Please keep my heart a little longer
C’era un tempo in cui il giorno dei morti, in
paese, era il momento della morte collettiva. Forse ancora è così. Ma in quei
giorni il rituale era diverso. Il cambiamento è avvenuto al momento della
frattura tra il paese e me. Non mi dovete fraintendere, io non c’entro niente.
Chi ha messo mano su tutto è stata la riforma della liturgia ecclesiastica che
veniva approntata in quell momento.
Allora ...!
Il due novembre per come lo ricordo io è un
giorno estivo che ferma per un istante il moto della natura. E’ l’Indian Summer, come la definiscono gli
americani della West Coast. La luce è smaltata di bianco; non il bianco di
luglio/agosto su cui si infrange il giallo oro del grano o, più spesso,
dell’erba secca. E’ un bianco pulito che si ripercuote, se volete, sulle foglie
degli ulivi che circondano il cimitero, sui cipressi che fanno da squadrone in
riga ai lati del cancello d’ingresso.
Il rito della commemorazione dei defunti
comincia nella chiesa maggiore, al centro di una scenografia dominata dal nero:
neri sono i paramenti dell’arciprete coadiuvato per l’occasione dallo zio
Ciccillo; neri, stendardi e stoffe cadenti dalle colonne della navata centrale.
La messa va avanti per un bel po, cantata, o meglio gorgheggiata da Micuzzu che
si accompagna all’armonium. La coesione al tutto dipende dal chiarore che si
spande dalle miriade di candele e cirogini e dall’odore dell’incenso profuso a
mani larghe, più che nella festa di San
Rocco.
Finita la messa con la benedizione generale di
tutti i morti, quelli del paese intendo, l’arciprete in piviale e lo zio
Ciccillo con una semplice cotta, partono in processione per il camposanto. Li
precedono quelli della congregazione del Rosario incappucciati di nero e
innanzi a quest’ultimi i Luigini con fascia nera a tracollo. Davanti a tutti
Raimondo vestito da chierichetto che porta la croce, la stessa che si usa
ancora oggi nelle processioni.
Il camposanto è già stato preso d’assalto fin
dalle prime luci dell’alba, sono passati già tutti gli uomini che si recano in
campagna. In quel luogo sono le donne a dominare la scena, sono le officianti
di un rito fatto di lamenti, pianti, grida: “ ora convulsi, quasi prossimi ad una vera e propria crisi parossistica,
ora invece più umani, risolti in lunghe melopee velate di pianto “ per citare
Ernesto De Martino.
Ma c’è anche un aspetto ludico in questo
tripudio mortuario che, come il solito, lo danno bambini e ragazzi. Essi vagano
curiosi intorno alle tombe, più volentieri sostano nella spoglia cappella, che
poi è l’ossario; su tutto il pavimento, sull’altare spoglio, sui candelieri si
consumano e si riforniscono di continuo le candele, per cui i ragazzi sono lì a
raccogliere la cera tiepida, ancora molle, per farne delle palle.
Tutto questo trambusto era avvertito dal paese,
poco distante dal cimitero, che per quel giorno era diventato un teatro dove
assieme al dolore venivano rivissute le morti, spesso tragiche, ancora
grondanti sangue.