Tutto
può succedere. Tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono. Sul terreno fragile della realtà l’immaginazione
viene fuori e tesse nuovi modelli.
August Strindberg
citato da Ingmar Bergman in Fanny e Alexander, 1982
Con questo mio testo, qui
riveduto in alcune parti, apparso sulla rivista in Aspromonte del luglio c. a., non ho inteso ascendere a mero o
futile critico, quanto presentare il lavoro di un giovane amico, arrivato nell’alba
del mio tramonto, diventato, nell’arco di pochi giorni, padre e scrittore, in
una Platì dove è arduo e da coraggioso essere entrambe queste figure, perché
negate dalla politica degli asserviti ufficiali.
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L’uomo comune è poco, l’eroe è
troppo!
Sergio Leone, Il Colosso di Rodi, 1961
Tutto non è che un ritorno nel ritorno. Ancora indolente per il riposo
pomeridiano ricevo l’annuncio di Michele che la domenica successiva ci sarà la
presentazione del suo libro. Eppure non erano passati che pochi giorni da
quando sotto la veranda di casa sua c’era stata una gradevole discussione,
presente Bettina, se Natale andava promosso o meno. Sorpreso, il pensiero si
concretizza come precipitazione. E’ un istante perché, per mezzo della mente
che è un grande morphing, sopraggiunge la gioia per quello che sarà il più bel
giorno della vita del paese da cinquecento anni a questa parte. La cronaca di
quell’evento è affidata ora all’etere. Rientrato nella città dello Stretto,
sfogliando gli usuali, pochi, indirizzi web vengo a sapere che Mimmo Palmara
non è più. Di colpo ecco che mi ritrovo in quella sala, erano appena trascorse
ventiquattro ore, che fu il Cinema Loreto
di Platì dove si impresse per sempre nella fantasia il volto di Mimmo
Palmara: appeso ad una trave cerca di schivare le frecce del nemico ne Il Colosso di Rodi. Molti anni passarono
prima di scoprire chi firmava la regia, ma quel film generò tutti i miei sogni fanciulleschi
che saranno spazzati solo con la visione del lavoro successivo sempre dello
stesso artefice, involontariamente annunciato con insistenza da Mimmo Addabbo,
quando per farci accorrere al cinema usava proprio la musica di quel secondo
film. Ecco che sento il bisogno di vedere Il
Colosso di Rodi mai più rivisto. Cominciata la visione, dopo le prime
sequenze, in un colloquio tra Lea Massari e Rory Calhoun, l’attrice italiana
afferma il testo riportato in apertura. All’istante la frase mi anticipa quelle
che saranno le intenzioni di Michele attraverso il suo libro, di cui avevo
letto solo la prefazione ed il primo capitolo. Allora, lo vogliamo rimettere in
piedi questo Cinema Loreto di Platì!
Qui siamo nel West dove quando la
leggenda incontra la realtà stampiamo la leggenda.
John Ford, L’uomo che uccise Liberty Valance, 1961
Il Regno delle due Sicilie è il solo, assieme al west americano, dove visioni
di grandezza, avventura, ferocia e cataclismi si danno la mano. Vorrei che questo mio commento al libro di
Michele lo pensaste come fatto ad un film per il grande schermo; non il 16:9
sebbene il 2.35, insomma, quello di C’era
una volta il West. La materia la possediamo tutta: la lotta tra il bene e
il male, la storia d’amore, i personaggi intagliati “ca cugnateja” che poi
sarebbe la piccola scure portata appesa al braccio dal lato tagliente, i duelli
all’ultimo sangue e, su tutto il magnifico, grande paesaggio che si estende ai
piedi dell’Aria del Vento fino ai serri di Acone e dove il Ciancio
borbotta la sua indolenza a confluire nel
Careri. Ma il Cinema è morto. E alla Calabria è sempre mancato il suo grande
autore in 35 mm.
“ E’ una reliquia, un residuo di
un’altra epoca e di un’altra terra”
Sidney Pollack, The Yakuza, 1973
Michele Papalia da subito si lascia alle spalle Corrado Alvaro per
incontrare Saverio Strati. E’ un attimo, perché anche lo scrittore di
Sant’Agata del Bianco viene superato per mezzo di una prosa agile e avventurosa
che innalza il fatto di cronaca a momento senza tempo, conducendoci dalle
viuzze platiote popolate di donne, trecce a corona in testa, nero vestite e
bambini mal nutriti, rovinati molto spesso dal vaiolo se non dalla poliomelite,
a ridosso di un Aspromonte verde come mai, dove un manipolo di uomini combatte
una battaglia insensata, persa in partenza. L’amarezza dell’autore è pari a
quella vissuta da Umberto Zanotti Bianco
per l’abbandono in cui versava la Magna Grecia.Il suo è un neorealismo
ritornato verismo. E forse Caci il
brigante non ha mai afferrato perché è capitato proprio a lui, figlio
benestante, aspettato e perduto per sempre . Il ritratto che Michele incide per
noi, come su una lastra fotografica, è quello di un ribelle con una causa,
sicuro di sé, che incontra la morte col sorriso in bocca;condensando in questo
l’idea che molti di noi si sono fatta attraverso i racconti di genitori e
nonni, rivissuti attraverso le sequenze che uscivano dallo schermo del Cinema
Loreto. C’è da chiedersi come mai un personaggio della levatura di don Ferdinando
Mittiga sia nato, vissuto e svolto la sua saga
nelle terre di Platì. La risposta è facile se alla vostra attenzione
ritorna quanto vado riproponendo nel web da un pò di anni a questa parte. Platì
in quei tempi non era “il buco del culo del mondo” che certi mal
informati storici e inquisitori ben pagati ci vogliono trasmettere, era un
paese aperto in tutte le latitudini e longitudini per mezzo dei commerci che
creavano legami familiari; commerci e legami creavano a loro volta benessere e malessere
e dove il benessere fa fronte col malessere nascono disagi per molti, ricchezza
per pochi, cosa che io chiamo col suo vero nome: strozzinaggio in un primo
momento, emigrazione il passo successivo.
Si dava ad usura la propria moglie, la figlia, i propri bambini, la terra per
avere pochi ducati onde comprare sementi dal cui raccolto, scarsamente
redditizio, non sarebbe uscito il riscatto ma ancora usura. La praticavano
tutti: dal signorotto al parroco al ceto medio borghese. Questo stato di fatto
durerà sino alla fine della seconda guerra mondiale quando allora, e,
pensateci,veramente allora, tutto cambierà per restare com’era, gettando Platì in pasto ai forestieri ed alla politica figlia
di quel conflitto.
Caci il brigante è il libro atteso e sperato per
anni e consegnare Ferdinando Mittiga alla storia o alla leggenda non è che il
pretesto per richiamare la storia più recente di Platì: ancora sangue, ancora lutti,
mai più ritorni.
Michele Papalia, Caci il brigante, Leonida Edizioni, 2016
Al centro della foto, di Salvatore Carannante, Michele appare tra i due Catanzariti, figlio e padre, e lo stempiato blogger.