05.03.1824 = Flòccari Saverio - Violi Elisabetta di Giuseppe
Saverio nacque l’11 marzo 1797,
il 5 marzo del 1824 – giusto 197 anni addietro, cosa potevano pensare i novelli
sposi in quel dì felice che non sarebbero stati dimenticati – era un giovane
bovaro di ventisette anni, figlio di Rocco che invece era un grado più alto,
massaro di bovi, e di Caterina Taliano, la quale non poté conoscere quella
felicità essendo venuta a mancare prima. L’abitazione di Saverio e Rocco si trovava
nel Vico Vallone. Elisabetta era figlia di Giuseppe, vaticale, e di Teresa
Molluso e di casa stavano in Vico San Nicola. Elisabetta, o meglio Bettina era
una ragazzina di appena quattordici anni – era nata il 30 luglio del 1810. Al momento della sua venuta in questo universo il paese, più giusto l’Università
di Mottaplatì,era sotto lo
scettro napoleonico. Al Comune era stata registrata come Agata Carmela mentre
al fonte battesimale fu chiamata Maria Elisabetta. Nel 1810 sindaco era
Domenico Zappia mentre il giorno del matrimonio era Domenico Oliva e la
notifica fu affissa sulla porta della casa comunale il primo di
quel mese che, come usanza, era domenica, non ricevendo opposizioni di sorta. A
firmare col sindaco furono i due già citati Filippo Tripepi e Pasquale Perri, con
loro Francesco e Paolo Iermanò rispettivamente di anni cinquanta il primo e trenta
il secondo. In chiesa il matrimonio fu celebrato alla presenza di Domenico
Morabito e Don Vincenzo Oliva.
A questo punto, curioso come i gatti, ho dovuto sapere di più su
Filippo Tripepi vista la persistenza a volerlo come testimone di nozze.
Filippo nacque l’1 ottobre del
1792 da Francesco e Giulia Pugliese. Come detto di professione era vaticale ed
abitava nella Strada San Pasquale con i genitori ed un fratello minore,
Giuseppe (15.10.1798). In quel tempo il clan Tripepi era uno sparuto gruppo - e
tale restò – proveniente probabilmente da Cirella come attesta una nota di
Ernesto Gliozzi il giovane. Il 13 maggio dell’anno 1825 egli sposò Francesca
Trimboli, anch’essa una ragazzina di quindici anni, era nata il 31 gennaio del
1807, figlia di Nicola ed Anna Sergi. La famiglia Trimboli era domiciliata
nella Strada Pietra d’Angela. Ad unirli in matrimonio fu il dotto Arciprete
Francesco Oliva con accanto Francesco Caruso e Antonio Zappia. In Comune con
loro c’erano Tommaso Morabito cinquantenne pecoraio, Francesco Zappia bracciale
di trentadue anni, Domenico Dimarco di anni tretatre e … come in un canone di Johann Pachelbel, Pasquale Perri.
Il celebre Canone contenuto nella pellicola di riferimento è dedicato a tutto il cast completo di oggi e agli sposi in foto, coniugi Ciampa, che aprono la pubblicazione, soprattutto alla Signora Anna Cusenza, che mi ha sempre accolto in casa come un figlio, da poco venuta meno.
