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sabato 31 agosto 2024

La Bibbia [John Huston, 1966]

Ogni uomo dimora in ogni altro e ogni altro in lui e così via, in un infinito intreccio di essere e di testimoniare dell’essere” Cormac McCarthy, 1985

 


Il trentuno agosto del milleottocentotrentatre alle ore otto veniva a mancare in Platì Francesco Mittiga, calzolajo figlio di Michele e Brigida Pizzi, marito di Angela Jetto. A denunciare la morte furono i vicini di casa Carlo Jelasi e Antonio Pangallo. L’atto di morte registra che al momento del decesso Francesco aveva sessantasei anni. Eppure se teniamo conto dei catasti onciari del 1754 un Francesco Mittica figlio di Michiele e Brigida Pizzi della città di Reggio era nato proprio in quell’anno catastale.
Biblicamente:
Michele generò Agostino, siamo nella prima metà del XVII° secolo, che sposò Caterina Oliva, sorella del pontefice massimo Don Tolentino. Da questi ultimi nacque il sopracitato Michiele che generò Francesco, che generò Rocco, che generò Francesco, che generò Rosario, che generò Francesco che con Caterina Gliozzi generò Saro, Maria, Elisabetta, Gino e Gianni. Di generazione in generazione fino al nonno Rosario svolsero tutti la nobile arte del calzolajo.
Come in uno specchio l’ordine sopra svolto non cambia se teniamo conto della nonna Lisa (Elisabetta Mittiga sposa di Luigi Gliozzi): Michele generò Rocco che generò Michele … 
Il ramo Agostino che generò Domenico che generò Agostino che generò Francesco che generò Agostino è verde ancora ai nostri giorni.
È probabile che i primi Mittica/ga insediati a Platì provenissero dalla vicina Ardore dove abitava Stefano Mittiga calzolajo, in quella città sede di Mandamento vi era pure una contrada appellata Mittiga. Provata invece è la provenienza da Ardore degli Gliozzi con il patriarca il Magnifico Notar Fabrizio.
Il nostro passato ritorna nel presente; è il presente. Jorge Sanjinés, 1989

Questa pubblicazione serve per aggionare la precedente:
https://iloveplati.blogspot.com/2016/12/lalbero-della-vita-reg-edward-dmytryk.html

Di più qui:

In apertura un giovanissimo nonno Rosario con i genitori Rachele Riganò e Francesco Mittiga.

martedì 6 agosto 2024

Il male oscuro [Mario Monicelli, 1990]

 



LA CIVILTA' SCOMPARSA
di Giuseppe Berto

Signuri, chi a lu poviru fa’ dunu di la ricchezza di la puvirtati:

