e ricca di selve secolari, Stilo così piena di ricordi bizantini e normanni e patria del fiero e turbolento monaco Tommaso Campanella, che nel secolo XVII con le sue ardite teorie politiche e sociali mise a soqquadro il Mezzogiorno, è tutta dominata da questa piccola gemma dell'arte bizantina - la Cattolica - incastonata su un brevissimo risalto dell'Aspromonte. Ed è oggi entro la piccola città l'unico e prezioso avanzo superstite della bizantinìtà, che altri e certo pregevoli monumenti sono tutti scomparsi, travolti dalle tristi vicende, che per quasi un millennio attraversò Stilo, ultimo il sacco e l'incendio perpetrato dai Francesi nel 1804».
La Cattolica, bellissima piccola chiesa bizantina dalle linee caratteristiche orientali, vero gioiello d'arte pervenuto fino a noi quasi intatto, riproduce un tipo di chiese spesso ripetute in Georgia, in Armenia e nel Peloponneso. Costruita sopra un limitato ed angusto ripiano del monte, domina la città di Stilo; è una costruzione quadrata sormontata da cinque basse cupole con tre absidette volte ad oriente. L'interno, di appena sei metri di lato, è diviso da quattro colonne in tre piccole navate o nove quadrati uguali: le colonne, due di cipollino, una di granito ed una di marmo bianco, provengono da templi antichi e sono dotate di capitelli diversi. Importantissima la prima colonna a destra, sulla quale è scolpita una greca iscrizione, che tradotta, dice: «Dio è il Signore apparso a noi».Paolo Orsi, che vivamente si interessò per i restauri, efficacemente coadiuvato dai mezzi finanziari concessi dalla sensibilità della Regina Margherita, la definisce «...insigne monumento bizantino, il più bello, il più completo della Calabria; malgrado la sua piccola mole, anzi appunto per essa in particolare, desta l'ammirazione degli studiosi».
La plaga descritta, che è tutta la costa jonica della provincia, è una delle contrade più depresse della regione calabrese, malgrado che nell'antichità sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà.
Deleteria azione degli agenti atmosferici e tellurici, incuria di uomini, hanno trasformato gran parte di questa terra in brulle colline argillose e in aridi terreni. Solo nella fascia costiera, dove la tenacia dell'uomo ha conteso palmo a palmo l'humus all'avverso destino, la terra è coltivata ad ulivi ed agrumi.
Con l'avversità degli elementi e la incomprensione dell'uomo fanno stridente contrasto le bellezze naturali della regione: i panorami paradisiaci, il cielo di cobalto, i purpurei tramonti, la tradizionale ospitale cortesia del calabrese, il profumo della zagara che si sposa a quello del gelsomino, la mitezza del clima, rendono la nostra terra un giardino sempre fiorito.
U. Sorace Marasca
Gazzetta del sud 17 gennaio 1956


In apertura l'ingresso della prigione dei cinque martiri di Gerace

martedì 4 gennaio 2022

Una raffica di piombo [di Paolo Heusch - 1965]