Uno strano
cacciatore in una strana terra – Un carniere pieno e una contadina in pensiero
Sulle balze dell’Aspromonte, forse, c'erano cacciatori anche nell'età
del bronzo. Non cacciatori con l'arco e le frecce, ma col fucile, più o meno
perfetto, più o meno automatico. E' tale e tanta la nostra abitudine di vederne sempre in giro su quelle
rocce, in mezzo a quelle boscaglie, che nessuno ci leverà dalla testa questa
convinzione. In ogni ora del giorno e della notte, qualcuno di essi cammina,
col freddo o col solleone, col vento o con la neve, il naso in aria a spiare
tra i rami degli olivi o delle querce il volo dei tordi o delle quaglie, o nei momenti di magra,
anche degli scriccioli. Hanno, d'inverno, il viso arrossato dal freddo, le mani
gonfie per i geloni, e i piedi doloranti; ma camminano imperterriti, e passano
sulle creste dei burroni, sempre col naso in aria; sulle spallette dei ponti,
sempre col naso in aria; sul ciglio di stradette insidiosissime, sempre col naso in aria; si
direbbero i... «pedoni dell’apocalisse»! Uno di costoro è il mio amico Gianni. Egli ha trovato sull'Aspromonte
la sua palestra, e il suo Eden. Ci viene almeno sette volte la settimana, dopo
aver coperto col suo macinino il centinaio di chilometri, che separa il suo paese dal nostro. Cento chilometri all'andata e cento al
ritorno, sempre in macchina; e duecento, trecento... quanti?... sempre a piedi,
col suo pesante «Browning» in ispalla e almeno tre chili di piombo disseminato sul suo corpo in lunghe- cartuccere. Egli di solito spara tutte le sue cartucce; ma non torna mai a mani
vuote. Se non trova le pernici trova le quaglie; se non trova le quaglie trova
i tordi; e infine se non trova i tordi trova... le gallinelle selvagge!!! Sicuro, le gallinelle selvagge. Sono bestie che assomigliano stranamente alle galline domestiche, ma
vivono nei boschi, in libertà. Mi trovavo un giorno in giro escursionistico su per l'Aspromonte,
quando incontrai Gianni che tornava da una battuta di caccia. Aveva il carniere
stranamente rigonfio. Lo abbordai elogiandolo per il successo evidente. dalla giornata: - Buona caccia, eh? Gli gridai da lontano. - Già - mugugnò sottovoce - mica male… E così dicendo fece un gesto di commiato. Mi insospettì il suo strano comportamento, e cercai di trattenerlo un
poco. Pretesi di vedere la preda; ma Gianni si rifiutò energicamente di aprirmi
il carniere. - Cosa vuoi vedere ... C'è qualche tordo e una ... una … cosa. - Una che cosa? - mi incaponii. - Una ... gallinella selvatica ... Ora però debbo andare, ché sono sulle tracce di una beccaccia. - E così dicendo, si allontanò, piantandomi in asso. Non ci feci caso. Ma dopo circa un'ora, mentre scendevo, mi spiegai il
mistero della «gallinella selvatica» del mio amico Gianni. A un centinaio di metri di distanza da una cascina, una contadina si
sgolava: «Cici, Cici, Cici ...»: «Cici» è il verso con cui le contadine
calabresi chiamano le galline; ma in questo caso, la contadina urlava al vento,
perché nessuna gallina rispondeva al suo verso. E la verità mi passò in un lampo nella mente. Mi avvicinai. La donna mi
chiese subito se avessi visto la sua gallina: «Era bianca, col collo nero; si
dev'essere allontanata dalla cascina ...». - Mi spiace, non ho visto niente - risposi. E proseguii il cammino. Incontrai Gianni verso sera, in paese. Era in procinto di salire sul
macinino per tornarsene a casa. Aveva l'aria soddisfatta. Mi avvicinai: - Gianni, per favore, mi fai vedere la tua «gallinella
selvatica»? – gli chiesi a bruciapelo. E altrettanto a bruciapelo mi rispose: No! Ma dal suo carniere. Che si appoggiava semi aperto sul sedile della
macchina, s'affacciava la povera preda, dal collo nerissimo, e dal corpo bianco
come l'avorio!! ... MICHELE FERA GAZZETTA DEL SUD, 5 Febbraio 1957
Vista la Prefettizia N.3/U del 4.6.1945 circa la nomina del Segretario
del Comitato di assistenza alimentare ai bambini gestanti nutrici.
ORDINA
L’incarico di Segretario del Comitato Comunale di Assistenza all’Impiegato
Sig. Mittiga Michele fu Rocco il quale avrà la competenza che determinerà la
Prefettura per lavoro straordinario e dovrà attenersi alla osservanza delle
disposizioni prefettizie e del comitato.
Dato a Platì lì 16
gennaio 1946
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
(G. Delfino)
In apertura un ritratto artistico dello zio Michele (1893-1962) da giovane attribuibile al fratello Giuseppino. Il documento riportato è di interesse per la rara coabitazione di SINDACO e COMMISSARIO PREFETTIZIO in un'unica figura e se poi la figura risponde al meglio conosciuto massaru Peppi l'interesse triplica. In effetti, e lo sapete, il Massaro resse il Comune per un breve periodo all'indomani della fine del Secondo Conflitto Mondiale.