Signore, che dai in dono al povero la ricchezza della povertà. Cosi, in tempi lontani, cantavano le donne calabresi che andavano a raccogliere le ginestre. Raccogliere ginestre sotto il sole d’agosto, in terreni aridi e infuocati, era lavoro duro, e per affrontarlo c’era bisogno di incoraggiamenti celesti. La ricchezza della povertà aveva sicuramente valore escatologico: i poveri sarebbero diventati ricchi, padroni delle ginestre e datori dii lavoro, avrebbero trovato molte difficoltà a entrare. Oggi le ginestre non si raccolgono più, come non si raccolgono più i fichidindia per alimentare sé stessi e il maiale, né gli sterpi per cuocere il pane nel forno di campagna. Talvolta si lasciano marcire sui rami anche i fichi e le olive, i mandarini e gli aranci. Non paga la spesa. Nelle terre del Sud la miseria, come condizione generalizzata, non esiste più, e la povertà non e più una ricchezza nemmeno per i cristiani.
Allora si è tentati di dare all’espressione «ricchezza della povertà» un diverso significato perché, ora che l’abbiamo malamente dilapidata, ci accorgiamo che la povertà aveva conservato una grande ricchezza morale e materiale:  un modo di pensare e di parlare, di comportarsi, di farsi i vestiti e indossarli, costruirsi una casa, lavorare la terra, piantare un albero e insomma operare in un ambiente con umiltà. Tutto questo si chiama civiltà contadina, e la civiltà contadina, spegnendosi, ci aveva lasciato in eredita un paesaggio intatto, bellissimo.
La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti, dal consumismo e industrializzazione, che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato - anche gli alberi, le case, il paesaggio - con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Iesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio.
A.C. Swinburne, poeta inglese dell’Ottocento, ci informa che nei tempi della dominazione saracena a Reggio, maestosi boschetti di palme ornavano il territorio, ma parecchi furono tagliati quando i reggini ripresero possesso della loro citta, essendo essi dei ricordi di usurpazione infedele. Quando Swinburne forniva questa informazione, Sigmund Freud non aveva ancora iniziato le sue esplorazioni del profondo, né tanto meno Carl Gustav Jung aveva azzardato ipotesi sull’inconscio collettivo. Oggi con l’aiuto della psicoanalisi, possiamo tentare di dare una spiegazione più completa pulsione autodistruttiva che, di colpo, ha preso i Calabresi. Il fatto è che la loro civiltà contadina era si semplicità, misura, saggezza e poesia, grandissima nobiltà e onestà dell’animo popolare, ma era anche miseria, disumane fatiche, denutrizione, sporcizia, esuberanza sia di nascite che di morti premature.
Circa vent’anni fa, quando il consumismo di una civiltà industriale già fortemente contestata nei paesi dove c’era vera civiltà industriale, cominciò ad abbattersi su popolazioni contadine impreparate, quando sopraggiunse una improvvisa quanto insufficiente ricchezza, i calabresi, come mossi da una spinta incontenibile, si rivoltarono contro il proprio passato di miseria, si misero a distruggere con rabbia tutto ciò che poteva ricordarglielo, anche il paesaggio purtroppo, esattamente come avevano fatto i loro antenati reggini coi maestosi boschetti di palme che ricordavano la dominazione saracena. La Calabria ha fatto, negli ultimi vent’anni, un salto traumatico, che ha portato grandi danni, e presumibilmente ne porterà di ancora maggiori. Il reddito è aumentato, il tenore di vita e le condizioni igieniche e sanitarie sono migliorate. Di questo, non è lecito rammaricarsi. Ma ci si può chiedere se mangiare e vestire meglio, possedere un’automobile o una lavatrice, avere l’acqua corrente in casa e la fognatura fuori, comportava di necessità la frettolosa distruzione di una civiltà, perfino di un paesaggio e di una nobilissima architettura rurale e paesana che a quella civiltà erano legati. L’uscita - giustissima, e del resto inevitabile - da una economia contadina ha provocato un disastro perché è avvenuta senza la guida, il conforto di una cultura. Gli uomini di cultura calabresi - fatta qualche eccezione gloriosa, per esempio il professor Tanino De Santis di Cosenza, che ebbe meritato riconoscimento all’ultimo Premio Ecologia Firenze - sono stati indifferenti spettatori della distruzione, quando non vi abbiano anch’essi partecipato.
Cosi, chilometri di coste, specie lungo il Tirreno, in pochi anni si sono coperte di cemento: fin sulla spiaggia orribili costruzioni d’una meschinità deprimente, d’un cattivo gusto funereo, sulle quali trionfano i cartelli Gabetti vende, Omnia vende, Palumbo vende, e via dicendo. I calabresi si sono venduta l’anima per un piatto di lenticchie. Sulla Calabria s’è abbattuta una distruzione più maligna di quella dei terremoti, e i principali responsabili sono le amministrazioni locali - quasi tutte avide e ottuse - e i vari governi e governanti, che hanno sempre affrontato e continuano ad affrontare il problema del Mezzogiorno con stupefacente rozzezza. Anche la costa dove ci troviamo è fortemente compromessa, né c’è barlume di speranza che possa salvarsi: all’orizzonte si scorge l’inutile scempio del centro siderurgico. Da vent’anni abito a Capo Vaticano e ho fatto donchisciottesche battaglie per fermare la rovina. Qui accanto c’è la Baia di Santa Maria, e ognuno può andarvi a vedere ciò che non si sarebbe dovuto fare.
La mostra di oggetti-sculture di civiltà contadina che ho voluto organizzare continua un discorso polemico iniziato tanti anni fa. Ad essa è legata una piccola speranza: che i calabresi comincino a guardare con rispetto alloro passato e operino per conservare quanto della loro antica civiltà non è stato ancora distrutto.

Agosto 1977 

Il testo riportato mi è stato regalato dal dottor Roberto Motta psichiatra e psicoterapeuta, acuto conoscitore dell’animo calabrese, così come del territorio.

Le foto in apertura, Polsi, sono di Sandro Messina, nella seconda delle due l'antica casa dei pratioti, restaurata e destinata a nuovo utilizzo.