PLATI’ - In contrada «ALATI» la neve ha raggiunto gli 80 centimetri di neve

GAZZETTA DEL SUD 12 gennaio 1956


Incredibile fortuna
di un cacciatore a Platì
Platì, 16 gennaio
(M. F.) - La caccia ai tordi ha assunto, nelle nostre zone, sviluppi imprevisti: migliaia e migliaia di questi volatili, cadono sotto il piombo dei cacciatori.
Incredibile successo ha avuto un metodo sperimentato ieri l'altro da un cacciatore nostro concittadino; questi, avendo notato come
le «Marvizze » volano a stormi compatti, ha caricato il fucile con cartucce pesanti, usate di solito per la caccia alla volpe: sparando sugli stormi ha uccìso con cinque colpi, ben sessantacinque bestiole.
Non è il numero che fa impressione, perché dato l'andamento della caccia di quest'anno, ogni cacciatore che si rispetti, non torna casa se non ha nel carniere almeno una cinquantina di tordi; ma è impressionante il fatto che il suddetto cacciatore abbia potuto con un sol colpo fare cadere dieci quindici tordi per volta.
A detta dei cacciatori anziani, un fatto simile non si era ancora verificato nel nostri paraggi; solo una volta, nel 1939, un cacciatore sparò con un sol colpo sei beccacce; ma i maligni dicono che una sola di queste bestie fu colpite, mentre le altre
morirono per sincope cardiaca. provocata dalla paura ...
Riferendosi a questo fatto, celebre negli annali della caccia platiese, non vogliamo insinuare nulla; ciononostante, non escludiamo
che se si facesse l'autopsia a tutte le vittime del fortunato cacciatore di questi giorni, si scoprirebbe che almeno una di esse è morta per la paura!!...
GAZZETTA DEL SUD 17 gennaio 1956

Foto e testi di Michele Fera







sabato 1 gennaio 2022

La vita semplice [di Francesco De Robertis - 1945]



In tutta semplicità come è stata la sua vita
ci ha lasciati con tutta la sua memoria
CARLETTO ZAPPIA
di Pasquale e Caterina Lentini
25 novembre 1928 - 1 gennaio 2022
queste pagine e I LOVE PLATI'
a lui devono molto



giovedì 30 dicembre 2021

Un mondo a parte [di Chris Menges - 1988]

C’era una volta Platì/C’era una volta in Platì! Dentro questi titoli rubati al Maestro dei Maestri si può incorniciare la “Vita di Platì”. Quella che viene fuori dalla trascrizione dei Catasti Onciari del 1746 e del successivo del 1754. In quelle pagine Platì non è mai riconosciuto ancora come paese ma di volta in volta come: Terra, Tenimento, Curia, Unità, Università e, molto più spesso, Motta. Come già altrove divulgato per Mocta, Motta, si intende un rialzo di terreno. I due Catasti non sono molto dissimili nella loro forma, sono differenti nel contenuto finale. Per ora e per non annoiare riportiamo la “Vita di Platì” del 1754 e con gli occhi e la penna di Don Tolentino Oliva parroco, cui fu devoluto l’incarico di registrare lo Stato delle Anime. Erano 220 Fuochi. Per Fuoco o focatico si intendevano le singole unità familiari comprendenti le persone soggette al pagamento delle imposte. I 220 fuochi erano comprensivi di 901 Anime: 462 donne, 439 maschi, 5 adolescenti erano chierici, 7 i sacerdoti. Tra le donne vi erano 34 vedove e due in capillis. Con “virgines in capillis” si definivano le giovani nubili che “per segno di illibatezza dovevano portare i capelli raccolti e non scioglierli che il giorno delle nozze”. Altri Tempi! La vita media in Platì si aggirava intorno ai 50 anni di età: Nicola Barbaro 90 e Filippo Cusenza 95 erano i più longevi. I ceppi più numerosi erano Agresta, Barbaro, Carbone, Cusenza, Catanzariti, Italiano/Taliano, Perri/e, Portulisi, Sergi, Trimboli, Virgara, il cognome più insolito è Zinnamusca. L’oligarchia che dominava era quella degli Oliva ma c’erano anche Zappia al timone di comando. “Magnifico” era l’appellativo che precedeva quegli Oliva e Zappia. “Magnifico” era Marzio Perre/i ed anche Francesco Musitano il Cancelliere che siglava gli atti. Tra le donne i nomi più diffusi erano quelli di Domenica ed Elisabetta/Lisabetta, tra gli uomini Antonio, Domenico, Francesco e Giuseppe. Lo Stato delle Anime del 1754 era comprensivo dei soli nativi, mentre in quello del 1746 erano stati inclusi anche i forastieri. Quella che ne esce è una ripresa grandangolare, il campo verrà ristretto solo zoomando le “rileve” fatte dai singoli cittadini e non ci sarà distinzione tra nativi e forastieri.