In apertura l'immagine - nessuna immagine, se non quella - con cui debuttavano in sordina queste pagine, il 4 febbraio del 2011. Il lavoro era tutto da impostare, il blogger quasi tutto da sperimentare: foto, citazioni di autori in lettura, la decisione di avere il cinema come punto di riferimento per svolgere in dramma storie e documenti che riguardavano la prima parte della testata, quel Platì, assurto a luogo mitico. La seconda parte, Ciurrame, era solo un pre testo, per definire l’altra metà in cui mi dibattevo allora. Quella metà col tempo è andata dissolvendosi per l’lasciare il campo libero di Platì. La benevolenza di quanti hanno cominciato a seguirmi non è mancata e le visualizzazioni sempre in crescita. Il lavoro ha portato riscoperte e nuove amicizie - last but not least il sen. Giuseppe Beniamino Fimognari - forse anche qualche inimicizia. A poco a poco le entrate quasi tutte italiane lasciavano il posto a quelli che stavano in quell’altrove, in particolare di lingua inglese, in cui si erano trasferiti i platiesi. Grazie a quelle pubblicazioni, il luogo d’origine è stato rivissuto. Se c’è un merito quello è stato il vizio di famiglia a conservare tutto, tutto è stato spolverato e rimesso alla luce del sole, o se preferite, del monitor. Negli ultimi tempi, per finirla con questa autocelebrazione, la collaborazione con Rosalba Perri ha dato un nuovo corso, dove il confronto è diventato un maggior impulso alla ragione del lavoro.
Data l'occasione annuncio in anteprima l'imminente pubblicazione di un volume antologico che raccoglie alcuni tra i più significativi momenti della vita di questo blog per i tipi della reggina Leonida Edizioni.
Quando passa trionfante il carro falcato della MORTE, i nostri cuori tremano, le nostre fronti s'incurvano. Lacrime e gemiti accompagnano il rombo del carro funesto che s'invola dietro la soglia misteriosa d’un camposanto dove l’Angelo della Fede conforta i superstiti con la dolce musica della speranza. Perché si piange, perché si geme quando una creatura chiude gli occhi al sole per riaprirli alla luce eterna di DIO? Si piange e si geme perché la nostre debole natura è così fatta: sgorga irresistibile il sangue da una ferita corporale, sgorgano irrefrenabili le lacrime da una ferita ideale. Ma, l'anima nostra deve rimanere ferma e serena nella sublime certezza che il trapasso non rappresenti la fine ma solo il principio dell'immortalità. Signori, noi siamo qui per onorare un uomo prematuramente scomparso che condusse la sua non lunga esistenza nel sacro tempio della famiglia, lavorando tenacemente amando fedelmente soffrendo crudelmente ma confortato da quella pacata rassegnazione che sorregge i credenti e che deriva dalla profonda convinzione che la vita terrena altro non sia che un periodo di prova per meritarsi una vita migliore e imperitura. E questa prova, che per tutti è dura, per Francesco Miceli fu durissima. Due stelle accompagnarono sempre senza mai velarsi i 64 anni del suo terrestre pellegrinaggio: la stella del dolore, la stella del dovere! Dolore Quando ancora è bambino, scoppia sul suo capo la folgore della sventura, perché gli occhi di sua madre si chiudono, perché il cuore di sua madre si spegne e il piccolo resta nel buio nel freddo - solo - all' inizio di une strada che sarà un calvario! Le necessità dell'esistenza costringono il padre e sposare un'altra donna, la carezza della matrigna acuisce nel cuore dell’orfano il tormento della mamma perduta. Perché se ogni altro vuoto può colmarsi, il vuoto che lascia una madre è un abisso che nessuno immensità potrebbe riempire. Quando e appena adolescente, in una notte di terrore, sopra uno sfondo di tenebre impenetrabili, tra gli urli di una moltitudine impotente, la sua casa arde come una fornace. Un essere umano è sottratto a quel rogo crepitante. II povero corpo affumicato e nero vien deposto all'aperto sulla piazza ... Ma l'aria fresca, ma l’aria pura della notte non trovano più la via …
Nota di Rosalba
Francesco Miceli nacque il 4 giugno 1873 da
Giuseppantonio Miceli (classe 1827) e Rosa (Mariangela) Zappia (classe 1847).
Era il terzo dei 4 figli della coppia ed unico a
sopravvivere. La madre morì a trent'anni ed il padre si risposò con Marianna
Pangallo da cui ebbe 3 figlie: Rosa, Anna (deceduta a 1 mese) e Francesca. Rosa
sarebbe diventata monaca di casa e "santona", Francesca sposò un
Trimboli (perlinu).
