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mercoledì 10 agosto 2016

Ferdinando il duro (reg. Alexander Kluge - 1976)



Tutto può succedere. Tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono. Sul  terreno fragile della realtà l’immaginazione viene fuori e tesse nuovi modelli. August Strindberg
citato da Ingmar Bergman in Fanny e Alexander, 1982

Con questo mio testo, qui riveduto in alcune parti, apparso sulla rivista in Aspromonte del luglio c. a., non ho inteso ascendere a mero o futile critico, quanto presentare il lavoro di un giovane amico, arrivato nell’alba del mio tramonto, diventato, nell’arco di pochi giorni, padre e scrittore, in una Platì dove è arduo e da coraggioso essere entrambe queste figure, perché negate dalla politica degli asserviti ufficiali.

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L’uomo comune è poco, l’eroe è troppo!
Sergio Leone, Il Colosso di Rodi, 1961

Tutto non è che un ritorno nel ritorno. Ancora indolente per il riposo pomeridiano ricevo l’annuncio di Michele che la domenica successiva ci sarà la presentazione del suo libro. Eppure non erano passati che pochi giorni da quando sotto la veranda di casa sua c’era stata una gradevole discussione, presente Bettina, se Natale andava promosso o meno. Sorpreso, il pensiero si concretizza come precipitazione. E’ un istante perché, per mezzo della mente che è un grande morphing, sopraggiunge la gioia per quello che sarà il più bel giorno della vita del paese da cinquecento anni a questa parte. La cronaca di quell’evento è affidata ora all’etere. Rientrato nella città dello Stretto, sfogliando gli usuali, pochi, indirizzi web vengo a sapere che Mimmo Palmara non è più. Di colpo ecco che mi ritrovo in quella sala, erano appena trascorse ventiquattro ore, che fu il Cinema Loreto di Platì dove si impresse per sempre nella fantasia il volto di Mimmo Palmara: appeso ad una trave cerca di schivare le frecce del nemico ne Il Colosso di Rodi. Molti anni passarono prima di scoprire chi firmava la regia, ma quel film generò tutti i miei sogni fanciulleschi che saranno spazzati solo con la visione del lavoro successivo sempre dello stesso artefice, involontariamente annunciato con insistenza da Mimmo Addabbo, quando per farci accorrere al cinema usava proprio la musica di quel secondo film. Ecco che sento il bisogno di vedere Il Colosso di Rodi mai più rivisto. Cominciata la visione, dopo le prime sequenze, in un colloquio tra Lea Massari e Rory Calhoun, l’attrice italiana afferma il testo riportato in apertura. All’istante la frase mi anticipa quelle che saranno le intenzioni di Michele attraverso il suo libro, di cui avevo letto solo la prefazione ed il primo capitolo. Allora, lo vogliamo rimettere in piedi questo Cinema Loreto di Platì!

Qui siamo nel West dove quando la leggenda incontra la realtà stampiamo la leggenda.
John Ford, L’uomo che uccise Liberty Valance, 1961

Il Regno delle due Sicilie è il solo, assieme al west americano, dove visioni di grandezza, avventura, ferocia e cataclismi si danno la mano.  Vorrei che questo mio commento al libro di Michele lo pensaste come fatto ad un film per il grande schermo; non il 16:9 sebbene il 2.35, insomma, quello di C’era una volta il West. La materia la possediamo tutta: la lotta tra il bene e il male, la storia d’amore, i personaggi intagliati “ca cugnateja” che poi sarebbe la piccola scure portata appesa al braccio dal lato tagliente, i duelli all’ultimo sangue e, su tutto il magnifico, grande paesaggio che si estende ai piedi dell’Aria del Vento  fino ai serri di Acone e dove il Ciancio borbotta la sua indolenza a confluire nel Careri. Ma il Cinema è morto. E alla Calabria è sempre mancato il suo grande autore in 35 mm.


“ E’ una reliquia, un residuo di un’altra epoca e di un’altra terra”
Sidney Pollack, The Yakuza, 1973

Michele Papalia da subito si lascia alle spalle Corrado Alvaro per incontrare Saverio Strati. E’ un attimo, perché anche lo scrittore di Sant’Agata del Bianco viene superato per mezzo di una prosa agile e avventurosa che innalza il fatto di cronaca a momento senza tempo, conducendoci dalle viuzze platiote popolate di donne, trecce a corona in testa, nero vestite e bambini mal nutriti, rovinati molto spesso dal vaiolo se non dalla poliomelite, a ridosso di un Aspromonte verde come mai, dove un manipolo di uomini combatte una battaglia insensata, persa in partenza. L’amarezza dell’autore è pari a quella vissuta da Umberto  Zanotti Bianco per l’abbandono in cui versava la Magna Grecia.Il suo è un neorealismo ritornato verismo.  E forse Caci il brigante non ha mai afferrato perché è capitato proprio a lui, figlio benestante, aspettato e perduto per sempre . Il ritratto che Michele incide per noi, come su una lastra fotografica, è quello di un ribelle con una causa, sicuro di sé, che incontra la morte col sorriso in bocca;condensando in questo l’idea che molti di noi si sono fatta attraverso i racconti di genitori e nonni, rivissuti attraverso le sequenze che uscivano dallo schermo del Cinema Loreto. C’è da chiedersi come mai un personaggio della levatura di don Ferdinando Mittiga sia nato, vissuto e svolto la sua saga nelle terre di Platì. La risposta è facile se alla vostra attenzione ritorna quanto vado riproponendo nel web da un pò di anni a questa parte. Platì in quei tempi  non era  “il buco del culo del mondo” che certi mal informati storici e inquisitori ben pagati ci vogliono trasmettere, era un paese aperto in tutte le latitudini e longitudini per mezzo dei commerci che creavano legami familiari; commerci e legami creavano a loro volta benessere e malessere e dove il benessere fa fronte col malessere nascono disagi per molti, ricchezza per pochi, cosa che io chiamo col suo vero nome: strozzinaggio in un primo momento, emigrazione il passo  successivo. Si dava ad usura la propria moglie, la figlia, i propri bambini, la terra per avere pochi ducati onde comprare sementi dal cui raccolto, scarsamente redditizio, non sarebbe uscito il riscatto ma ancora usura. La praticavano tutti: dal signorotto al parroco al ceto medio borghese. Questo stato di fatto durerà sino alla fine della seconda guerra mondiale quando allora, e, pensateci,veramente allora, tutto cambierà per restare com’era, gettando Platì  in pasto ai forestieri ed alla politica figlia di quel conflitto.
Caci il  brigante è il libro atteso e sperato per anni e consegnare Ferdinando Mittiga alla storia o alla leggenda non è che il pretesto per richiamare la storia più recente di Platì: ancora sangue, ancora lutti, mai più ritorni.


Michele Papalia, Caci il brigante, Leonida Edizioni, 2016

Al centro della foto, di Salvatore Carannante, Michele appare tra i due Catanzariti, figlio e padre, e lo stempiato blogger.

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