Nella foto d'apertura il dottor Giuseppino Mittiga

 

venerdì 24 dicembre 2021

Oratorio di Natale [di Kjell-Åke Andersson - 1997]


Silvana Trimboli, Veni Natali, 2021
Antonio Vivaldi (1678-1741), Gloria RV "Et in terra pax hominibus", Largo
 



mercoledì 22 dicembre 2021

Never Ending Story [di Wolfgang Petersen - 1984]

La storia di Platì è ancora tutta da scrivere.
Etimologicamente il nome Platì, sarebbe da far risalire al termine prata (prati). Altri, invece, lo ritengono riconducibile alla voce greca-bizantina platus (ampio). Il riferimento, in questo secondo caso, va alle frequentazioni dei monaci basiliani che tanta importanza ebbero in questa parte dell’Aspromonte. Altri ancora ritengono che il toponimo andasse collegato al termine pratos, ossia “venduto” (alludendo ai passaggi feudali), e alle successive alterazioni in protì e, poi, pratì.   
La nascita dell’abitato di Platì si crede collocabile nel XVI secolo, in concomitanza dello spostamento di uomini dai centri più arroccati, con scarsa possibilità di espansione, verso valle. Concausa di questo esodo pare fosse la pratica, invisa al popolo, del fiscalismo senza scrupoli che danneggiava proprio i ceti più deboli spingendoli lontano dall’influenza dei feudatari. 
Si ha notizia di alcune foreste date, nel 1496, dal re Federico d’Arag0na a Tommaso Marullo, barone di Bianco e conte di Condojanni. Quelle terre furono rivendute, nel 1507, allo stesso conte Marullo da Ferdinando il Cattolico.     
Tra quei possedimenti ricadevano, però, alcune terre “nominatum de Plati at de Sancta Barbara” che erano state vendute precedentemente (nel 1505) a Carlo Spinelli sempre dal re. Iniziò a questo punto una complicata controversia sulle spettanze territoriali che durò per anni. A derimere la lite tra gli Spinelli e i Marullo ci pensò un intervento regio che assegnò la proprietà di Platì agli Spinelli i quali decisero di farne un centro agricolo. Il feudo rimase nelle loro disponibilità fino all’eversione della feudalità (1806).
Il terremoto del 1783 colpi duramente Platì, cosi come molti altri paesi della Calabria, provocando 25 vittime e danni ingenti.     
 Con l’ordinamento amministrativo del generale Championet, nel 1799 Platì divenne autonoma rientrando nel cantone di Roccella. I Francesi, nel 1807, ne fecero un’università compresa nel governo di Ardore.      
Elevata a comune, le vennero in seguito assegnate le frazioni di Cirella e Natile (quest’ultima oggi è frazione di Careri). Nella prima metà dell’Ottocento venne chiamata Mottaplati e soltanto alla fine di quel secolo riconquistò l’antico nome.
Terminata l’occupazione francese, gli Spinelli decisero di vendere i loro cospicui possedimenti. I nuovi proprietari terrieri arrivarono da Napoli. Questi edificarono grandi palazzi lungo la via San Nicola sottoponendo, però, il popolo a ogni sorta di angheria. 
Dopo l’Unità d’Italia, Platì fu al centro di un duro scontro, generato dall’insoddisfazione del popolo continuamente vessato dai ricchi proprietari. La sollevazione fu capeggiata da Ferdinando Mittiga, un ex sergente borbonico che si fece aiutare nell’impresa dal generale spagnolo don Jose Borjes. Circondata Platì, la battaglia durò per ore. Alla fine, pere, ebbero la meglio i bersaglieri e gli uomini delle Guardie Nazionali Civiche intervenuti. La repressione fu dura e provocò molti morti. Mittiga, rifugiatosi sui monti, fu tradito e ucciso in un mulino nei pressi di Natile Vecchio.
Nel 1908 un altro devastante sisma colpi Platì, distruggendo gran parte del paese. Fu l’inizio dell’emigrazione verso l’America che registrerà la sua punta massima negli anni Cinquanta.
Nel 1951 una paurosa alluvione (ce ne saranno altre nel ’53 e nel ’58) provocò pericolosi movimenti franosi che portarono gravi conseguenze alla viabilità.
La chiesa parrocchiale fu edifica verso ii 1550, ed era governata da economi, mantenuti dall’università. Fu elevata a parrocchia nei 1704, e primo parroco fu il Sac. Francesco Perre; il Sac. Stefano Oliva, fu nominato primo Arciprete dal Vescovo Scappa l’8 marzo 1774 in tempo di S. Visita.       
La chiesa era situata nel primo rione abitato.
Nel 1783 fu totalmente distrutta dal terremoto e dopo alcun tempo fu riedificata sul posto stesso dove oggi è piantata, perché più centrale e più stabile per la natura del terreno. 
La chiesa parrocchiale, rimasta vacante ii 5 dicembre 1817 per morte dell’investito, finalmente, eliminate le cause che avevano determinate il provvedimento, fu provveduta nella persona del Sac. Francesco Oliva.        
Per lo stato indecente in cui, era   stata lasciata la chiesa, fu restaurata dopo il terremoto del 1894 a spese e cooperazione del Cav. Uff. Francesco Oliva fu Arcangelo. Trenta anni dopo la cappella della titolare fu restaurata dalla generosità del Cav.  Michele Oliva, e nel 1926, dalla pia signora Maria Lentini vedova Filippo Oliva, fu decorata la navata di S. Francesco.
In Platì, oltre alla chiesa parrocchiale, vi è quella di S. Pasquale, che è stata eretta dai fedeli nel 1720. Vi era inoltre la cappellania dell’Immacolata, i cui beni, anch’essi furono aggregati alla parrocchia.
Nella chiesa di S. Pasquale l’1 giugno 1888, fu eretta la confraternita del Santo Rosario, il cui statuto fu approvato dal Vescovo Mangeruva nello stesso anno, e, per volontà del popolo la chiesa pigliò il titolo di Maria SS. del Rosario. Tale chiesa fu riparata nel 1924 e nel 1926, con l’obolo dei fedeli per iniziativa della Confraternita.             
Il terremoto del 1908 quasi distrusse la chiesa parrocchiale.
La costruzione del1’attuale chiesa venne iniziata nel 1944, con molto entusiasmo dell’Arciprete Mons. Giuseppe Minniti e con la collaborazione attivissima di tutta la popolazione.     
La costruzione andò avanti in tal modo, fino verso il 1952, quando fu emanata la Legge n. 2522 del 19-12-1952, che diede modo di avere contributo dello Stato.      
Emanuele Maggioni e Lino Tagliani, Padri Missionari della Consolata