Giuseppantonio, che nei documenti ufficiali risulta
come sartore, morì tragicamente cercando di spegnere l'incendio (doloso?) che
stava distruggendo il suo allevamento di bachi da seta.
Di mestiere era macellaio e abitava in via San
Pasquale sopra il proprio negozio. Lo chiamavano "u sordateju".
Sviluppò una malattia, la gotta, che gli impediva di
camminare e di fare le scale. Era la moglie a portarlo sulle spalle giù fino
alla bottega di cui si occupavano i figli Antonino e Domenico. Morì nel 1937.
Il testo pubblicato in apertura è stato concesso gentilmente da Pina Miceli
figlia di Nino e Maria Strangio. Di padre in figlia è attribuito a don Giacomo
Tassoni Oliva, ma ad un’attenta lettura - sebbene dattiloscritto e tronco - equiparandolo
ad altri dello stesso genere e tenore, il testo potrebbe essere legittimamente
ricondotto ad Ernesto Gliozzi il vecchio. Conviene ricordare ancora una volta, al di là delle attribuzioni
autoriali, la vivacità intellettuale che attraversava il paese in quel periodo
storico che va dai primi del secolo all’inizio del secondo conflitto mondiale.
Io qui sottoscritto Gliozzi Luigi fu Francesco vendo a Timpani Domenico fu Pasquale un locale edificatorio sito nel mio orto in contrada Piruselli. Si spiega che detto locale ha cominciamento dalla macerie che divide il mio orto da quello di Caruso Giosofatto per la lunghezza in linea retta di metri dodici. Tra la linea assegnata al Timpani e la casa di Michele Demarco dovrà correre una strada larga quattro metri che va a sboccare nella via Filanda. La larghezza di detto locale venduto è sino all’acquedotto del molino di Marando Antonio. Il prezzo stabilito è in lire duemila e cento (£ 2100) che mi ho ricevuto e di cui dono finale quietanza. Platì 14 ottobre 1923 Luigi Gliozzi fu Francesco
Involontariamente il nonno tracciò per noi un racconto breve, seppur pieno di nomi e notizie.
Giuseppe Delfino era nato a Bova il 26 marzo 1888 in una casa colonica di contrada Guardiola di proprietà del barone Nesci. A vent’anni, per un furto di bestiame subito si arruola nei carabinieri. Non ha il tempo d’indossare la divisa che è già all’opera, nell’operazione di soccorso a favore della popolazione per il terremoto di Messina. Riceve la prima medaglia d’argento. Per venticinque anni (sino al 1933) è presente nei punti più nevralgici della Calabria per combattere la criminalità organizzata e bande di disertori, con missioni delicatissime in altre regioni. Rifugge spesso dalla divisa. Si travisa da frate cercone alle dipendenze di don Ciccio Pangallo, priore del Santuario di Polsi che gli fornisce una mula ed un saio con la patacca argentata del convento, da massaro (da qui il nome di Massaro Peppe), da carrettiere, da mastro di ballo, sensale ed accattone. Per scoprire un’organizzazione mafiosa diventa latitante ed infiltrate nella cosca. Fa il «pentito» e smaschera tutta l'organizzazione. L'avvocato dei mafiosi chiede l’incriminazione in corte d’assise per aver partecipato effettivamente ad un furto. Aveva fatto da palo. Massaro Peppe è entrato nella leggenda ed a cento anni dalla sua nascita, il figlio Antonio, giornalista ed autore del libro «Gente di Calabria» rievoca i fatti più significativi e clamorosi partendo con le «testimonianze letterarie» di Corrado Alvaro, Mario La Cava e Saverio Strati. Testo apparso su Calabria Sconosciuta
NOTE
frate cercone era un frate cappuccino, molto spesso laico, questuante, che umilmente si presentava con l’esclamazione "pace e bene" di paese in paese, da porta a porta, per chiedere l’elemosina. Era una figura che spesso appariva in paese. La zia Amalia e lo zio Ernesto lo ricordavano ancora quando si parlava della Polsi che non c'è più.
Francesco Pangallo, Platì 1876 – 1939, già vice superiore di Mons. Giosofatto Mittiga, resse il Santuario di Polsi dal 1927 all’anno della sua morte.
Giuseppe Delfino - nella foto a Polsi con il precedente - morì a Platì il 14 agosto del 1954.