LA CIVILTA' SCOMPARSA
di Giuseppe Berto
Signuri, chi a lu poviru fa’ dunu di la ricchezza di la puvirtati:
Signore,
che dai in dono al povero la ricchezza della povertà. Cosi, in tempi lontani, cantavano
le donne calabresi che andavano a raccogliere le ginestre. Raccogliere ginestre
sotto il sole d’agosto, in terreni aridi e infuocati, era lavoro duro, e per
affrontarlo c’era bisogno di incoraggiamenti celesti. La ricchezza della
povertà aveva sicuramente valore escatologico: i poveri sarebbero diventati
ricchi, padroni delle ginestre e datori dii lavoro, avrebbero trovato molte
difficoltà a entrare. Oggi le ginestre non si raccolgono più, come non si
raccolgono più i fichidindia per alimentare sé stessi e il maiale, né gli sterpi
per cuocere il pane nel forno di campagna. Talvolta si lasciano marcire sui
rami anche i fichi e le olive, i mandarini e gli aranci. Non paga la spesa.
Nelle terre del Sud la miseria, come condizione generalizzata, non esiste più,
e la povertà non e più una ricchezza nemmeno per i cristiani.
Allora si è tentati di dare all’espressione «ricchezza della povertà» un
diverso significato perché, ora che l’abbiamo malamente dilapidata, ci
accorgiamo che la povertà aveva conservato una grande ricchezza morale e
materiale: un modo di pensare e di
parlare, di comportarsi, di farsi i vestiti e indossarli, costruirsi una casa,
lavorare la terra, piantare un albero e insomma operare in un ambiente con
umiltà. Tutto questo si chiama civiltà contadina, e la civiltà contadina,
spegnendosi, ci aveva lasciato in eredita un paesaggio intatto, bellissimo.
La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto,
civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle
nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti, dal consumismo e
industrializzazione, che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i
calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a
distruggere il proprio passato - anche gli alberi, le case, il paesaggio - con
un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto
all’altezza di Iesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare.
Bisogna cercare nell’inconscio.
A.C. Swinburne, poeta inglese dell’Ottocento, ci informa che nei tempi della
dominazione saracena a Reggio, maestosi boschetti di palme ornavano il
territorio, ma parecchi furono tagliati quando i reggini ripresero possesso
della loro citta, essendo essi dei ricordi di usurpazione infedele. Quando
Swinburne forniva questa informazione, Sigmund Freud non aveva ancora iniziato
le sue esplorazioni del profondo, né tanto meno Carl Gustav Jung aveva
azzardato ipotesi sull’inconscio collettivo. Oggi con l’aiuto della
psicoanalisi, possiamo tentare di dare una spiegazione più completa pulsione
autodistruttiva che, di colpo, ha preso i Calabresi. Il fatto è che la loro
civiltà contadina era si semplicità, misura, saggezza e poesia, grandissima
nobiltà e onestà dell’animo popolare, ma era anche miseria, disumane fatiche,
denutrizione, sporcizia, esuberanza sia di nascite che di morti premature.
Circa vent’anni fa, quando il consumismo di una civiltà industriale già
fortemente contestata nei paesi dove c’era vera civiltà industriale, cominciò
ad abbattersi su popolazioni contadine impreparate, quando sopraggiunse una
improvvisa quanto insufficiente ricchezza, i calabresi, come mossi da una
spinta incontenibile, si rivoltarono contro il proprio passato di miseria, si
misero a distruggere con rabbia tutto ciò che poteva ricordarglielo, anche il
paesaggio purtroppo, esattamente come avevano fatto i loro antenati reggini coi
maestosi boschetti di palme che ricordavano la dominazione saracena. La
Calabria ha fatto, negli ultimi vent’anni, un salto traumatico, che ha portato
grandi danni, e presumibilmente ne porterà di ancora maggiori. Il reddito è
aumentato, il tenore di vita e le condizioni igieniche e sanitarie sono migliorate.
Di questo, non è lecito rammaricarsi. Ma ci si può chiedere se mangiare e
vestire meglio, possedere un’automobile o una lavatrice, avere l’acqua corrente
in casa e la fognatura fuori, comportava di necessità la frettolosa distruzione
di una civiltà, perfino di un paesaggio e di una nobilissima architettura
rurale e paesana che a quella civiltà erano legati. L’uscita - giustissima, e
del resto inevitabile - da una economia contadina ha provocato un disastro
perché è avvenuta senza la guida, il conforto di una cultura. Gli uomini di
cultura calabresi - fatta qualche eccezione gloriosa, per esempio il professor Tanino De Santis di Cosenza, che
ebbe meritato riconoscimento all’ultimo Premio Ecologia Firenze - sono stati
indifferenti spettatori della distruzione, quando non vi abbiano anch’essi
partecipato.
Cosi, chilometri di coste, specie lungo il Tirreno, in pochi anni si sono coperte
di cemento: fin sulla spiaggia orribili costruzioni d’una meschinità deprimente,
d’un cattivo gusto funereo, sulle quali trionfano i cartelli Gabetti vende,
Omnia vende, Palumbo vende, e via dicendo. I calabresi si sono venduta l’anima
per un piatto di lenticchie. Sulla Calabria s’è abbattuta una distruzione più
maligna di quella dei terremoti, e i principali responsabili sono le amministrazioni
locali - quasi tutte avide e ottuse - e i vari governi e governanti, che hanno
sempre affrontato e continuano ad affrontare il problema del Mezzogiorno con
stupefacente rozzezza. Anche la costa dove ci troviamo è fortemente compromessa,
né c’è barlume di speranza che possa salvarsi: all’orizzonte si scorge l’inutile
scempio del centro siderurgico. Da vent’anni abito a Capo Vaticano e ho fatto
donchisciottesche battaglie per fermare la rovina. Qui accanto c’è la Baia di
Santa Maria, e ognuno può andarvi a vedere ciò che non si sarebbe dovuto fare.
La mostra di oggetti-sculture di civiltà contadina che ho voluto organizzare
continua un discorso polemico iniziato tanti anni fa. Ad essa è legata una
piccola speranza: che i calabresi comincino a guardare con rispetto alloro
passato e operino per conservare quanto della loro antica civiltà non è stato ancora distrutto.
Agosto 1977
Il testo
riportato mi è stato regalato dal dottor Roberto Motta psichiatra e
psicoterapeuta, acuto conoscitore dell’animo calabrese, così come del
territorio.
Le foto
in apertura, Polsi, sono di Sandro Messina, nella seconda delle due l'antica casa dei pratioti, restaurata e destinata a nuovo utilizzo.