Testo e foto, Dedicazione della Chiesa “Santa Maria di Loreto” in Platì, 2006
 

domenica 19 dicembre 2021

La festa perduta [di Piergiuseppe Murgia - 1981]



A Platì
Platì, 25 nov.
(M. F.) In modo particolarmente solenne si e svolta quest’anno a Platì la festa degli alberi. Alla cerimonia svoltasi nelle ore antimeridiane, erano presenti le autorità cittadine e gli insegnanti elementari accompagnati dalle rispettive classi. Non mancavano rappresentanti di tutti gli strati della popolazione.
Oratore ufficiale è stato il prof. Giuseppe Gelonesi, che in un breve, commosso discorso ha ricordato all’uditorio quale enorme importanza rivesta per Platì il rimboschimento delle montagne straziate dalle alluvioni.
Unica risorsa, infatti, per la sicurezza del nostro paese sono gli alberi: che fortificano con le loro radici e arrestano il corso delle frane ovviando in tal modo, alla incuria dimostrata finora dai vari governi per la terra calabrese.
La coreografia era stupenda: Su un lunghissimo tratto della statale 112, si stendevano infatti le file composte degli scolari che alla fine del discorso riprendevano la via, sotto l’attenta guida degli insegnanti, cantando inni patriottici, seguiti dal numerosissimo pubblico
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 26 novembre 1954


La foto d'apertuta con il Maestro Peppino Gelonesi appartiene a Teresa Mittiga che ringrazio per averla pubblicata. Posso riconoscere solo Pasqualino Violi, Nicola Barbaro, Mimmo Riganò, Duccio e Saro che non perdeva occasione per smentirsi. I ragazzi della foto sono cresciuti e gli alberi tagliati.



 

giovedì 16 dicembre 2021

Mare lento [di Michele D'Ignazio - 2009]

Studiare non è un atto di consumare idee, ma di crearle e ricrearlePaulo Freire (1921 – 1997)

… questi giovani hanno avuto occasione di pensare, di confrontarsi. Soli e insieme. Danilo Dolci (1924 – 1997)

Facendo ricerche su Danilo Dolci Mr. Google mi ha condotto verso questo video intitolato Mare Lento di Michele D’Ignazio. Il titolo è spiegato verso la fine del lavoro con una didascalia su sfondo nero: “Nel linguaggio dei nativi americani, la parola “insegnante” non esiste. È la vita che insegna: sono le circostanze, come il susseguirsi delle onde, in un unico grande mare”. Anche la citazione di Danilo Dolci è contenuta nel video in questione. Quella di Paulo Freire invece proviene da un lavoro più sostanzioso già apparso su queste pagine: La Educacion Prohibida*. Paulo Freire è stato un educatore brasiliano che molto ha in comune con il nostro Danilo Dolci. Mare Lento, del 2009, ritrae la vita e il percorso educativo di una classe del Liceo Classico “Vincenzo Gerace” di Cittanova. I ragazzi ad un anno dalla maturità erano guidati dal professor Fabio Cuzzola(1). Proprio nel lavoro del professor Cuzzola e nelle impressioni dei suoi allievi è la parte più interessante del video: “Ho scelto l’insegnamento come possibilità lavorativa per restare al sud, in Calabria, poi via via una scelta lavorativa è diventata una passione, la migliore delle esperienze attraverso la quale si può coniugare la possibilità di restare in questa terra e di poterla cambiare anche restandovi”. Da parte loro gli allievi vanno esprimendo le loro impressioni sulla scuola e sui loro docenti: “… non è questione se sono bravi o se sono capaci … sono attaccati ai punteggi, ai concorsi, alle graduatorie … alla 104”. Essi hanno anche un futuro incerto che li aspetta ed alcuni di loro già pensano di affrontarlo con l’emigrare al Nord. Nel frattempo grazie alla professionalità del professor Cuzzola, che non disdegna il teatro o le conferenze, i ragazzi sono indotti a pensare con la loro testa: Danilo Dolci usava la maieutica con i braccianti e i “banditi” di Partinico. Noi di Platì abbiamo avuto Pasqualino Perri come educatore e l’abbiamo sprecato come sprechiamo tante risorse che dal paese derivano. I docenti della locride pensano anch’essi alla 104? 

E i domani verranno anche se oggi non par vero. Danilo Dolci

(1) Fabio Cuzzola, classe 1970, è anche autore di Cinque anarchici del Sud. Una storia negata (Città del Sole Edizioni, 2001) e REGGIO 1970: Storie e memorie della rivolta (Donzelli, 2007). 

* https://iloveplati.blogspot.com/2020/12/la-educacion-prohibida-di-german-doin.html

domenica 12 dicembre 2021

Fiori nel fango [di Douglas Sirk - 1949]


 Cani di quagghjia, fa cani di caccia quagghjia,
la vurpi, li vurpigghji quandu figghjia;
viristi mai na cerza fari ‘a fagghjia*
e ra cinniri fari ‘a canigghjia;
Viristi mai nta giugnu nivicari
e supra ‘u mari u quagghjia ‘a nivi?
Cu voli u viri i chisti maravigghji
mu nesci jocu avanti ‘a cresiola
ca trova cani, lupi e vurpigghi
chi cu pecuri e gajini fannu scola.
 
fagghjia è il fiore del faggio, fagu

Anonimo platiese, contemporaneo



mercoledì 8 dicembre 2021

Desiderio di re [di Josef von Sternberg - 1936]


Platì 1753, regnante Carolus Dei Gratia Rex utriusque Siciliae, Hyerusalem, &c Infans Hispaniarum, Parmae, Placentiae et Castri &c. Ac Magnus Princeps Hereditarius Etruriae.
 Questa è una storia vera.
In quel tempo Platì era definito una Mocta, Motta: secondo la Treccani per "motta" si intende un rialzo di terreno. A questo punto è lecito domandarsi dove effettivamente sorgeva quell’agglomerato di fuochi, per molti era laddove oggi è sita l’Ariella, alla destra del Ciancio, sulla via che conduceva a Xstina come era chiamata in quel tempo l’attuale Santa Cristina d’Aspromonte. Se Carlo III di Borbone (Dio Guardi) regnava, il padrone effettivo, il Signore Feudale, era il Principe di Cariati, nella persona di Scipione III, 6° Principe, Duca di Seminara, Conte di Santa Cristina, Signore di Palmi. A lui l’istorosofo  dottor Vincenzo Papalia dedicò un’ode non troppo benevola, già apparsa su queste pagine: per questa pubblicazione né il dottore né io siamo stati ancora tacciati (taggati) di miscredito o strumentalizzazione. Se Carlo regnava e Scipione spadroneggiava, la casata Oliva li rappresentava. Nel 1753 era Sindaco di Platì Giuseppe Oliva per l’appunto. In quell’anno “riflettendo sempre più la Real mente della Maestà del Re il Supremo che Dio sempre conservi il sollievo de’ suoi fedelissi Vassalli, ha stimato sempre più necessario” la formazione del “General Catasto”. Tale compito ricadde sulle spalle, si fa per dire, di Don Giuseppe Oliva, sindaco, e Don Francesco Musitani Cancelliere. Primi collaboratori erano Domenico Lentini e Paolo Michea. A loro successivamente furono aggregati Don Francesco Perre, sacerdote, quale rappresentante ecclesiastico con Mastro Giovanni Fera e Antonio Celonise, cirellese; quindi per deputati del ceto civile: Michele Oliva, Cipriano e Domenico Zappia; del mediocre: Michele Mittica fabbro, Giovanni Battista Morabito e Paolo Virgara; per l’inferiore: Baldassarre Perre, Assunto Romeo e Giuseppe Trimboli. A redigere il tutto fu chiamato Domenico Calipareo dell’ordines serviens. Tutti dovettero tenere conto degli atti, delle rivele, degli apprezzi come delle once, appartenenti ai cittadini residenti, dei forestieri residenti e dei bonateneti, che abitavano in altri territori: Palmi, Oppido, Lubrichi, Bovalino, Ardore, Bombile, Natile, Careri, Cirella, Santa Cristina e Santa Eufemia. Ne uscì fuori un compendio, un manoscritto da decifrare, che alcuni facinorosi oggi si sono messi a copiare. Un regalo di Natale devoluto da tutti i Signori prima citati. Robba, con due bi, da pazzi!


In apertura un negativo colliquato che ritrae Caterina Fera, madre dell'autore della foto, il medico Giuseppino Mittiga: guardate ben il volto e le mani, la mamma sembra quasi biasimare il figlio.